Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le parti, il tutto: Con tavole a colori di Carlo Sini
Le parti, il tutto: Con tavole a colori di Carlo Sini
Le parti, il tutto: Con tavole a colori di Carlo Sini
E-book745 pagine9 ore

Le parti, il tutto: Con tavole a colori di Carlo Sini

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nel quadro del progetto editoriale «Percorsi Mechrí», la collana «Mappe del pensiero» mette annualmente a disposizione dei lettori i risultati della ricerca condotta dall’Associazione milanese «Mechrí / Laboratorio di filosofia e cultura», con la direzione organizzativa di Florinda Cambria e la supervisione scientifica di Carlo Sini.
Preceduto da Vita, conoscenza (2018) e Dal ritmo alla legge (2019), il nuovo volume collettaneo Le parti, il tutto propone una retrospettiva sui lavori svolti a Mechrí nel 2017-2018. Tali lavori sono riattraversati dalla curatrice mediante un montaggio di testi e materiali grafici che rammentano il senso delle ricerche svolte da ciascuno degli Autori nel Laboratorio di Mechrí. Oggetto d’indagine condiviso è la relazione fra il molteplice e l’intero, interrogata entro una costellazione di linguaggi diversi. Filosofia e matematica, cinematografia e scienze naturali tracciano così un orizzonte transdisciplinare, nel quale ogni prospettiva testimonia il proprio essere manifestazione di un «sapere comune».
Il volume è arricchito da un’ampia riflessione sul tema della transdisciplinarità, come criterio compositivo di funzioni o forme del conoscere, e da un’ampia riflessione sulla nozione stessa di «forma». In Appendice una raccolta di scritti, nati durante i recenti mesi di confinamento per emergenza sanitaria, esaminano gli effetti di didattica e «formazione a distanza» sulle attuali dinamiche di trasmissione e costruzione di conoscenza e coscienza collettiva.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita29 mar 2021
ISBN9788816802711
Le parti, il tutto: Con tavole a colori di Carlo Sini
Autore

Florinda Cambria

Docente di Antropologia filosofica e di Filosofia ed Epistemologia nella Scuola di Psicoterapia Comparata (Genova). A Milano dirige il centro di formazione transdisciplinare «Mechrí/Laboratorio di filosofia e cultura». Al centro delle sue ricerche il legame fra azione rappresentativa, corpo, prassi e verità. Principali pubblicazioni: Corpi all’opera (Jaca Book, 2001); Far danzare l’anatomia (2007); La materia della storia (2009); La sapienza del teatro, il canto del mondo (2014); Leggere L’universale singolare di Sartre (2017). Presso Jaca Book cura la pubblicazione delle Opere di Carlo Sini e la collana «Mappe del pensiero».

Leggi altro di Florinda Cambria

Autori correlati

Correlato a Le parti, il tutto

Ebook correlati

Filosofia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Le parti, il tutto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le parti, il tutto - Florinda Cambria

    Capitolo I

    SIMULTANEITÀ: L’UNO DEI MOLTI

    ¹

    Carlo Sini

    Il percorso del Seminario prende avvio da una domanda tradizionale: che cosa sono le «cose»? Che cos’è propriamente una cosa e quale relazione intercorre tra le cose e la realtà? Si può dire che l’episteme, la scienza filosofica antica, è appunto partita da questa domanda, fornendone due grandi e per molti versi opposte soluzioni: quella onto-logica di Aristotele e quella del meccanicismo atomistico democriteo. Di fatto queste due istanze, queste due visioni, queste due formidabili macchine argomentative sono giunte sino a noi, attraversando però nella modernità una modificazione significativa della domanda stessa: non quale sia l’essenza della cosa, ma quale sia la verità della nostra conoscenza delle cose. In riferimento sia a Kant sia alla celebre Questione della cosa di Heidegger, il Seminario si fa carico di questo ulteriore cammino, il cui esito, via via impostosi alla cultura contemporanea, è l’inconciliabile dualismo tra l’uso del mondo e la sua comprensione, ovvero tra l’appropriazione e la produzione tecnologica delle molteplici cose e conoscenze e la globale unità di senso del sapere. L’impossibile simultaneità di uso e comprensione, di efficacia e ragione complessiva, figura caratteristica del nichilismo europeo, costituisce l’ulteriore domanda e l’ultima frontiera di cui il Seminario si fa carico, nel suo problematico ma intenzionalmente costruttivo cammino di ricerca. Che cosa significhi e si possa oggi pensare e come si ponga, in modi inediti, il problema della relazione tra l’unità e il molteplice, l’assoluto dell’essenza e la realtà degli individui, è il tema conclusivo del cammino.

    ¹I materiali afferenti al Seminario di filosofia del 2017-2018, a cui il presente capitolo è dedicato, sono reperibili nel sito on line di Mechrí a questo indirizzo: http://www.mechri.it/archivio/2017-2018/, nella sezione «Seminario di filosofia».

    1

    VORTICI DEL SAPERE E DELLA COSA

    Introduzione

    Uso e comprensione

    Di continuo usiamo le cose, senza davvero curarci di comprenderle. Le usiamo «automaticamente», senza fare attenzione. Infatti siamo tutti, in un certo senso, «automi culturali», come ho sostenuto nel libro L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri, Torino 2009). Usiamo le cose senza mai chiederci: da dove vengono le cose? E, ancora prima, che cosa sono? Come sono fatte? In un certo senso usiamo il mondo, senza chiederci se non sia il mondo a usare noi e a renderci così come siamo, come siamo «fatti».

    Supponiamo allora di volgere l’attenzione al comprendere: ma può accadere un usare e un comprendere che siano simultanei? In effetti usiamo questo dire per comprenderci, punto importante che mostrerà la sua rilevanza molto più avanti: di solito invece non ci facciamo caso. Molto più radicato è in noi l’uso inconsapevole (delle cose, del mondo), un uso non reso tematico (come potrebbe dire Husserl). Certamente è così, ma nel contempo anche un’altra cosa, in questo nostro riflettere, viene in luce, ed è il fatto che per comprendere devi già usare (per esempio il discorso, come si accennava sopra). In principio è l’azione, diceva appunto Husserl, citando Goethe. In effetti è proprio l’uso, o una qualche forma di uso, che apre la comprensione.

    E allora chiedo: 1) È possibile rendere davvero tematica la comprensione presa in sé, se il farlo comporta già un qualche uso non tematico? 2) Perché poi questo desiderio, questa volontà di rendere tematica la comprensione? Comincio da questa seconda domanda.

    Che significa che a un certo punto emerga in noi la consapevolezza della differenza tra uso e comprensione? In generale significa che quella simultaneità irriflessa di uso e comprensione, cui sempre ci affidiamo, diventa problematica. Il fatto è che mentre uso il mondo non comprendo né il mondo, né il mio uso, né il suo come, il suo senso e il suo perché.

