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Homo Donans: Per un'economia del materno
Homo Donans: Per un'economia del materno
Homo Donans: Per un'economia del materno
E-book509 pagine7 ore

Homo Donans: Per un'economia del materno

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Info su questo ebook

L’individuazione di bisogni e l’iniziativa finalizzata al loro soddisfacimento creano significato, nel linguaggio come nella vita. Assumendo tale intuizione a fondamento di una critica rigorosa e implacabile all’economia occidentale e di un’indagine teorica che attraversa femminismo e linguistica, semiotica e sociologia, economia e antropologia, in Homo Donans Genevieve Vaughan propone una via – al tempo stesso radicale e “naturale” – di cambiamento sociale che restituisce centralità ed evidenza a un «aspetto fondamentale del nostro essere umani a cui finora abbiamo prestato poca attenzione o che non abbiamo mai chiamato con il suo vero nome»: la pratica del dono.
Da non confondersi con ciò che va sotto il nome di “scambio di doni” e con la munificenza, l’atto unilaterale del donare – legato alla pratica della cura tradizionalmente associata al ruolo sociale delle donne – e la sua capacità di creare relazioni e comunità è portatore di un paradigma antitetico e alternativo al capitalismo patriarcale e ai suoi valori. Homo Donans ci sfida a riconoscerne la cruciale importanza e a farne il fulcro di una pacifica rivoluzione planetaria verso un mondo più giusto, offrendo al tempo stesso la più semplice e affascinante delle risposte all’eterno conflitto fra il parassita e l’ospite.
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2015
ISBN9788868990329
Homo Donans: Per un'economia del materno
Autore

Genevieve Vaughan

Genevieve Vaughan si occupa di semiotica, critica del capitalismo, marxismo, logiche del mercato e dello scambio, teoria femminista, comunicazione. Ha pubblicato Mother Nature's Children, un libro per bambini. Ed è in corso di pubblicazione Homo Donans.

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    Anteprima del libro

    Homo Donans - Genevieve Vaughan

    Introduzione

    Argomento di questo libro1 – all’intersezione tra femminismo e linguistica, economia, semiotica e sociologia – è un aspetto fondamentale del nostro essere umani a cui finora abbiamo prestato poca attenzione, o che non abbiamo mai chiamato col suo vero nome. Non che ciò che va sotto il nome di scambio di doni non sia mai stato studiato, ma non gli è mai stata attribuita la sua fondamentale collocazione interdisciplinare. In molti hanno altresì postulato che l’atto unilaterale del donare non esista. Io invece lo considero allo stesso tempo fondamentale e ordinario.

    Il dono è stato invalidato per una serie di ragioni, che prenderemo in esame. È strano che una realtà di tale importanza sia rimasta invisibile, ma forse ciò fornisce anche la misura di quanto il rivelarla sia di cruciale importanza, non soltanto ai fini dell’indagine accademica quanto per una questione politica. Perché siamo mossi al nuocere e all’egocentrismo, e perché la nostra capacità di compassione si assottiglia sempre più? La risposta la si può forse trovare nell’eterno conflitto tra il parassita e l’ospite, tra il paradigma dello scambio e quello del dono.

    Un altro modo di formulare la medesima ipotesi è che l’atto del donare sia stato privato del suo metalivello. Che sarebbe poi il motivo per cui non attribuiamo un nome specifico a questo fondamentale aspetto dell’esistenza. Il dono unilaterale non è equivalente all’amore o al donare incondizionato. Le condizioni ci sono: per esempio l’individuazione di un bisogno. L’altra persona, inoltre, non dovrebbe essere ostile; l’ostilità in effetti potrebbe stare a indicare che si è in presenza di un bisogno più grande (di indipendenza, forse?) di cui il donatore potenziale non si rende conto.

    L’individuazione di bisogni e di iniziativa finalizzata al loro soddisfacimento crea significato, sia nel linguaggio che nella vita. Ho incominciato a occuparmi dell’idea della comunicazione come dono negli anni Settanta, senza aver letto nessuno degli autori della MAUSS Revue fino alla fine degli anni Novanta. Credo di aver letto per la prima volta il testo di Lewis Hyde, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà, nel 1981. Dico tutto ciò per sottolineare il fatto che le mie idee al riguardo si sono formate indipendentemente e da presupposti per lo più al di fuori dagli ambiti accademici, e ho anche tentato di metterle in pratica in una fondazione femminista per più di vent’anni.

