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Con gli occhi dell'altro. Tradurre
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Con gli occhi dell'altro. Tradurre
E-book310 pagine4 ore

Con gli occhi dell'altro. Tradurre

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Questo libro tratta del tradurre e del suo contributo nel costruire alcuni dei concetti che hanno determinato la storia culturale dell’Occidente. La traduzione infatti non ripete il già detto in modo diverso, ma è un’esperienza creativa e un’avventura del pensiero che accetta la sfida di ospitare l’alterità senza annetterla. L’opera si sviluppa attorno ad alcuni nuclei tematici come «altro», «confine», «intraducibile» e, naturalmente, «tradurre». Viene poi presentata una riflessione sulle storie di alcuni concetti che sono stati spesso ritenuti difficilmente interpretabili ma la cui traduzione, al termine di una lunga storia, ha portato a una radicale reinvenzione della tradizione. Un esempio particolarmente significativo è l’immensa opera di traduzione che ha caratterizzato i primi secoli del cristianesimo, traduzione nel senso proprio del termine, come quella di Girolamo, o traduzione culturale e invenzione, come quella operata da alcuni Padri della Chiesa nei confronti della tradizione classica.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita28 ott 2020
ISBN9788816802384
Con gli occhi dell'altro. Tradurre
Autore

Stefano Arduini

È professore ordinario di Linguistica all’Università di Roma Link Campus. Ha insegnato Linguistica generale all’Università di Urbino, all’Università degli Studi Internazionali di Roma, all’Università di Modena e, in Spagna, Letterature comparate alla Università di Alicante e alla Universidad Autónoma di Madrid. Con Jaca Book ha pubblicato Con gli occhi dell’altro. Tradurre, 2020. Traduttore di Giovanni della Croce, ha iniziato con Qohelet, la traduzione dei Cinque Megillot (Qohelet, Rut, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Ester).

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    Con gli occhi dell'altro. Tradurre - Stefano Arduini

    1

    L’ALTRO

    Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi.

    Montaigne, Saggi, libro

    I

    Nell’amicizia di cui parlo, le anime si mescolano e si confondono l’una nell’altra, in una fusione così completa da annullarsi reciprocamente e non trovarsi più la sutura che le ha unite.

    Montaigne, Saggi, libro

    I

    Uno dei temi su cui la riflessione contemporanea si è concentrata con particolare attenzione, almeno a partire dalla lezione del 1929 di Edmund Husserl¹, è quello dell’alterità e del rapporto con l’altro.

    Chi è l’altro? Può essere molto facile darne una definizione: l’altro è colui che è diverso da me, che mi sta di fronte e con cui entro in contatto cercando o meno un rapporto, è un tu, può palesarsi come una faccia, una voce, che, se pure riesco poco a comprendere, come accade se parla una lingua diversa, posso comunque riconoscere. Tuttavia accanto a questo altro vicino ce n’è anche uno che scompare in una moltitudine indistinta. Con questo altro c’è come un solco radicale, un’impossibilità a renderlo faccia e voce concrete.

    Questa distinzione fra modalità diverse di essere «altro» è in qualche modo intuibile dal fatto che molte lingue hanno una pluralità terminologica per nominare l’alterità. In latino, così come in greco, ad esempio, la diversità è marcata da termini diversi che non sono semplicemente uno il plurale dell’altro. In latino alter sta per l’altro fra due, colui che abbiamo di fronte, mentre alius è l’altro fra tanti. Così pure in greco dove la coppia è hèteros e allos². Benveniste (1948, pp. 115-119) ha segnalato che in hèteros il suffisso ha una funzione separativa, come se l’altro fosse un sé altro³.

    Ci sono molti altri dunque: amici, nemici, vicini, lontani, ci sono i familiari ma anche gli sconosciuti, chi condivide con noi gli stessi luoghi e chi è oltre la frontiera, oltre quel limite, quel limes che separa il conosciuto dallo sconosciuto, il prossimo dall’estraneo, l’ordine da ciò che non ha un ordine, il mondo civile dai barbari.

    Nelle distinzioni linguistiche, presenti del resto anche in molte lingue moderne, si intravvede un modo di categorizzare chi non sono io in base a un grado di maggiore o minore prossimità. Si tratta di una famiglia di concetti che sfuma progressivamente e che definisce un insieme di rapporti sociali e culturali.