    Per altro verso potrei però anche dire: è proprio l’uso che, nella sua automatica imposizione, fornisce un certo modo di comprendere; ma quale tipo di comprensione? La comprensione della marionetta delle Leggi di Platone, che ognuno anzitutto anche è¹. È l’uso dunque a determinare il mio modo di comprendere: quell’uso che nasce dall’evoluzione della specie, dall’educazione, dalla società, dall’economia, dalla geografia, dal lavoro ecc. L’uso mi governa, governa la mia comprensione del mondo, ma non ne sono consapevole, non ci ho magari mai riflettuto. E così vado in giro dichiarando con fierezza che «ho le mie idee, per esempio in fatto di religione» (ma senza internet e telefonino non so più cosa pensare…). Molti di noi sono infatti contenti di dire, e di sentirsi dire, quel che in generale si dice, si pensa e si fa, senza alcuna autocritica. Siamo, come dice Borges, semplici pedine sulla Scacchiera.

    I

    I giocatori, nel grave cantone,

    guidano i lenti pezzi. La scacchiera

    fino al mattino li incatena all’arduo

    riquadro dove s’odian due colori.

    Raggiano in esso magici rigori

    le forme: torre omerica, leggero

    cavallo, armata regina, re estremo,

    alfiere obliquo, aggressive pedine.

    I giocatori si separeranno,

    li ridurrà in polvere il tempo, e il rito

    antico troverà nuovi fedeli.

    Accesa nell’Oriente, questa guerra

    ha oggi il mondo per anfiteatro.

    Come l’altro, è infinito questo gioco.

    II

    Lieve re, sbieco alfiere, irriducibile

    Donna, pedina astuta, torre eretta,

    sparsi sul nero e il bianco del cammino

    cercano e danno la battaglia armata.

    Non sanno che la mano destinata

    del giocatore conduce la sorte,

    non sanno che un rigore adamantino

    governa il loro arbitrio di prigioni.

    Ma anche il giocatore è prigioniero

    (Omar afferma) di un’altra scacchiera

    di nere notti e di bianche giornate.

    Dio muove il giocatore, questi il pezzo.

    Quale dio dietro Dio la trama ordisce

    di tempo e polvere, sogno e agonia?²

    Chi, allora, davvero parla e scrive qui (chiede la pedina che io sono)? Se non me lo chiedessi e non cercassi di venirne in chiaro, la mia anima filosofica e occidentale sento che protesterebbe e che protesta. Ma da dove viene quest’anima stessa? A quale destino, direbbe l’islamico Omar, è anch’essa soggetta?

    Veniamo ora alla prima domanda: si può rendere tematica la comprensione senza ricadere in qualche uso inconsapevole? La domanda implica evidentemente che comprendere equivalga o si accompagni a «rendere tematico» (ma è poi così?). In ogni caso la comprensione sembra chiedere di mettere lì davanti la cosa «comprensione», di renderla «oggetto» di fronte (Gegenstand) a noi.

    Ma il mettere lì davanti, abbiamo detto, è aperto appunto dall’uso, poiché è ancora l’uso che simultaneamente comprende, così come comprende o è destinato a comprendere. È la natura comprendente dell’uso che si tratterebbe allora di descrivere e di definire. Ma ciò ovviamente implicherebbe un uso ulteriore, per esempio la disponibilità logica di «categorie», e siamo da capo. Il proposito di rendere tematica la comprensione in se stessa, però simultaneamente all’uso che la pone in atto, è illusorio e irrealizzabile.

    «Simultaneamente»: che cosa dice questa parola a noi «automi culturali» che la usiamo senza riflettere?

    Simultaneo viene dal latino medievale simultaneus che è a sua volta un incrocio di simul (insieme) col tardo latino momentaneus. Il latino simul è l’antico neutro di similis, irrigidito come avverbio («similmente»).

    Simile viene dal latino similis, forma assimilata di un antico semilis, dalla radice SEM (= unico, sem-plice), presente nelle aree germanica (cfr. l’inglese same), greca (homós), indo-iranica, slava. Ampliata con l’elemento ‘l’ nell’area greca e celtica (homalós). Nota bene: simile, cioè unico.

    E così la simultaneità (o la cosa simultaneità) governa la parola ‘simultaneità’ in forma autoreferenziale. Risuonano in questa parola voci arcaiche, medievali e moderne, popolari e letterarie, d’uso corrente e d’uso inconsueto: tutto questo risuona «insieme» per ripetuta «somiglianza», nella «momentanea» pronuncia della parola, facendo di questa semplice parola qualcosa di unico e insieme di complesso. Aggiungici il lavoro secolare dei filologi, che ci hanno aperto «simultaneamente» la via.

    La natura di ciò che è «simultaneo» andrà tenuta presente per l’intero cammino che ci aspetta. Nel contempo però osserviamo anche questo: che la simultaneità di cui parliamo è il destino implicito di ogni parola, perché ogni parola è così fatta e reca in sé una storia sterminata, di migliaia e migliaia d’anni. Di qui il senso vichiano della filologia: un lavoro che si colloca idealmente fuori del tempo per abbracciare tutto il tempo³. Vicende innumerevoli sono infatti iscritte in una parola. Ogni parola è uno di molti, ovvero parte di un tutto. Ogni parola racchiude ed esprime una profonda «simultaneità», perché è il punto d’incontro della vita e del sapere, il punto di «condensazione» massimamente «reale».

    Averlo detto non equivale però ad averlo davvero compreso. Abbiamo solo disposto i pezzi sulla scacchiera.

    Parte prima

    La cosa

    Come ogni parola, anche ogni cosa è il nodo simultaneo dell’uno e dei molti.

    Si potrebbe dire che la cosa come sintesi del molteplice è il tema fondamentale e costante della interrogazione filosofica e del sapere scientifico. La domanda si potrebbe formulare anche così: che cosa è «reale»? Da Aristotele a Locke, da Kant a Heidegger chiarire la simultaneità profonda dell’uno e dei molti che caratterizza il modo d’essere delle cose, l’unità sostanziale che è anche molteplicità di aspetti, che è un insieme unico e simultaneo di somiglianze, dovrebbe aprirci alla comprensione autentica delle cose, di quelle cose che continuamente «usiamo».

    Cerchiamo di animare per accenni i tratti essenziali di questo cammino, muovendo dalla fondamentale domanda aristotelica: ti to on? Che è l’ente, l’essente, in quanto tale? È però necessaria una riflessione preliminare.

    L’esposizione storiografica del pensiero di Aristotele, che ha dietro di sé anche secoli di virtuoso lavoro filologico, in sostanza usa Aristotele per comprendere Aristotele, spiega Aristotele con Aristotele. Questo inavvertitamente accade perché la rivoluzione operata dagli scritti di Aristotele ha stabilito la fisionomia essenziale dell’uomo occidentale che ancora siamo, unitamente alla rivoluzione Scolastica di Tommaso (donde quella mentalità comune dell’uomo in quanto tale, o uomo universale, che ispira la Commedia di Dante Alighieri). Tenere presente questa riflessione è il compito che in sostanza accompagnerà tutto il nostro cammino di aristotelici o, forse, di ex-aristotelici.

    Aristotele dunque. Partiamo dal famoso capovolgimento del platonismo: reali non sono le idee, le forme eterne, ma gli individui. Sono questi, sono gli «individui» le cose. Ecco, non siamo forse tutti d’accordo? Ma certo che è così: non vedo «il» cavallo, vedo «questo» cavallo. Siamo sicuri? Che cosa vediamo nel vedere «questo cavallo»? Per ora stiamo ad Aristotele, ricordando il dialogo giovanile Sulla filosofia. Frammenti del secondo libro contengono delle critiche alla dottrina delle idee (come accade anche nello scritto Sulle idee, in gran parte perduto). Scrive Aristotele:

    Mentre il compito della filosofia è di cercare nelle cose visibili la causa, noi [intende noi accademici, cioè platonici] proprio queste lasciamo da parte; in effetti non diciamo nulla della causa donde trae origine il mutamento; e credendo di esprimere la sostanza [ousia] degli esseri reali, affermiamo che esistono altre entità, ma, quanto a spiegare come queste sono le sostanze di quelle, parliamo a vuoto, perché dire per esempio che ne partecipano è dire niente.