    1

    Alla scoperta del paradigma del dono

    Come ho cominciato

    Svariate circostanze nella mia vita mi hanno condotta a teorizzare una comunicazione fondata sul dono già dai primi anni Settanta, ma le mie riflessioni relative al mercato e alla logica dello scambio risalgono a ben prima. Da ragazza, nel 1963, sposai il filosofo italiano Ferruccio Rossi-Landi, e dal Texas mi trasferii in Italia. L’anno seguente mio marito fu invitato da un gruppo di colleghi a scrivere un saggio sul linguaggio visto attraverso l’ottica dell’analisi della merce e del denaro illustrata da Marx nel Capitale. Su questa falsariga, egli concepì una teoria, sviluppata in diversi suoi testi fra cui, in particolar modo, Il linguaggio come lavoro e come mercato (1968) e Linguistics and Economics (1974). Rimasi profondamente affascinata dal suo progetto, e trascorsi parecchio tempo nel corso di quegli anni tentando di far combaciare i pezzi di questo complesso rompicapo. Per me era come se il linguaggio e lo scambio (il commercio, il mercato) fossero in molti sensi la stessa cosa, ma alcuni dei pezzi non volevano sentirne di combaciare. C’era, nel linguaggio, un senso di condivisione e cooperazione, una sorta di creatività tesa al miglioramento della vita, assente invece nella maggior parte delle relazioni commerciali per come le avevo sempre viste.

    In quegli stessi anni avevo anche dato alla luce e allevato le nostre tre figlie. Essendomi concentrata sulla comparazione tra linguaggio e scambio, non avevo potuto fare a meno di notare che le mie figlie avevano cominciato a parlare assai prima di apprendere qualsivoglia nozione di scambio o, ancor meno, di applicarsi a qualcosa di simile al lavoro. Magari, pensavo, è il linguaggio che viene prima a livello individuale (e storico), ed è dal linguaggio che lo scambio discende. Sembrava improbabile che lo scambio potesse aver avuto un ruolo tanto fondamentale quanto quello del linguaggio nell’evoluzione umana. Sapevo che le popolazioni indigene delle Americhe non conoscevano né denaro né mercato prima della conquista da parte degli europei, eppure, senza ombra di dubbio esse comunicavano. Allo stesso tempo, mi sforzavo di non manipolare le mie figlie o chiunque altro, ritenendolo antitetico alla mia visione delle relazioni umane. Il paradigma dello scambio, impostato sulla dinamica del se fai questo, io farò quello che mi chiedi, mi è sempre sembrato uno schema comportamentale estremamente negativo.

    Comunque sia, in quel periodo non mi sarebbe mai venuto in mente di considerare la comunicazione una forma di dono se non mi fossi sforzata di distinguerla dallo scambio e di preservare il linguaggio dai legami con il capitale, il mercato e anche con il lavoro inteso nel senso di produzione e utilizzo di strumenti. La teoria sviluppata da mio marito, per quanto affascinante, non mi convinceva. Mancava qualcosa. Ebbi un’illuminazione. Sia la costruzione dell’analisi marxista sia la teoria di mio marito avevano un doppio fondo che custodiva un tesoro nascosto o, meglio ancora, una sorgente che sgorgava copiosa e a cui più tardi diedi il nome di economia del dono.

    All’inizio degli anni Settanta trascorsi due anni negli Stati Uniti, insieme alle mie figlie, impiegando il mio tempo libero a scrivere e a riflettere sul linguaggio e sulla comunicazione. Il risultato di quel lavoro furono due saggi pubblicati da riviste di semiotica e inclusi in questo libro nell’ultimo capitolo. Ne darò adesso una breve descrizione per introdurre le idee che successivamente germinarono in una teoria del dono e del linguaggio. Il primo saggio è intitolato Comunicazione e scambio (1980); in esso tratto del bisogno di comunicazione e descrivo le parole come elementi verbali che la gente usa per soddisfare tale bisogno. In questo quadro il denaro si caratterizza come una sorta di parola materializzata, usata per soddisfare lo specifico bisogno comunicativo derivante dalle relazioni reciprocamente esclusive della proprietà privata. Il secondo saggio si intitola Da Saussure a Vygotsky passando per Marx (1981). Avevo letto Vygotsky (1962 [1934]) e mi era venuto spontaneo operare un parallelismo tra la sua idea della formazione dei concetti astratti e l’idea marxista del denaro come equivalente generale. Nell’esperimento di Vygotsky qualsiasi elemento di un insieme può essere preso come esemplare di un concetto appartenente a quel determinato insieme, ma occorre che questo ruolo esemplificativo sia mantenuto con costanza, pena il mancato sviluppo del concetto in quanto tale. Se l’esemplare varia, l’astrazione rimane incompleta e le qualità rilevanti comuni non possono essere distinte da quelle irrilevanti.2 Mi resi conto che l’equivalente generale, il denaro, poteva essere inteso come esemplare dell’astrazione del concetto di valore nel mercato. Il denaro misura la qualità comune del valore di scambio delle merci, lasciando da parte come irrilevante qualsiasi cosa non possegga quella qualità. Se qualcosa non viene considerata merce, vuol dire che essa non possiede la qualità del valore di scambio e, di conseguenza, appare irrilevante rispetto al mercato, estranea al suo concetto.