    Émile Benveniste ha affrontato alcuni di questi temi, cercando di ricostruire l’universo concettuale che accomuna le culture indoeuropee, quando tratta del concetto di ospitalità. Nel primo volume del Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (Benveniste 1976), dedicato a «economia, parentela, società», egli ricorda che nelle lingue indoeuropee esiste un gruppo di termini relativi all’ospitare che sono d’aiuto nel comprendere come è costruita e si sviluppa la relazione con l’altro. In latino, ad esempio, esistono due termini, hospes e hostis⁴. Hostis, come è noto, vuol dire «nemico» e ha una corrispondenza nel gotico gasts il cui senso però è «ospite»⁵. A quali condizioni lo straniero diventa ostile? Benveniste ricorda che il termine hostis, prima di essere un nemico, è semplicemente uno «straniero» ancora nella Legge delle

    XII

    tavole. Secondo Festo⁶, al termine hostis veniva dato il significato di «colui che ha gli stessi diritti del popolo romano», dunque non un nemico e nemmeno uno straniero in generale. Sempre in Festo, ricorda ancora Benveniste, troviamo inoltre un’equivalenza fra hostire ed aequare, come se il riconoscimento allo straniero dei diritti del popolo romano implicasse un rapporto di reciprocità fondato sull’obbligo di compensare qualcosa di cui si è beneficiato⁷. Una logica simile al dono che obbliga a un dono di ricambio e a una sequenza di doni e contro-doni che costruiscono il legame. Si tratta di un’istituzione che è presente anche nel mondo greco e che in latino viene espressa appunto da hostis. Questo tipo di relazione diventerà successivamente incompatibile con l’evolversi della società romana quando in questa, ormai nazione, «le relazioni tra uomo e uomo, tra clan e clan, si aboliscono» e «sussiste solo la distinzione tra ciò che è interno e ciò che è esterno alla civitas» (Benveniste 1976, p. 70). A questo punto hostis cambia valore e passa a indicare il nemico, venendo sostituito dall’espressione hospes per la relazione di ospitalità. Hospes deriva da *hosti-pet-s, dove un significato di pet, in alternanza con pot, è quello di «signore». Hospes significherebbe dunque «signore dello straniero». Tuttavia pot produce nelle diverse lingue indoeuropee un esito diverso che, accanto al valore di «signore», rintracciabile in sanscrito, greco e latino, indica la persona stessa, il «sé stesso». Benveniste considera questo il significato originale di pot che poi ampliandosi passa a indicare il «signore»⁸. Potremmo allora tentare una traduzione di hospes non come colui che in quanto «signore» ha un potere sullo straniero, ma come colui che riconosce nello straniero un altro sé stesso e per questo lo accoglie.

    Ritroviamo il patto di reciprocità che permette di accogliere lo straniero anche nel mondo omerico, dove è in relazione con un concetto importante per il discorso che si svilupperà successivamente, quello di philos, di amico. Benveniste imposta tutta la sua trattazione di philos sul legame che viene stabilito tra philos e xenos: «il verbo philein esprime la condotta obbligatoria di colui che accoglie presso di sé lo xenos e lo tratta secondo il costume ancestrale» (Benveniste 1976, p. 262). C’è un punto che credo occorra sottolineare: philein riguarda un rapporto che potremmo dire familiare: infatti parenti alleati, domestici sono chiamati phìloi. Ne deriva che il concetto di philotes implica quel legame fra philos e xenos che trasforma l’altro da nemico in qualcuno molto simile a uno della «famiglia». Un legame che rappresenta lo straniero come qualcuno di materialmente e simbolicamente diverso, scrive Benveniste:

    Questa relazione è fondamentale, nella realtà della società omerica come nei termini che vi si riferiscono. Bisogna, per capirla pienamente, rappresentarsi la situazione dello xénos, dell’ospite, in visita in un paese in cui, in quanto straniero, è privo di ogni diritto, di ogni protezione, di ogni mezzo di sussistenza. Trova accoglienza, ospitalità e garanzie solo presso colui col quale è in un rapporto di philotes; rapporto materializzato nel sumbolon, segno di riconoscimento, anello rotto in due di cui ognuno conserva la metà. Il patto concluso sotto il nome di philotes fa dei contraenti dei philoi, essi sono ormai obbligati alla reciprocità di prestazioni che costituisce l’ospitalità (Benveniste 1976, p. 262).

    Il patto che sottrae lo xenos a un’alterità non ricomponibile e inevitabilmente conflittuale si fonda sul far transitare l’alterità nei confini della familiarità entro cui essa può essere accettata e perfino compresa. In altri termini, nella società omerica, l’amicizia costruisce una relazione fra estranei che non li fa più stranieri. L’alterità totale del nemico si risolve nel rapporto di amicizia e, facendo questo, costringe i contraenti il patto a ridefinire le loro identità.

    Infine dal lato opposto dello straniero-amico c’è lo schiavo. Benveniste osserva che per indicare lo schiavo le lingue prendono a prestito il termine da un’altra lingua. Per definire l’uomo non libero, senza diritti, lo straniero per eccellenza, la lingua stessa si fa altra: lo schiavo è qualcuno fuori della comunità, che non ha più una parola.