    Fissiamo tre punti:

    1) Le cose visibili sono affette da trasformazione e metamorfosi; è il fondamentale problema del divenire (da Parmenide a Eraclito) di cui Aristotele fornirà una brillante soluzione, vero e proprio inizio della «scienza» filosofica.

    2) Qual è allora la sostanza (l’essenza: ousia) delle cose? La loro causa, ciò che le fa essere?

    3) Come però «spiegare» l’azione della causa senza «parlare a vuoto» (come per esempio accade se si dice che le forme si trasmettono alle cose rendendole semplicemente «partecipi» delle idee)?

    Di qui potremmo muovere per esporre il celebre capovolgimento del platonismo operato dalla Fisica e dalla Metafisica aristoteliche. Invece facciamo per ora un passo a lato proponendo la seguente tesi: che la mossa profonda della fondamentale critica al platonismo nasce di fatto dalla analisi del discorso. È questo il presupposto fondamentale della filosofia aristotelica. Tento di esplicitarlo in tre passi.

    1) Contro le vaghe ipotesi platoniche, contro il suo raccontare miti, Aristotele continuamente sostiene la necessità di «rendere ragione», «dare ragione» (logon didonai). Si tratta di fornire ragioni «discorsive», «logiche»: questo Aristotele intende in primis per «ragione» (sicché la richiesta suona anche autoreferenziale: bisogna usare la ragione aristotelicamente intesa per dare ragione delle cose).

    2) La ragione delle cose non si trova dunque nei discorsi poetici, nei discorsi mitici e fantastici (cfr. la Poetica: l’arte non è scienza). È per differenza da questi che si ritaglia il campo dei discorsi «scientifici», relativi al vero (non al verosimile): i discorsi della scienza filosofica.

    3) Che cosa però ha reso possibile questa analisi e questo ritaglio? L’analisi del discorso che Aristotele compie è a sua volta un discorso i cui elementi, le cui movenze, la cui postura, la cui visibilità (fatta propria dal locutore), la cui mentalità sono il prodotto della pratica della scrittura alfabetica; in sostanza (come vedi non riusciamo neppure a parlare senza essere aristotelici) gli elementi del discorso sono «manufatti letterari», combinazioni oggettive di «lettere». Questo però Aristotele non poteva saperlo. La sua visione delle cose e dei relativi discorsi era stata allevata dalla rivoluzione della scrittura alfabetica greca, sicché in lui agisce, di questa mentalità analitica e sintetica, un uso cieco, senza comprensione. Dovremo tornarci⁴.

    All’inizio del trattato Sull’interpretazione Aristotele scrive:

    Per prima cosa bisogna stabilire che cosa è nome e che cosa è verbo; indi che cos’è la negazione, l’affermazione, l’enunciazione e il discorso. Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste cose sono segni, come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui queste sono immagini sono le cose, già identiche (per tutti). Ora, di questi argomenti si è parlato nei libri sull’anima; infatti sono oggetto di un’altra trattazione⁵.

    Nel De anima infatti si stabilisce: che l’anima è in certo modo tutte le cose; che le cose sono sensibili e intelligibili; che la facoltà sensitiva e intellettiva dell’anima ha in sé in potenza questi oggetti (le cose): ovviamente non realmente, non c’è la pietra nell’anima ma solo la sua forma. Ora, nessuna cosa esiste separata dalle sue qualità sensibili ed è in queste che va cercata la forma intelligibile (cioè il concetto: la pietra). Per questo senza sensazione non si può apprendere né comprendere alcunché (nessuna pietra concreta). Ecco perché quando un uomo pensa una cosa pensa insieme, simultaneamente, qualche immagine; le immagini infatti sono come sensazioni, però mancanti di materia.

    Quindi: ci sono cose identiche per tutti (per esempio questa casa); ci sono anime e ci sono immagini identiche per tutti (l’immagine di questa casa nell’anima tua e nella mia). Per tutti ci sono anche segni del linguaggio (orali e scritti), però convenzionali, non identici per tutti: io dico «casa», tu dici «maison».

    Il legame dei nomi e dei verbi nel discorso rispecchia le cose nelle parole, però nelle parole si rispecchiano anche le passioni dell’anima. Beninteso è il legame di nomi e verbi che fonda la possibilità di dire il vero o di dire il falso. Presi isolatamente nomi e verbi non dicono alcunché di vero o falso, come «cavallo» o «corre»; ma se dico: «Il cavallo corre», questo può essere vero o falso. Di qui i «giudizi apofantici»: asserzioni, giudizi dichiarativi che asseriscono qualcosa di vero o di falso sulle cose reali. Su di essi si fonda il quadrato del giudizio, il sillogismo e in generale la logica (noetica e dianoetica): la scienza formale della verità edificata da Aristotele. D’altra natura sono i discorsi differenti dai giudizi apofantici, come le preghiere, le domande, i comandi, le esortazioni ecc. Come si vede, il discorso la fa sempre da protagonista e da padrone.

    Veniamo ora al trattato Sulle categorie. Aristotele si chiede quali siano i predicati ultimi, o più generali, che il discorso possa attribuire alle cose. Si procede sulla base del «giudizio» e non va dimenticato che la parola «categoria» viene dal linguaggio giuridico, indica di che cosa qualcuno può essere accusato. Quanto alle cose dunque, che cosa le «accusiamo» di essere? Che cosa si può dire in generale di loro? Come si può esprimere nel discorso il loro modo di essere?

    Alla domanda «che cosa è questo» (ti to on) si possono fornire dieci risposte, ovvero dieci predicati (immaginate Aristotele che fa lezione nel Liceo e dalla finestra scorge in lontananza un soldato di guardia). «Questo può essere: 1) una sostanza (per es. uomo o cavallo); 2) una quantità (alto due cubiti); 3) una qualità (bianco, grammatico, militare); 4) una relazione (doppio, metà, più grande); 5) un luogo (sulla piazza, al Liceo); 6) un tempo (ieri, oggi, in futuro); 7) una situazione (in piedi, seduto); 8) uno stato (armato, calzato); 9) un agire (brucia, taglia); 10) un subire (è bruciato, è tagliato).

    E così la ragnatela del discorso logico ha completamente catturato l’ente, la «cosa». Manca l’ultimo fondamentale affondo per la costruzione della onto-logia ovvero della metafisica come cuore «teorico» dell’Occidente.

    I libri della Metafisica presentano la «filosofia prima» (prote), cioè lo studio dell’ente in quanto tale (on he on), la teoria della cosalità della cosa nel suo essere, o la scienza della sostanza (prima categoria). La «filosofia seconda» (deutera) è invece lo studio degli aspetti «recisi», separati dall’ente in quanto tale, come la qualità, il movimento ecc., ovvero le modalità d’essere dell’ente elencate nelle categorie da due a dieci. Questo studio appartiene alle scienze particolari: esse infatti recidono un aspetto della «cosa» e lo studiano separatamente (specialisticamente, diremmo oggi).