    Sebbene da studente, molti anni prima, avessi letto sia Malinowsky (1922) che Mauss (1925), non mi resi conto immediatamente della continuità fra dono e comunicazione, forse perché il termine usato dalle culture indigene per descrivere il processo era scambio di doni e io avevo stabilito una distinzione fra scambio e soddisfacimento unilaterale del bisogno. Tuttavia ricordo che nel 1978 avevo già dato per scontato il fatto che anche nelle culture indigene vi fosse una correlazione fra dono e comunicazione. In quel periodo mi resi conto anche che l’imprinting del mercato era talmente pervasivo che tutti, antropologi inclusi, usavano il termine scambio senza metterlo in discussione. Una prospettiva differente doveva essere possibile, pensai. Se la comunicazione era basata sul dono, forse le società che non possedevano mercato usavano il dono come strumento di comunicazione. In questo modo scambio e mercati potevano essere considerati come forme alterate di dono e di comunicazione.

    In quell’anno mi imbattei in un altro concetto fondamentale, che reindirizzò le mie riflessioni. Successivamente al mio divorzio da Rossi-Landi, cominciai a frequentare un gruppo femminista di autocoscienza. Lì scoprii che il lavoro domestico è un contributo immenso, non riconosciuto né retribuito, che le donne offrono sia alle loro famiglie sia all’economia in generale. Parte di quel lavoro sono, ovviamente, le cure prodigate quotidianamente ai propri figli. Soddisfare il bisogno comunicativo di qualcun altro è esattamente la stessa cosa, mi resi conto: un dono unilaterale che instaura un rapporto fra esseri umani senza un immediato tornaconto. Anche nel dialogo, ciò che avviene non è uno scambio ma un’alternanza di doni unilaterali. Io parlo e tu capisci ciò che dico, a prescindere dal fatto che tu risponda o meno.

    Ferruccio descriveva come inevitabile la comprensione dei prodotti verbali che raggiungono – non confusi o ingarbugliati – un orecchio e un cervello sano se la persona a cui appartengono conosce la lingua in cui sono espressi. A me sembrava palese che, se è inevitabile che gli altri comprendano le nostre parole, il nostro donare parole e il loro riceverle è indipendente rispetto alla eventuale risposta. Se una risposta c’è, essa è insita nella medesima logica di dono unilaterale di colui che ha parlato per primo. Anche le domande fatte per ricevere una risposta sono prodotti verbali e, in quanto tali, dati e ricevuti incondizionatamente o, per meglio dire, vengono compresi comunque a prescindere che una risposta venga effettivamente data o meno. Negli scambi di mercato, viceversa, un prodotto viene dato unicamente in cambio di denaro. Sia chi vende sia chi compra si adegua di necessità alla logica autoriflettente e contingente del do ut des.

    Con il passare degli anni – da quei lontani Sessanta in cui cominciai a riflettere su tutto ciò – è diventato di vitale importanza creare una netta distinzione fra comunicazione e scambio, oltre che rifiutarsi di considerare la logica dello scambio come logica fondante della nostra umanità. Sono convinta che, come società, abbiamo creduto acriticamente al valore fondamentale della logica dello scambio, di conseguenza adottando e coltivando un sistema economico che si è esteso progressivamente su tutto il pianeta, fagocitando i doni unilaterali di tutti. Doni unilaterali rappresentati dalla tradizione, dalla cultura, dalla natura, dall’amore e dalla partecipazione, ma anche dai doni unilaterali influenzati e imposti dallo sfruttamento, ovvero il lavoro a basso costo o a costo zero. Se consideriamo lo scambio come logica umana fondamentale, coloro che meglio lo metteranno in pratica saranno considerati i più umani. Di contro, chi non lo pratica o non ha successo nel mercato apparirà difettoso, meno umano e, conseguentemente, più sfruttabile. Nel capitalismo, i valori patriarcali – competizione, gerarchia, predominio – si sono sposati con quelli del mercato. Per comprendere appieno questo matrimonio e giustificare alcune sconcertanti similitudini in quelle che solitamente sono considerate nozioni ben distinte, è necessario guardare al di là sia del capitalismo sia del patriarcato, individuando gli schemi a essi sottesi.

    Mi sono basata sulla mia interpretazione delle similarità fra il processo di formazione dei concetti secondo Lev Vygotsky3 e l’equivalente generale di Marx per sviluppare una teoria del capitalismo patriarcale nella quale né il predominio maschile né l’economia di mercato sono primarie. Piuttosto, entrambe sono determinate da distorsioni epistemologiche e incarnazioni dei nostri processi di formazione dei concetti; distorsioni che, a loro volta, derivano dall’imposizione sociale delle categorie relative alla suddivisione binaria di genere. Per questa ragione i valori del capitalismo sono simili a quelli del patriarcato. Nel patriarcato i maschi competono per dominare, ossia per conquistare il ruolo di esemplare o di equivalente generale; ciò si è consolidato non solo come un elemento nella distribuzione dei beni sul mercato o come modalità di organizzazione della percezione, ma come paradigma culturale diffuso nonché posizione individuale di potere sugli altri. Nel capitalismo, coloro che posseggono di più, che hanno avuto successo nel dominare economicamente, sono gli esemplari del concetto uomo esteso al senso di umano. Questa stessa scalata maschile alla cima della piramide è riscontrabile anche su altri livelli. Per esempio la ritroviamo nel modo in cui le nazioni competono fra di loro per la supremazia, per diventare la nazione esemplare dominante sia economicamente che militarmente. In diversi ambiti della vita – quello militare, religioso, economico nonché quello accademico – tale forma concettuale parrebbe incarnare per molti una sorta di agenda esistenziale, laddove invece dovrebbe fungere semplicemente da processo di astrazione mentale. In ognuno degli ambiti di cui sopra, la posizione esemplare è investita di valore e poteri speciali anziché essere vista come un qualsiasi elemento di una specifica categoria preso quale esempio di riferimento per distinguere gli appartenenti alla medesima categoria da quelli appartenenti a categorie diverse.4 Prova ne è che l’attribuzione di tale valore speciale genera e giustifica un flusso di doni all’indirizzo dell’esemplare che occupa la vetta.