    Le analisi di Benveniste ci confermano che ci sono molti modi di vedere l’altro, che ci sono molti «altri», che c’è inoltre una relazione particolare fondata sulla reciprocità e familiarità che definisce l’altro in quanto «amico». C’è l’altro che è un nemico, c’è l’altro che è sottomesso, cioè lo schiavo, c’è l’altro che appartiene alla cerchia dei familiari e amici⁹.

    Sono differenze significative che definiscono rapporti molto diversi con l’alterità.

    Cerco di leggere le osservazioni di Benveniste alla luce di alcune riflessioni che reputo dei punti di partenza a cui mi appoggio per formulare un ragionamento sull’alterità. Mi riferisco a quanto hanno scritto sul tema dell’«altro» Paul Ricoeur, Emmanuel Lévinas, Pavel Florenskij e Henri Meschonnic, che rappresentano i pioli della scala che devo gettare dopo esservi salito.

    La questione dell’altro in Paul Ricoeur si sviluppa nel contesto della riflessione sul concetto di identità. In Sé come un altro, Ricoeur (1993) osserva che nell’espressione francese soi-même c’è già tutta l’ambiguità che esiste nell’identità. Quel même infatti, quello «stesso», può essere interpretato nel senso di idem o in quello di ipse, utilizzando la distinzione latina, per cui idem esprime l’identità di una persona (o cosa), mentre ipse evidenzia una persona (o cosa) rispetto alle altre.

    Abbiamo dunque due diversi aspetti dell’identità. Da un lato abbiamo l’identità-idem, cioè il soggetto che rimane sempre identico nel corso del tempo; dall’altro abbiamo l’identità-ipse, che rappresenta l’aspetto dinamico nel mantenersi costanti e fedeli a sé¹⁰.

    Ricoeur sottolinea che nell’identità idem troviamo gli elementi permanenti del sé costituiti sia dai tratti strutturali del carattere che da quelli acquisiti nel corso del tempo e successivamente sedimentati. Il carattere, in altri termini, è la somma di quegli elementi che permettono di identificare un soggetto anche a distanza di tempo; Ricoeur dice che rappresenta la «medesimezza» della persona perché è l’insieme delle caratteristiche che la identificano in modo permanente come tale¹¹.

    L’identità ipse rappresenta invece una permanenza dinamica e grazie alla sua dinamicità è aperta verso l’esterno. Come il «carattere» è il simbolo dell’identità idem, così la «promessa» lo è dell’identità ipse. La promessa infatti rappresenta una permanenza dinamica del sé perché mantenere una promessa è un mantenere fede a sé stesso sfidando il tempo trascorso¹².

    In questa sfida la promessa vive la continua tensione rappresentata dal confronto con l’altro per non perdere la ragione che l’ha determinata all’inizio¹³. Il tema della promessa è un elemento importante che definisce il rapporto con l’alterità, infatti attraverso esso Ricoeur riesce a non far dipendere totalmente il soggetto dall’altro, diversamente da Lévinas per il quale il rapporto con l’altro si fonda su una asimmetria radicale. La promessa infatti fa entrare in scena l’altro su un piano di reciprocità. Con il suo valore performativo essa da una parte mi obbliga nei confronti di qualcuno perché so che questi conta su di me, d’altra parte l’altro si aspetta che io faccia quello che ho promesso. Questa reciprocità costringe dunque il soggetto a mettersi nei panni dell’altro facendo quello che si aspetterebbe che l’altro facesse se fosse al suo posto, così come l’altro fonda il rapporto sulla presupposizione che il soggetto mantenga l’impegno. Il mantenere la parola si basa allora su uno scambio, come Benveniste aveva già osservato a proposito dell’ospitalità nel mondo indoeuropeo, che si fonda su un reciproco riconoscimento.

    Abbiamo dunque due modalità in cui l’identità si presenta: la prima, la medesimezza, caratterizzata da una chiusura nella sua autonomia, la seconda, l’ipseità, aperta verso l’esterno e la relazione.

    L’identità idem e l’identità ipse sono in un rapporto continuo che costituisce la vera consistenza del soggetto alla ricerca continua di far convivere le due tensioni. Ricoeur considera questa dinamica lo statuto ontologico degli esseri umani, che vede un soggetto, in perenne tensione fra i due poli che da un lato lo tentano a chiudersi in sé stesso e dall’altro ad aprirsi all’alterità¹⁴.

    I due poli idem e ipse vengono mediati dall’identità narrativa, cioè quella forma d’identità cui l’essere umano può accedere attraverso la funzione narrativa; tale identità si basa sulla capacità del soggetto di trasformare in racconto gli avvenimenti dell’esistenza. Una narrazione che non sarà solo una rappresentazione dei fatti del passato ma si proietterà anche su eventi futuri. Ricoeur afferma che esiste un’unità narrativa della vita costruita dai racconti che articolano narrativamente sia il passato che il futuro (cfr. Ricoeur

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