    Come si vede, la cosa (l’ente) si dice in molti modi (le dieci categorie), ma sempre in riferimento alla prima categoria: la sostanza. La sostanza è l’unità simultanea delle altre. Il che significa che la parola ‘sostanza’ va intesa in due modi:

    1) come sostanza prima (ousia prote): è l’individuo reale, la cosa concreta nella simultaneità dei suoi aspetti (questo uomo, bianco, alto 170 cm., seduto ecc. ecc.);

    2) come sostanza seconda (ousia deutera): è il predicato logico (il segno verbale, concettuale) che designa nel discorso le sostanze reali nella loro forma universale: per esempio ‘uomo’, ‘cavallo’, ‘soldato’ ecc.

    La sostanza prima non è dunque una semplice categoria, perché essa designa il punto di applicazione «reale» di tutte le altre. Ma gli altri modi con i quali designiamo le cose (per es. ‘bianco’) non sono a loro volta enti, non sono sostanze, ma modi di essere della sostanza. È la sostanza che è bianca, questo uomo è bianco, mentre il bianco non sta da sé, non è una sostanza, non è una cosa. Emerge chiaramente quello che, secondo Aristotele, fu l’errore di Platone, che con la teoria delle idee «entificò» indebitamente tutti gli aspetti della realtà. Solo appoggiandosi a una sostanza, solo risiedendo in un individuo reale, i modi d’essere categoriali guadagnano un essere, una esistenza, peraltro accidentale e mutevole. Questo individuo concreto, questa sostanza prima è per essenza ciò che diciamo «uomo» (sostanza seconda); che sia in piedi o seduto, bianco o nero, alto o basso ecc. è solo un fattore accidentale della sua natura sostanziale. In questo senso l’individuo, la cosa individuale è per Aristotele principio di unità, semplice simultaneità di una pluralità di aspetti e in questo modo è «sinolo»: fusione di aspetti eterogenei, ovvero unione di materia e forma (la quale forma non è un’altra «cosa», «il bianco in sé» ecc.: di nuovo l’errore di Platone). Questa unione è determinata dal processo dinamico che è interno alla materia e che la con-forma. Come accadrebbe per esempio a un mucchio di mattoni, la cui materia ha la potenzialità di diventare una casa in atto, questa casa, la cui pura essenza consiste nel conferire al mucchio di mattoni la forma della casa, ovvero, come esemplifica Aristotele, ciò che fornisce riparo a uomini, animali, cose (definizione «logica» della forma della casa).

    Poiché la sostanza è unione dinamica di materia e forma, ogni singola cosa e la sua pura essenza coincidono (la sostanza casa ha bisogno della materia mattoni per acquisire la pura essenza della funzione di riparo e viceversa). Ogni cosa cioè è simultaneamente qualcosa di contingente, di diveniente (la casa invecchia ecc.) e di essenziale (l’esser casa della casa): questo è ciò che Aristotele nomina con l’espressione to ti en einai, letteralmente «ciò che era essere», nel senso di ciò che ha fatto essere la cosa così come essa è, il diveniente processo che l’ha prodotta.

    Dopo la nostra rapida sintesi, cerchiamo di comprendere questa straordinaria macchina concettuale rivolta alla spiegazione di che cosa è una «cosa», ovvero di che cosa è reale nelle cose.

    Abbiamo mostrato che la risposta, ma anche la stessa domanda, si sono mosse a partire da un’analisi del «discorso» e non sarebbe vano chiedersi: ma da dove gli viene questa «cosa», il discorso? E ancora: ma con quale discorso analizza e fa questione del discorso? Lasciamo per ora queste domande, ancora troppo difficili per noi.

    Chiediamo piuttosto: che cosa è reale nelle cose, che cosa sono le cose in realtà? Questa è la domanda di Aristotele; ma di quali cose però si tratta? Evidentemente si tratta delle sue cose, delle cose di un Greco del suo tempo e della sua età. Per esempio le cose della natura vissuta dai Greci di allora, secondo gli usi e i valori della società di allora, quindi in accordo con la mentalità di un Greco di allora: tutto questo è tanto ovvio quanto ambiguo e problematico. Il modo in cui Aristotele interpreta la natura è, per molti versi, il punto di partenza di come la intendiamo noi oggi, ma anche, per altri versi, no: la sua non è la natura di Galilei e di Newton, che peraltro noi retroflettiamo come valida anche al tempo di Aristotele: lui non lo sapeva, ma anche allora era così. Su questo punto profondamente paradossale (la nostra visione «storica» della natura vale anche fuori della sua storia, vale in ogni tempo) ha molto riflettuto Edmund Husserl nella Conferenza di Vienna del 1936, poi ripresa nella sua ultima opera incompiuta La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Ora però non possiamo occuparcene.

    Concentriamoci invece su un altro punto: Aristotele è, come tutti, un individuo sociale, il che significa che le sue «cose» sono quelle di tutti i giorni al suo tempo, secondo l’allora comune «uso del mondo». Di qui la mentalità di un Greco della sua società, con i comuni discorsi, ma anche con differenze molto individuali. Per esempio Aristotele non era un Ateniese. Figlio di un medico, a 17 anni si iscrisse all’Accademia (367 a.C. circa), forse per studiare le scienze, che vi erano coltivate, a cominciare dalla matematica e dall’astronomia (Eudosso). Qui però si innamora della filosofia e del suo Maestro (cfr. Sulla filosofia, libro I), divenendo uno dei maggiori protagonisti della scuola.

    Ora, quando si mette al lavoro nelle sue lezioni al Liceo (e anche prima, negli ultimi anni all’Accademia) per rispondere alla domanda «ti to on?», ovviamente fa uso di tutto ciò che abbiamo detto, della sua intera vita, della sua esperienza, della sua tradizione, della sua lingua e della sua mentalità (che non è quella di un Persiano suo contemporaneo). Tutto questo è oscuramente in azione per attingere quella comprensione che è il risultato del suo filosofare. E tutto questo non va mai dimenticato, come invece ci accade sempre di fare, ignorando in sostanza l’uso del mondo che è il fondamento di quella «teoria», di quei «significati» (ousia, ti en einai ecc.), ogni volta rivissuti nel nostro uso del mondo e perciò nella nostra comprensione; noi invece astrattamente distinguiamo teoria e biografia⁶.

    Tenuto presente tutto ciò, consideriamo la grande macchina argomentativa aristotelica, che si propone di portare alla luce la verace comprensione delle cose come sono. Il davvero miracoloso risultato è la creazione della magia verbale del lessico filosofico, ereditato, usato e potentemente rinnovato e trasformato nel suo senso attraverso i secoli. Ecco la verità (aletheia) delle cose portata a luminosa presenza e manifestazione a partire dalla sua iniziale oscurità (lethe). Si potrebbe dire: la «realtà» letteralmente «foto-grafata» (e ci troveremmo, come vedremo, al crocevia del nostro destino) o più esattamente «logo-grafata», iscritta nel discorso (logos), in quel discorso. Il tutto accede allora a quell’uso comprensivo che ancora ci caratterizza e che, come dicemmo, resta però sostanzialmente ignorato.