    L’identificazione della vetta con l’esemplare ci dimostra come patriarcato e scambio siano incorporati non tanto nel nostro cervello a livello di chimica quanto nella nostra mente e nella società; non qualcosa di ineluttabile quindi, ma che può essere cambiato a livello radicale. Essa ci consente di individuare il problema nel modo in cui i ragazzi maschi vengono socializzati in quanto appartenenti al genere maschile in opposizione binaria a qualcos’altro: a un processo di dono che è invece il vero fondamento della natura umana. Le modalità di socializzazione variano a seconda delle culture, ma il problema si è manifestato con particolare urgenza nell’ambito della costruzione di genere euro-americana, e nell’esternalizzazione di tale costruzione nel mercato e nel capitalismo. Come l’esemplare del maschio viene usato per formare il concetto di umano, così il denaro in quanto esemplare del valore economico è un’incarnazione della posizione equivalente nel processo di formazione dei concetti. Tale struttura sociale distorta può estendersi a tutte le culture giacché risulta altrettanto familiare quanto la loro mentalità. Il patriarcato, che pone il padre o il maschio dominante nella posizione di esemplare dell’umano, può contagiare allo stesso modo culture a esso fondamentalmente estranee.

    Il paradigma dello scambio

    Il capitalismo patriarcale trova la sua autogiustificazione in una visione del mondo che io chiamo paradigma dello scambio, il quale inquadra ogni cosa in termini di logica di scambio: dal mercato matrimoniale agli scambi militari, dalla giustizia come pagamento per i propri crimini all’equazione di una coscienza autoriflettente. È un paradigma nato e promosso da un’area di attività, il mercato, in cui il dono è assente o celato, e in cui l’ego patriarcale trova campo fertile ove mettere in pratica la conquista del predominio. L’apparentemente neutro, e pertanto neutrale, approccio dello scambio oggettivo non perde occasione per negare e nascondere l’importanza del dono unilaterale, rendendo così allo stesso tempo possibile l’elargizione al sistema basato sullo scambio di molti doni nascosti. Ho citato precedentemente come esempio il dono da parte delle donne del loro lavoro domestico. Ci sono poi doni insiti nel surplus lavorativo, che determinano un plusvalore: ossia la quantità di lavoro non coperta da salario che viene di fatto donata gratuitamente (sebbene regolamentata e influenzata) da parte del lavoratore e accumulata dal capitalista. Al sistema vengono inoltre offerti innumerevoli altri doni della natura e della cultura e, attraverso il sistema stesso, passano poi nelle mani dei singoli capitalisti e in quelle delle multinazionali. Nell’ambito del paradigma dello scambio questi non vengono considerati doni quanto piuttosto diritti di merito dell’investitore che estrae, privatizza, sfrutta e inquina. Infine, i doni fatti a coloro che occupano la vetta assumono le mentite spoglie di profitto e in tale forma motivano l’intero meccanismo sistemico.

    Benché il capitalismo venga al giorno d’oggi ferocemente criticato, specie da parte dei movimenti anti-globalizzazione, nessuna chiara e radicale alternativa è stata ancora collettivamente adottata giacché è la logica dello scambio in sé che non viene identificata come radice del problema. Per quanto il commercio equo e solidale appaia preferibile al suo opposto, adottarlo nasconde l’evidenza che sia il commercio in sé ad alimentare lo sfruttamento. In aggiunta a ciò, la logica del dono unilaterale continua a essere misconosciuta, screditata e spesso anche disprezzata. Il movimento femminista, sebbene decisamente antipatriarcale, non è in molti dei suoi aspetti altrettanto anticapitalistico. Nei fatti, è la connessione fra capitalismo e patriarcato a non essere stata ancora chiaramente delineata. Al contrario, parrebbe che soltanto venendo assorbite all’interno della forza lavoro in quanto individui dotati di potere economico all’interno del sistema le donne siano state capaci di affrancarsi dalla schiavitù domestica, dalla mancanza di potere e di indipendenza. Come accade in qualunque situazione in cui il mercato si impossessa di una zona del mondo precedentemente libera – e determinando un miglioramento delle condizioni di vita per una parte degli abitanti, quanto meno a breve termine – alcune donne che sono state assorbite con successo dal capitalismo hanno ottenuto un miglioramento del loro tenore di vita. La loro libertà personale è aumentata, ma allo stesso tempo sono diventate dipendenti da una dimensione di mercato al di fuori del loro controllo. Questo stato di transizione o assimilazione, come la transizione da culture pre-capitaliste a capitaliste, fornisce alle donne una possibilità di partecipare e divenire consapevoli di entrambi i paradigmi. Il riconoscimento di una prospettiva condivisa di dono potrebbe creare connessioni interne e interculturali nel movimento delle donne. Potrebbe inoltre crearne di esterne, con movimenti di popolazioni indigene, colonizzate e sfruttate di entrambi i generi che continuano, consapevolmente o meno, a partecipare al paradigma del dono. Tutto ciò è possibile se si riesce a mettere da parte le differenze biologiche tra maschi e femmine come fattori determinanti alla base del genere, fondando la solidarietà su valori e processi che nascano da identità economiche di genere.

    Riconoscendo il femminile e il maschile come schemi comportamentali economici che hanno a che fare con le modalità di distribuzione – dono o scambio – possiamo anche guardare alle diverse culture come economicamente femminili o maschili. Le due distinte strutture economiche, ovvero il dono e lo scambio, fanno sorgere caratteristiche e distinguibili sovrastrutture ideologiche consistenti nei sistemi di valori e visioni del mondo che ho fin qui chiamato paradigma del dono e paradigma dello scambio. Ne consegue che le culture derivanti dalle pratiche del dono o dello scambio hanno a che fare rispettivamente con la celebrazione dell’altro, la compassione e la promozione della vita e, nel secondo caso, con la sottomissione dell’altro, l’egotismo, la competizione e la promozione della oggettività senza valore.5 Queste due culture coesistono a vari livelli e, come dicevo, possono anche convivere nella stessa persona, la quale potrebbe praticare entrambe le economie.

    Esistono diversi modi di adattarsi alla contraddizione fra i due paradigmi. Per esempio uno spietato uomo o donna d’affari può essere al tempo stesso attento e amorevole verso i propri figli e credere in egual misura ai valori del capitalismo patriarcale e a quelli della famiglia. Vivere all’interno di questo paradosso sembra essere tipico della Destra. Un altro modo di abitare il paradosso è estendere i valori del dono all’interno dell’economia di scambio, come accade nel welfare, senza però sostituire un paradigma con l’altro o eliminare l’economia di mercato. (Rimane peraltro da vedere quanti doni vengano offerti da fonti esterne – come le colonie – a paesi che li utilizzano a beneficio del loro welfare interno. In questo caso il welfare consiste a tutti gli effetti in doni provenienti da paesi colonizzati economicamente e politicamente.) Sia l’ideologia economica di destra che la politica socialdemocratica del welfare collocano la loro opposizione all’interno del paradigma dello scambio.

    La complessa situazione che stiamo descrivendo è ulteriormente complicata dal fatto che le due identità economiche in questione non sono né indipendenti né estranee tra loro, ma le economie e le culture maschili, e quelle patriarcali in special modo, si basano sulla negazione e la distorsione del dono, e sull’indirizzamento del flusso di doni verso i dominatori. Per fare un esempio, il Nord del mondo sta, in questo momento storico, incarnando economicamente il ruolo del maschio tentando di accaparrarsi i doni del Sud, che viene manipolato e costretto in una posizione economica femminile.6

    Il mercato, analogamente all’identità patriarcale, è una costruzione sociale creata per ricevere doni. Giacché nei paesi sviluppati le donne sono state assimilate come agenti del mercato – i loro doni venendo quindi adesso presi non direttamente come lavoro non retribuito ma come plusvalore – hanno conquistato una relativa parità nonché alcuni privilegi del maschio economico. Dal momento che l’economia del capitalismo patriarcale in Occidente ha in qualche modo allentato la presa sui doni delle donne – concedendo loro la parità con gli uomini – ed è stata a volte costretta dai movimenti dei lavoratori a ridurre in una certa misura i suoi profitti, molti dei suoi meccanismi di appropriazione dei doni sono stati reindirizzati verso altri ambiti. I nuovi doni provenienti dal Terzo Mondo si sono così aggiunti ad altri doni che per secoli sono stati offerti dalle donne agli uomini, dalle culture indigene alle potenze coloniali, dalle persone di colore ai bianchi e dai singoli individui alle corporazioni. Il capitalismo patriarcale sta mercificando aree di dono precedentemente vergini, quali la conoscenza, le sementi, le specie, l’acqua, persino il sangue e le parti del corpo. Donne e bambini dei paesi poveri vengono mercificati e venduti in una rediviva schiavitù sessuale. Le economie femminili del Terzo Mondo, i doni della natura e della tradizione vengono catturati e trasformati in nuovo cibo per il famelico meccanismo del mercato.

    Riconoscendo però che il mercato non è un processo sui generis e ineluttabile, e considerandolo spassionatamente come incarnazione e trasposizione del medesimo processo di formazione dei concetti che si usa nella classificazione (intesa come suddivisione e formulazione del genere), possiamo affrontarlo in modo nuovo e privo di paura, riuscendo così pacificamente a smantellarlo.