    Parte seconda

    Il vortice

    Ora rianimiamo un’altra «macchina argomentativa», che è a sua volta all’origine del nostro sapere. Parliamo dell’atomismo greco e del suo enigma (l’intera scomparsa delle sue opere fondamentali). Questa scuola nacque al termine della età dei Presocratici, fu contemporanea a Socrate e al primo Platone (Democrito nacque nel 460 a.C. e visse forse più di 90 anni; Socrate nasce ad Atene nel 469 e vi muore 70 anni dopo).

    La dottrina degli atomisti ebbe certamente una portata straordinaria; essa, come testimoniano i contemporanei, esplorò tutti i campi del conoscere e dell’umana sapienza, ma ci è nota solo per frammenti (è anche vero che Abdera, la patria di Democrito, non è Atene). Della grandissima opera di Democrito non ci è rimasto quasi nulla, e non solo per le casuali vicende del tempo: una vera e propria damnatio memoriae sembra aver colpito gli scritti di Democrito e dei suoi allievi. Si consideri per esempio che Platone questi scritti non li cita mai, come se non esistessero.

    La dottrina degli atomisti venne però ripresa da Epicuro e da tutta la sua scuola, che ebbe anche una importante fioritura a Roma (cfr. Lucrezio e il De rerum natura). Con l’avvento del cristianesimo, però, la dottrina atomistica subì una seconda e ancora più drastica censura, a causa del suo materialismo irreligioso. Poi, con la riscoperta nel Rinascimento del poema di Lucrezio, l’atomismo rinacque dalle sue ceneri (e da ciò che ne era rimasto), arrivando sino a noi ed esercitando un grande influsso sulla filosofia e sulla scienza, cioè sulla cultura complessiva della modernità.

    La questione per noi è come gli Atomisti intendono la «cosa». Dobbiamo approssimare il problema con pochi passi efficaci. Cominciamo dalle notizie sulle biografie, tenendo presente che nelle testimonianze degli antichi è difficile, e talora impossibile, separare la verità «storica» da quella «simbolica» e «aneddotica».

    È il caso di Leucippo, che alcuni dicono nato a Mileto (forse per connetterlo ai naturalisti milesii, Talete ecc,); altri ad Elea, dove soggiornò dopo il 450 a.C., ascoltò Zenone e forse fu suo discepolo; altri ancora ad Abdera, dove di certo fondò la sua scuola ed ebbe per discepolo Democrito (ad Abdera nacque anche Protagora). A Leucippo sono attribuiti gli scritti Grande cosmologia, Sull’intelletto, Piccola cosmologia, Sulle parole (che cosa non daremmo per poter leggere questo testo, posto che sia esistito davvero). In sostanza e per quel che ne sappiamo, Leucippo è l’ombra di un grande fantasma.

    Diversa è la situazione di Democrito, del quale sappiamo molte cose. Si dice di lui che conobbe Empedocle e forse frequentò Anassagora. Studiò i Pitagorici e gli Eleati, Protagora e Gorgia, quindi la Sofistica. Fece molti viaggi in Grecia e in Oriente e fu forse anche ad Atene. Tansillo (I sec. d.C.) elenca più di 50 titoli di opere di Democrito, nessuna conservatasi. Forse l’elenco comprendeva tutte le opere della scuola. Resta il fatto, come dice Giovanni Reale, che Democrito «acquisì una cultura enorme, in svariati ambiti, forse la più grande che fino a quel momento un filosofo avesse raggiunto».

    Ecco una sintesi, meramente introduttiva, della dottrina atomistica di Leucippo e Democrito (di fatto è impossibile distinguerli).

    Tutte le cose sono composti provvisori di enti piccolissimi (e perciò invisibili). Enti compatti e quindi indivisibili: atomi. Essi sono in continuo movimento vorticoso. Sono dotati di forme infinite e le loro differenze sono simili a quelle che intercorrono fra le lettere dell’alfabeto (dette «elementi» – stoicheia). Per esempio: ‘A’ differisce da ‘N’ per la forma; ‘AN’ da ‘NA’ per l’ordine; ‘N’ da Z per la posizione; infinite sono poi le loro figure geometriche (quadrate, rotonde, circolari, a uncino ecc.).

    L’intero universo è dunque un immenso vortice in cui giocano due elementi fondamentali e complementari: un numero infinito di atomi (cioè il «pieno») e il «vuoto» che li contiene. Il numero degli universi è infinito (= multiverso), governato da continua composizione e dissoluzione, perché gli atomi, in ragione della loro forma, si aggregano e si disgregano senza posa.

    Anche gli esseri umani sono composti di atomi, particolarmente leggeri quelli dell’anima. Essi ricevono dai sensi gli «effluvi» delle cose e se ne fanno un’immagine, il che dà luogo a una conoscenza soggettiva, cioè qualitativa, della realtà, come caldo e freddo, liscio e ruvido ecc. Queste immagini però sono prive di verità oggettiva, sono un effetto secondario dell’azione reale delle cose (di qui, per es. modernamente in Galileo, la differenza tra qualità primarie e secondarie della conoscenza). Naturalmente dobbiamo pensare che anche questo discorso è fatto di atomi, il che è abbastanza problematico.

    Analogamente possiamo considerare un certo numero di testimonianze e citazioni di frammenti come un immenso vortice democriteo che, per esempio, attraversa ben 600 anni: da Diogene Laerzio a Diodoro Crono ecc. Ora ne ricorderemo qualcosa, riflettendo sulla complessità di questo cammino delle testimonianze, rese in tempi, luoghi, circostanze, motivazioni innumerevoli: noi siamo soliti dimenticarlo. Prendiamo il tutto e diciamo: ecco la filosofia atomistica, come se fosse mai esistita questa «cosa», fuori dai suoi «trasferimenti» e dalle sue infinite «incarnazioni».

    Cominciamo dunque dal celebre libro Le vite e le dottrine dei filosofi, opera di Diogene Laerzio (180-240 ca.), vissuto al tempo dell’impero romano. Della sua vita non sappiamo nulla, ma il suo libro ha attraversato i millenni (anche il giovane Nietzsche se ne riprometteva l’edizione critica, che però non fece). La testimonianza di Diogene Laerzio è molto circostanziata. Egli dice che Leucippo fu il primo a porre come principi delle cose gli atomi. Espone la dottrina della infinità dell’universo e di come il vortice degli atomi venga a costituire la materia degli astri, il loro progressivo infiammarsi e spegnersi, e poi l’orbita del sole e della luna e così via. È evidente che Diogene si giova della lettura diretta di scritti degli Atomisti, probabilmente conservati nella grande biblioteca ellenistica di Alessandria. Ma si giova anche di esposizioni antiche, per es. quella famosa e decisiva di Aristotele (384-322 a.C.).

    In varie opere Aristotele riferisce le opinioni degli Atomisti e non fa mistero delle sue critiche. Per esempio non accetta la spontaneità del vortice atomico: perché gli atomi si muovono nel vuoto? Qual è la causa finale del loro movimento? Questa domanda dice chiaramente della irriducibile differenza tra due concezioni incompatibili. La fisica di Aristotele è interna alla sua metafisica (lo studio del movimento è «reciso» dalla natura sostanziale della realtà individuale, che non è concepibile senza il riferimento a quella sintesi di materia e forma che comporta il tratto finalistico, «metafisico», del movimento complessivo dell’universo, nel suo continuo passaggio dalla potenza all’atto). Ma l’intento degli Atomisti è esattamente l’opposto, cioè quello di escludere dalla spiegazione dei fenomeni naturali ogni ricorso a cause soprannaturali, a forze divine o a esigenze antropomorfe.