    Soggettività

    Le due logiche, quella dello scambio e quella del dono, producono anche tipi diversi di soggettività. La pratica dello scambio produce un tipo di ego autoreferenziale e orientato a una logica di soddisfacimento dei propri interessi, mentre la pratica e la logica del dono producono un maggiore orientamento verso l’altro. Lo scambio è un dono che ritorna su sé stesso, raddoppiato e reso condizionale. Richiede quantificazione laddove il dono è invece primariamente qualitativo. Lo scambio è egocentrico mentre il dono è altruistico. Lo scambio colloca gli attori della transazione in posizioni avverse: ognuno cerca di ottenere più dell’altro dalla transazione stessa. I valori del patriarcato sono impliciti nello scambio e alimentano il capitalismo, giacché ciascuno dei contendenti lotta per imporsi in vetta alla gerarchia per possedere di più e diventare sempre più grande. Il tipo di ego basato sulla logica dello scambio è essenziale per il mercato, mentre la personalità orientata al dono viene eliminata o sottomessa e ridotta a organismo ospitante dell’ego fondato sullo scambio.7

    Una conseguenza sovrastrutturale di una formazione dell’ego fondata sulla logica dello scambio è che la coscienza stessa viene considerata, alla luce dello scambio, come elemento autoriflettente in una sorta di equazione di valori con sé stessa. Il subconscio viene così posto in una posizione donante, a fornire energia, ricordi e idee a questo meccanismo autoriflettente. Potremmo affermare che la nostra idea di coscienza rispetto alla sua capacità di autovalutazione si costituisce a immagine di una preparazione allo scambio. La coscienza autoriflettente si mantiene a galla sopra i doni dell’inconscio e dell’esperienza, senza una chiara consapevolezza di come questi doni vengano poi in mente. In modo analogo il mercato si mantiene a galla su un mare di doni senza chiara consapevolezza né della provenienza di tali doni né di come essi costituiscano profitto.

    A livello di singoli individui, la coesistenza e il conflitto così come la simbiosi di queste due tipologie di strutture dell’ego – una orientata verso l’altro e pertanto quasi trasparente a sé stessa, e l’altra orientata verso sé stessa e autoriflettente – possono essere considerati come risultato del paradigma dello scambio, non come la sua causa. Ciò non avviene perché gli esseri umani sono avidi e, di conseguenza, hanno creato il mercato e il capitalismo; piuttosto perché il sistema esiste comunque, a prescindere dai singoli individui che ne fanno parte. Il patriarcato, il mercato e il capitalismo creano negli esseri umani le strutture dell’ego che meglio si adattano ai propri bisogni. L’avidità è uno degli attributi umani funzionali allo sviluppo e al mantenimento del mercato in quanto tale. La competizione per l’autoespansione narcisistica e il predominio si giocano sul piano economico, poiché altrimenti il mercato non crescerebbe e non conserverebbe il controllo su ogni altra via alternativa di distribuzione dei beni, una fra tutte il dono. Il patriarcato fornisce la motivazione che alimenta il capitalismo, nonché gli individui che incarnano tale motivazione, di un ego e un sistema di valori che a loro volta legittimano l’incarnazione stessa. Il capitalismo fornisce gli strumenti e le ricompense tramite cui gli individui e ora le grandi aziende servono i fini del patriarcato sul terreno della cosiddetta distribuzione di beni verso i bisogni, attraverso lo scambio.

    Le cure materne, invece, implicano la distribuzione unilaterale e gratuita di doni e servizi ai figli piccoli, con la conseguente creazione di legami umani fra donatori e riceventi. La società ha assegnato questo ruolo alle donne. Benché le abbiamo appena caratterizzate come forma di distribuzione di beni, le cure materne di norma non vengono affatto considerate una categoria economica. Al contrario, sopravvalutando lo scambio e rendendolo predominante tramite infusione di motivazioni patriarcali, il mercato svaluta la maternità rendendola asservita e dipendente. La categorizzazione stessa del maschio come non-donante e superiore, e dei beni come non-doni, dequalifica la maternità e il dono come non-categorie. Orientarci verso il paradigma del dono ci consente di accorgerci che la distribuzione diretta di doni e servizi verso uno specifico bisogno, così come essa è presente nella maternità, può essere considerata come esempio della pratica di un’economia alternativa. Come modello di distribuzione, la cura materna è presente in tutte le società giacché lo richiede non tanto la natura biologica femminile, quanto quella dei bambini. Più precisamente, per un periodo di tempo molto lungo la natura biologica dei bambini non consente loro di soddisfare direttamente la maggior parte dei propri bisogni, né tantomeno quelli altrui, richiedendo quindi – e sollecitando – orientamento all’altro e pratica di dono unilaterale da parte di chi fornisce loro cure.8

    Patriarcato

    I bambini iniziano la loro vita con le madri in un’economia comunicativa che crea legami e fondata sul dono; al tempo stesso essi cominciano anche ad apprendere il linguaggio. Tuttavia presto entrano in gioco le suddivisioni in categorie legate alla natura binaria dei generi, sia nel linguaggio sia nella società, e i figli maschi scoprono di appartenere a una categoria opposta a quella della loro madre dispensatrice di cure.9 Ciò equivale a dire che, se la caratteristica più saliente della madre agli occhi di un bambino è il soddisfare unilateralmente ogni suo bisogno, il fatto di appartenere al genere binario opposto implicherà per lui che, invece, il soddisfacimento unilaterale dei bisogni altrui non sarà il suo ruolo. Esiste ben poco nei primi anni di vita di un bambino che non faccia parte di un’economia di dono. Tuttavia egli imparerà a negarne l’importanza, a trasformarla in qualcos’altro e finanche a considerare la stessa suddivisione in categorie come parte fondamentale della propria identità. Sarà il padre (che, a sua volta, quando era bambino ha fatto esperienza del medesimo processo) a diventare per il bambino l’esemplare dell’umano, prendendo il posto della madre che spesso, paradossalmente, dona di più a padre e figlio che non a sé stessa o alla figlia femmina. Ovvero, essa dona e conferisce valore di preferenza a quelli la cui identità di genere impone loro di NON donare.10 Lo spodestamento del modello materno da parte del padre, e la conseguente assunzione da parte di questi del ruolo di esemplare dell’umano (non donante) è il germe del predominio del maschio sulla femmina, della divisione in categorie sulla comunicazione e, in ultima analisi, dell’economia dello scambio su quella del dono. Mentre il figlio maschio rimpiazza un modello con l’altro, rinunciando alla madre e al donare e ricevendo al loro posto il padre e l’identità maschile, la madre abdica e rinuncia a lui unilateralmente, incoraggiandolo a essere maschio e assai raramente prendendo in considerazione l’idea di poter rimanere al proprio posto come modello umano.11

    Le relazioni umane egocentriche determinate dallo scambio economico sono un opposto socialmente creato delle relazioni di dono e forniscono alla società un modo di distribuire beni a bisogni corrispondenti senza che questo appaia come un gesto materno. Il mercato è un ambito dell’esistenza in cui, tramite lo scambio, possiamo dare senza realmente dare e ricevere senza realmente ricevere. In un sistema di mercato, infatti, dobbiamo meritarci ciò che riceviamo, ovvero dobbiamo già aver precedentemente dato qualcosa per il quale il dono che riceviamo rappresenta il compenso. L’equivalenza di merci e denaro nello scambio di fatto annulla il dono. Dal momento che riceviamo l’equivalente di quanto abbiamo donato, non si percepisce alcun trasferimento di valori da una persona all’altra.

    Il mercato è una delle soluzioni approntate dalla società per risolvere i dilemmi derivanti dall’imposizione sui propri figli di categorie basate sulla divisione binaria di genere. È un luogo e un aspetto dell’esistenza in cui le persone possono rinnegare il proprio orientamento verso l’altro e ribaltare la produzione per gli altri a proprio vantaggio; un luogo dove nessuno viene accusato di atteggiamenti materni. Il fatto che le donne possano partecipare alla pari con gli uomini in questa arena spietata mostra palesemente come le radici di quest’ultima siano non tanto biologiche ma sociali, derivanti da una costruzione non biologica bensì sociale dei generi.

    Colpire

    L’escalation verso il predominio attraverso la competizione può essere ovviamente affrontata non solo sul piano economico ma anche su quello fisico, psicologico, linguistico e istituzionale, sia a livello individuale che di gruppo. Una delle prime forme di interazione non legata alle cure materne che i bambini apprendono è rappresentata dal colpire/picchiare. Di fatto, il colpire può essere considerato come un dono trasposto, nella misura in cui una persona ne tocca un’altra trasferendo energia fisica non per prendersene cura ma per farle male e dominarla. La natura di dono trasposto emerge anche dalle espressioni verbali legate al colpire: Prendi questo, oppure Te la sei voluta!. Questo tipo di competizione fisica consente a chi i colpi più forti di dominare.

    Come molte donne hanno potuto notare, esiste una continuità di fatto tra le risse di strada e la guerra. A entrambe si applicano i medesimi principi. La tecnologia è diversa ma simbolicamente concomitante. Giacché il pene rappresenta la proprietà identificativa degli appartenenti alla categoria sociale non materna, ovvero quella maschile, non sorprende affatto che individui e gruppi fra loro in competizione per il predominio si muniscano di marcatori identitari ancora più grossi e pericolosi: dai bastoni alle spade, dai fucili ai missili. Oltre a ciò, la competizione tra padri e figli mette l’uno contro l’altro i possessori di attributi fallici più piccoli con quelli che ce li hanno più grossi. Così, nel tentativo di conquistare la posizione di esemplare (quella di padre dominante), i gruppi si forniscono di strumenti di morte sempre più grandi, capaci di distruggere sempre più persone e beni. L’aspetto delle dimensioni può venire rimpiazzato anche dall’aspetto dell’effetto, come nel caso delle armi di distruzione di massa – siano esse biologiche o nucleari – che diventano quindi il segno distintivo della nazione esemplare maschile dominante.