    Se poi passiamo a Simplicio (siamo nel 490-560 ca.), dalla Cilicia, dove Simplicio è nato, siamo condotti alla scuola neoplatonico-eclettica di Atene, chiusa poi con un editto famoso da Giustiniano, il grande imperatore cristiano d’Oriente. Simplicio è il famoso commentatore di Aristotele e la sua esposizione, per quanto accurata, ne risente.

    Se ora ci riferiamo a Galeno (Pergamo 129-Roma 201) bisogna anzitutto ricordare che la sua opera dominò per tredici secoli la scienza medica in Occidente, cioè sino al Rinascimento. Medico di corte a Roma sotto Marco Aurelio e Settimio Severo, in possesso di una grande cultura enciclopedica, sosteneva che il medico deve essere anche filosofo. Non a caso nella sua esposizione delle teorie atomistiche illustra con grande lucidità la tesi della differenza tra qualità soggettiva delle sensazioni e quantità oggettiva del movimento atomico dei corpi: un luogo ovviamente delicato e importante per un medico.

    Infine Diodoro Crono: qui torniamo al 248 a.C. (anno della sua morte). Allievo di Apollonio Crono, è uno dei maestri della scuola di Megara. La sua testimonianza è particolarmente preziosa, là dove riassume la concezione democritea della storia sociale che caratterizza la vicenda umana (esposizione che sicuramente influenzò Lucrezio e la visione moderna, per esempio vichiana, dell’origine della civiltà).

    Tutti gli antichi commentatori ebbero chiara però la dipendenza degli Atomisti dai Pitagorici e soprattutto dagli Eleati che a loro volta si pensa abbiano avuto un legame con la scuola di Pitagora. Posti a loro volta di fronte alla tremenda macchina argomentativa di Parmenide e Zenone, gli Atomisti avrebbero immaginato una soluzione invero più abile che davvero risolutiva. Il ragionamento logico di Parmenide, relativo alla opposizione tra essere e non essere e alla conseguente negazione dei caratteri fondamentali della comune esperienza (molteplicità, movimento ecc.), aveva appunto indotto Platone, nel Sofista (e nel Parmenide), al famoso «parricidio», cioè alla nascita della argomentazione dialettica e, in sostanza, alla condizione prima di quella scienza logica che è culminata poi con Aristotele.

    In sintesi l’argomento di Parmenide è il seguente: dire (legein) e pensare (noein) è necessariamente dire e pensare qualcosa (è l’intenzionalità di Brentano, Husserl e Heidegger); ciò che non è non è infatti pensabile, non è dicibile e non è niente. Se uno dicesse poi di pensare il non essere, automaticamente ne farebbe un ente, cioè una cosa che è. Solo l’essere quindi è ed è pensabile. In base a questo ragionamento, la Dea della verità spiega al giovane delle cavalle che allora tutte le cose diverse dall’essere che l’esperienza ritiene di conoscere scompaiono, non sono «reali», e così pure scompaiono i loro nomi, che divengono flatus vocis. Infatti il movimento e il molteplice non possono né essere né essere detti e i molti in verità sono uno: «Ma se, come ti costringo ad ammettere con le mie dimostrazioni, il non essere non è, allora l’essere è uno, eterno, ingenerato, imperituro, immobile» (Melisso, polemicamente, aggiungerà: infinito).

    Allora gli Atomisti, si dice, pensarono bene di cavarsela, cioè di recuperare la verità dell’esperienza e delle sue cose, trasformando la opposizione logica essere/non essere, nella opposizione fisica pieno/vuoto. Il vuoto, cioè, sarebbe un elemento reale che consente di immaginare in esso una pluralità di pieni in movimento, concepiti peraltro in accordo con l’essere parmenideo: ogni atomo è indivisibile, indistruttibile, tutto pieno ecc.

    In effetti l’argomentazione parmenidea poteva favorire una torsione siffatta: se sostieni che l’essere non è uno, ma più di uno, per esempio due, come li separerai, se non con il non essere? Ma il non essere non è e non può essere, quindi non sono due… A questo punto Leucippo si appellerebbe al vuoto e il gioco è fatto. D’altra parte (e qui Parmenide ha ragione) al fondo delle cose deve esserci qualcosa di indivisibile, se no da tempo immemorabile tutte le cose si sarebbero dissolte nel nulla (ma vediamo che non è così – anche Wittgenstein, nel Tractatus, si appellò a un simile argomento). Quindi gli atomi ci sono e ci devono essere (anche se non si vedono: atomismo logico) e così deve esserci anche il vuoto, che consente agli atomi di muoversi. In questo modo, conclude Democrito, i fenomeni sono salvi!

    Ma io non credo affatto che l’intera faccenda stia in questo modo. Non abbiamo accesso agli scritti degli Atomisti, che non ci sono più. Dobbiamo fidarci delle testimonianze che però sono o remote, o incompetenti, o ostili, o inadempienti, o la semplice ripetizione di interpretazioni precedenti; insomma: inattendibili e semplicistiche. Proviamo a ripensare tutto da capo, a partire dalla nozione di «vortice», intendendolo come il principio fondamentale dell’atomismo.

    Aristotele lamentava che gli Atomisti non dessero ragione del movimento. Infatti, abbiamo detto, egli pensa il movimento sempre legato a un fine: dalla materia alla forma, dalla potenza all’atto, in virtù dell’atto finale di Dio (residuo platonico). Per gli Atomisti invece è il puro movimento l’atto primo. Il movimento è tutta la ragione in sé e di sé, senza bisogno di una ragione nel senso di uno scopo fuori di sé, fuori del puro movimento. In un certo senso, il moto uniforme costituirà, in Galileo, un argomento contro il finalismo dei Peripatetici.

    Se questo ci è chiaro, allora sarà altrettanto chiaro che il vortice non può essere inteso come semplice movimento nello spazio: non è movimento verso l’alto o verso il basso (così equivocarono gli Epicurei, scarsi «fisici»), non accade in una regione circoscritta, per esempio da coordinate geometriche, ma accade nell’infinito (come dicono infatti i Democritei). Nell’infinito ogni via all’in su è contemporaneamente via all’in giù e viceversa.

    Nella parola latina vortex possiamo curiosamente osservare una contemporaneità di senso con vertex, se collocati nell’infinito: ogni vertice è nell’infinito un vortice che si dà un vertice e così via. Qualcosa di analogo alla coppia da cui siamo partiti: simul/semel, simultaneamente simile, semplice e unico nel suo specificarsi.

    Nello stesso tempo il vortice non è una «cosa», non esiste il vortice: dove ti collocheresti per osservarlo, se esso è l’infinito tutto che c’è? D’altronde se il vortice è un movimento, da dove esso è osservabile? da quale movimento o da quale stasi? Questi pensieri in certo modo torneranno, già in Galileo e poi in Einstein. Allora dobbiamo dire così: il vortice è lo specifico movimento di ogni atomo nel suo simultaneo relazionarsi/differenziarsi con gli altri atomi.

    Il vortice accade in ogni vortice, riconfigurandovisi di continuo: simultaneità perfetta dell’uno nei molti e dei molti nell’uno, sicché ogni atomo è l’uno nel senso della relazione, della differenza e della prospettiva. In ogni atomo si dà il vortice a partire dal quale si danno simultaneamente tutti gli altri vortici in una continua, infinita riconfigurazione.

    L’uno quindi non è una «cosa», ma è una funzione relazionale dinamica, è lo specificarsi reciproco degli infiniti atomi vorticanti: immenso, infinito, sconfinato gioco di azioni e reazioni.

    In questo senso il vortice non è un movimento locale aristotelico, non è là o qui, prima o poi. Esso è l’unità profondamente pervasiva che accoglie in sé la composizione dinamica di tutti gli aggregati di atomi vorticanti in relazione tra loro. Ogni punto «pieno» è il centro del vortice, il cui orizzonte, la cui periferia è nel contempo il centro corrispettivo.

    Resta indubbiamente la domanda: davvero gli Atomisti pensarono tutto ciò? O questa è in gran parte farina del nostro vortice? Ma è davvero importante rispondere, dal momento che, quale che sia la risposta, sempre di noi si tratta?

    Muovendo da una riflessione sulla coppia uso/comprensione, ponemmo all’inizio la domanda sulla «cosa». Abbiamo rianimato, in due essenziali risposte, la grande eredità del mondo antico, precristiano, per il destino dell’Occidente. Possiamo forse riassumerla in due forme di «materialismo».

    1) Il materialismo logico-metafisico di Aristotele, inglobante anche alcuni aspetti dell’idealismo platonico. La loro comune radice è nel pensiero dei Greci italici di Elea, che per primi osarono ridurre l’essere delle cose al pensiero, cioè a un discorso che non si contraddice (e gli Dei cominciarono a tramontare). Da questa prospettiva si può misurare l’ardua e controversa impresa di Tommaso, nel suo sforzo di rendere Aristotele compatibile con Agostino e col neoplatonismo cristiano.

    2) Il materialismo logico-meccanicistico di Democrito.

    L’impostazione aristotelica, fondata sul giudizio e il discorso logico, è giunta in effetti sino a noi, ma con una modificazione importante: quello che modernamente intendiamo per «problema della conoscenza»: qui einai e noein non sono tauton.

    Conseguentemente il problema si sposta: non quale sia l’essenza della cosa, ma quale sia la verità del conoscere, ereditando peraltro le argomentazioni degli scettici antichi, come accade manifestamente in Hume. In modo diretto ed esplicito John Locke mette sotto accusa la nozione metafisica di sostanza:

    Se qualcuno vorrà esaminare la propria nozione di sostanza pura in generale, troverà che non ne ha nessun’altra idea se non la supposizione di chissà quale sostegno di quelle qualità che sono capaci di produrre idee semplici in noi: qualità che comunemente si chiamano accidenti.[…] Così giungiamo ad avere le idee di un uomo, un cavallo, l’oro, l’acqua ecc., e mi appello all’esperienza di ognuno per sapere se qualcuno abbia un’idea chiara di tali sostanze al di fuori di certe idee semplici che coesistono. Mi sembra quindi probabile che le idee semplici che riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione siano i confini dei nostri pensieri, al di là dei quali lo spirito, per quanti sforzi faccia, non è in grado di avanzare di un passo; né può fare alcuna scoperta quando vuole sbirciare nella natura e nelle cause nascoste di quelle idee⁷.

    Insomma, l’orafo ne sa più del metafisico della sostanza dell’oro: l’età della scienza è in cammino.

    D’altra parte Kant, nello stabilire le forme a priori del conoscere o categorie dell’intelletto, si attenne alla tradizionale tavola dei giudizi d’origine aristotelica, suscitando le critiche di Hegel, per l’accoglimento, nel cuore del trascendentale, che è condizione della oggettività del conoscere, della mentalità intellettualistica degli antichi. Ma proprio il nodo kantiano, tra empirismo e razionalismo, è molto significativo e noi però lo rileggeremo in compagnia di Heidegger, per trarne doppio profitto per il nostro cammino.

    Il riferimento è a: Martin Heidegger, Die Frage nach dem Ding, Tübingen 1962⁸. Il testo di Heidegger risale al corso universitario del semestre invernale 1935-36. Leggiamo alcuni passi dell’inizio.

    Il problema che affronteremo in questo corso appartiene alle questioni fondamentali della metafisica. In forma di domanda si enuncia così: «che è una cosa?». Il problema è ben antico. Il nuovo in esso sta in questo, che lo si deve porre sempre di nuovo. Su questo problema «che è una cosa?» si potrebbe cominciar subito a discutere lungamente, prim’ancora di porlo nei suoi giusti termini. Il che da un certo punto di vista è anche legittimo, in quanto la filosofia al suo inizio si trova sempre in una condizione sfavorevole. Non così le scienze: ad esse si accede movendo direttamente dalle rappresentazioni, dalle opinioni e dai pensieri comuni. […] Ma con la domanda «che è una cosa?» non si può invero intraprendere nulla. Così è. Con questa domanda non si può far niente. E significherebbe fraintenderla completamente se volessimo tentare di dimostrare che essa serva a qualcosa. No, con tale domanda non è possibile intraprendere nulla. Questa affermazione è tanto vera che noi dobbiamo intenderla addirittura come una determinazione dell’essenza del nostro problema. «Che è una cosa?» Questa è una domanda con la quale non si può fare nulla: e su di essa non c’è veramente bisogno di dire di più. Ma siccome questo problema è molto antico – tanto quanto l’inizio della filosofia occidentale, sorta in Grecia nel VII secolo a.C., è opportuno illustrarlo brevemente anche sotto il profilo storico⁹.

    Resta ancora da dire perché parliamo dei problemi fondamentali della metafisica. Questo nome «metafisica» deve qui significare soltanto che i problemi che vengono trattati costituiscono il nucleo e il centro della filosofia. Con «metafisica» quindi non intendiamo affatto una particolare disciplina filosofica, distinta dalla logica o dall’etica. In filosofia non ci sono discipline particolari, non essendo essa una disciplina. Non è una disciplina, poiché qui l’apprendimento scolastico, se entro certi limiti è indispensabile, non è però essenziale, anzitutto perché in filosofia la divisione del lavoro è senza senso. Vogliamo perciò tenere il nome «metafisica» il più possibile libero da tutto quanto viene con esso storicamente congiunto. […] Dopo questa preparazione generale possiamo ora determinare in modo più preciso il nostro problema. Che è una cosa?¹⁰

    Non possiamo lasciarci sfuggire che le ultime considerazioni di Heidegger sono perfettamente congrue con il problema centrale che, da anni, guida la ricerca che svolgiamo a Mechrí: il problema di un sapere transdisciplinare¹¹, ovvero di un sapere dell’intero (olon), come diceva appunto l’antica metafisica. Ma veniamo all’ultima, decisiva, citazione.

    Come si è visto, la risposta alla domanda «che è una cosa?» è questa: cosa è un sostrato di proprietà e la verità che le corrisponde ha la sua sede nell’enunciato o proposizione, ossia nella congiunzione di soggetto e predicato. Questa risposta – si è detto – è affatto naturale e così la sua dimostrazione. […] È così stabilita una precisa connessione tra l’essenza della cosa e l’essenza della proposizione e della verità. Il che appare anche dallo schema delle determinazioni della cosa e della proposizione. […] In ogni caso non va dimenticato che abbiamo fatto riferimento a questa connessione come al comune, «naturale» modo di intendere il nostro problema. Ma questa maniera «naturale» di intendere non è affatto naturale. Il che significa: la presunta compattezza di questa connessione si dissolve in una serie di interrogativi. Questi: fu la struttura essenziale della verità e della proposizione che venne adeguata alla struttura della cosa? o non accadde l’inverso, e cioè che la struttura essenziale della cosa quale sostrato di proprietà venne interpretata conformemente alla struttura della proposizione quale unità di «soggetto» e «predicato»? L’uomo ha ricavato la struttura della proposizione dalla struttura della cosa, o ha trasposto sin nelle cose la struttura della proposizione?¹²

    E così Heidegger aveva scoperto, a suo modo, la «macchina» di Aristotele, che nondimeno non tratta come qui abbiamo suggerito. Anzitutto non vede il fondamento «alfabetico» della logica occidentale, in quanto formalizzazione, non del «pensiero» in generale (che non esiste), ma di una pratica di scrittura particolare e delle sue conseguenze sui saperi del soggetto. Quindi Heidegger non pone la questione della differenza tra discorso e logica. Ne è segno eloquente là dove egli si chiede se l’uomo abbia ricavato la proposizione dalla cosa o la cosa dalla proposizione: quale «uomo»? La faccenda sorge e riguarda una specifica cultura e mentalità, non certo qualunque uomo o l’uomo universale; cioè riguarda noi occidentali e i nostri saperi filosofico-scientifici, i nostri caratteristici discorsi.

    Ma ora misuriamoci con le tre pagine finali della fondamentale Introduzione che Vincenzo Vitiello prepone alla sua traduzione del testo heideggeriano. Ne emergerà una terza versione del «materialismo» che segue le prime due sopra indicate (il materialismo logico-metafisico di Aristotele e il materialismo logico-meccanicistico di Democrito): uno stupefacente materialismo trascendentale kantiano. Scrive dunque Vitiello, citando inizialmente Heidegger:

    «Il reale nel fenomeno non è, nel significato kantiano, ciò che effettivamente esiste nell’apparenza, distinto da ciò che non esiste essendo mera, fumosa parvenza. Reale è ciò che in generale dev’essere dato, perché si possa decidere riguardo alla sua effettiva esistenza o inesistenza. Il reale è il puro ed il primo necessario qualcosa in quanto tale. Senza il reale, senza la materia essenziale, senza cioè un qualcosa che lo determina come questo o quello, l’oggetto è non solo inesistente, ma non è in generale niente. Per questo qualcosa, per il reale, l’oggetto si caratterizza come ciò che viene incontro in questo o quel modo. Il reale è il primo quale dell’oggetto». […] Il «primo quale», il puro «qualcosa» che viene in-contro, il Gegen, il contro nella sua pura essenza materiale – Kant parla a tal proposito di «materia trascendentale» (B 182) – prima d’ogni forma «soggettivo-mondana». Se vogliamo: il puro «fuori», la pura «datità» cui si riferiscono tutti gli altri principi. Ché è questa materia pura, trascendentale, questa datità che riempie la grandezza estensiva – spazio-tempo-reale – determinata dagli Assiomi: è questo «primo quale» che, una volta accolto nelle forme intuitive della successione pura e della pura simultaneità [nota bene!], viene determinato secondo l’ordine necessario della permanenza e del cambiamento, della causalità e dell’azione reciproca, proprio delle Analogie dell’esperienza. È questo puro dato materiale, questo Gegen, la base dell’intera mathesis. […] «L’esperienza è un accadere che ruota su se stesso, in forza del quale quanto si trova all’interno del circolo diviene manifesto». Il movimento in circolo è un movimento che non ha termine: la forma cattura l’in-forme, ma questo in eterno le si sottrae. Ciò che nell’esperienza, nell’accadere che ruota su se stesso, si rende manifesto è allora l’assoluta datità di ciò che viene in-contro: anche questa ohne warum [senza perché], anche questa abisso della ragione – esperito dalla ragione. «Fuori» dall’orizzonte di senso, «fuori» dal mondo, «fuori» dalle forme – la cosa torna a destare meraviglia: das Wunder aller Wunder: dass Seiendes ist [la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’essente è]. Da questa meraviglia nasce la domanda: ti to on?, cui si collega quest’altra: tra la datità del Gegen-stand e la datità del Sé – tra queste datità o posizioni assolute che sempre si sottraggono alla potenza dell’a priori, del «per noi» – v’è rapporto? […] Questa possibilità che separa il sé dal Se-stesso, noi da noi stessi, e le cose dalle cose – è essa il Medio, das Zwischen, che unisce noi e le cose?¹³

    E così, in maniera sorprendente, siamo in certo modo ricondotti a Democrito: la materia della cosa è la cosa, in quanto vortice, «movimento in circolo che non ha termine». Gli atomi di Democrito sono così all’origine della scienza moderna.

    La loro riscoperta accadde in età umanistica, quando Poggio Bracciolini (1380-1459), durante la sua partecipazione al Concilio di Costanza (1414), da accanito «umanista» si mise a rovistare nelle abazie di San Gallo e di Reichenau: così scoprì il De rerum natura di Lucrezio, che si credeva perduto. Quindi Lorenzo Valla (1407-1457), che nel De voluptate (1431) recupera l’etica degli antichi e nel 1440 dimostra la falsità storica della donazione di Costantino. Quindi Pierre Gassendi (1592-1655) che, docente di astronomia al Collegio Reale di Parigi, riprende l’atomismo epicureo, cercando di conciliarlo col cristianesimo. Infine Galileo Galilei (1564-1642) che riprende la distinzione democritea tra qualità primarie e secondarie: il reale ponte verso l’atomismo scientifico moderno.

    Le più significative tappe del cammino dell’atomismo scientifico si possono così sintetizzare. John Dalton (1766-1844) riprende espressamente, nel 1808, la teoria democritea e fonda la teoria atomica moderna, combinando fisica e chimica: «un atomo è la più piccola parte di un elemento che mantiene la caratteristica di quell’elemento». Joseph John Thompson (1856-1940) fornisce nel 1902 il primo modello fisico dell’atomo, scoprendo l’elettrone: l’atomo non è pertanto indivisibile. Ernest Rutherford (1871-1937): propone il primo modello «planetario» dell’atomo (1910) e infine Niels Bohr (1885-1962), che studia le orbite quantizzate dell’elettrone (1913): siamo ormai in un’area di incompatibilità con la cosmologia newtoniana.

    Ma vediamo ora che cosa Heidegger pensa di tutto ciò:

    Potremmo adesso far seguire alla frantumazione meccanica la scomposizione chimico-molecolare; potremmo risalire sino alla composizione chimica della molecola. Ma noi intendiamo restare, secondo l’originaria impostazione del problema, nell’ambito delle cose che ci stanno attorno. Ma quand’anche seguissimo la via della chimica e della fisica, questa non ci condurrebbe oltre l’ambito della meccanica, oltre l’ambito dello spazio, nel quale qualcosa di materiale si muove da un luogo ad un altro, oppure resta fermo in un luogo. In base ai risultati dell’odierna fisica atomica – da quando Niels Bohr

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1