    Questa aspirazione collettiva alla posizione maschile dominante può avere come effetto la conferma dell’identità maschile per gli uomini che combattono e anche per quelli che semplicemente appartengono alla nazione in lotta. Le donne possono combattere, o sostenere coloro che combattono, o ancora prendere parte in altri modi, anch’esse come semplici membri di una nazione. La società in questo modo fornisce ai gruppi un modo di conquistare un’identità maschile collettiva, indipendente dal genere biologico individuale di appartenenza, a cui possono partecipare sia uomini che donne. Il predominio maschile viene in questo caso interpretato come potere oggettivo neutro sugli altri, e sia le donne sia gli uomini possono ambire a ottenerlo così come, a livello collettivo, le nazioni o le aziende multinazionali. Sia le donne sia gli uomini possono, ovviamente, partecipare dell’identità maschile dominante collettiva della loro nazione o corporazione, anche se a livello individuale essi sono asserviti o privi di qualsivoglia potere.

    Quanto appena descritto è alla base del patriottismo, o della lealtà aziendale. Il razzismo è il sentirsi parte dell’identità collettiva maschile dominante della presunta razza esemplare. Il classismo è il sentirsi parte dell’identità collettiva maschile dominante della presunta classe esemplare.

    Suddivisione in categorie

    La competizione psicologica per il predominio può prendere il posto della competizione fisica. Categorizzare gli altri come inferiori ripropone a oltranza la distinzione di genere, che colloca alcuni individui – solitamente gli stessi che operano la suddivisione – in una categoria superiore alla quale gli appartenenti alle categorie inferiori devono dare sia a livello materiale sia psicologico. Allo stesso tempo il dare e ricevere che continua positivamente ad aver luogo nella comunicazione linguistica e materiale non viene riconosciuto, venendo o denigrato o sopravvalutato e reso inaccessibile alle persone comuni. Al suo posto troviamo categorie oggettive neutre e neutrali che riflettono le categorie neutrali e non donanti del mercato: valore di scambio, produzione, distribuzione (attraverso lo scambio), consumo, domanda e offerta, lavoro retribuito, beni, denaro, capitale; e ognuna di queste è costruita sulle spalle dell’economia del dono.

    La logica della suddivisione in categorie, sostenuta dal processo di selezione del mercato, stabilisce il genere di cose a cui attribuire valore e il loro grado di visibilità, di fatto escludendo il donare in quanto aspetto del sapere. Tali inclusioni ed esclusioni vengono operate per giocare d’anticipo sul soddisfacimento dei bisogni, che vengono legittimamente ignorati se, per esempio, coloro che li manifestano non fanno parte della categoria di quelli che hanno denaro per permetterselo. L’eccesso di enfasi data alla suddivisione in categorie in ambito economico influenza un analogo eccesso di enfasi relativo alla suddivisione in categorie nel nostro pensiero in senso generale. Tendiamo a non considerare la nostra produzione intellettuale alla luce di quali bisogni essa possa soddisfare ma, semplicemente, in termini di una serie di atti (non doni) di inclusione ed esclusione di vario genere che noi operiamo.

    La pratica del dono è resa ardua dalla sua coesistenza con lo scambio. Giacché il donare è cooperativo laddove lo scambio è competitivo, la competizione è persa in partenza proprio per mancanza di competizione. Questo contesto di scambio antagonistico alimenta sospetti nella comunità, facendo apparire il donare come un trip egotistico di superiorità morale o una subdola pretesa di riconoscimento e potere. In effetti, specie in un contesto in cui i rapporti di scambio rappresentano la norma, la pratica del dono può diventare una forma di manipolazione asservita a scopi egoistici, deviando così dal proprio percorso transitivo unilaterale e ripiegando su sé stessa. L’aspetto peggiore della competizione fra lo scambio e il dono è rappresentato dal non competere alla pari da parte del paradigma dello scambio. Giacché vivere secondo la logica del dono migliora la qualità della vita, mentre vivere in un regime di scambio è bio-patico, il paradigma dello scambio per riuscire a prevalere ha creato un sistema che mutila il donare e ne assoggetta al mercato la capacità di procacciarsi i mezzi. Dirottando il flusso di doni nelle mani di pochi12, sprecando la ricchezza in eccesso in armamenti, droga e simboli di potere (grattacieli, monumenti, gioielli), privatizzando i doni della natura e della cultura, il capitalismo patriarcale provoca artificialmente la scarsità di risorse necessaria a penalizzare il donare mantenendolo subordinato. Di fatto, lo stesso flusso di doni a beneficio dei ricchi deve essere regolamentato, così da non correre il rischio che avanzi nulla. La marea va mantenuta bassa, altrimenti tutte le navi prenderebbero il largo.

    Sebbene le bambine non vengano educate socialmente a costruirsi un’identità di genere contrapposta a quella delle loro madri – molte di loro saranno a loro volta madri in età adulta – esse possono venire incoraggiate ad ambire all’inclusione nelle categorie sociali superiori e a conquistare la posizione di esemplare maschile. In un contesto di privazioni in cui la suddivisione in categorie ha assunto importanza eccessiva a causa della divisione binaria di genere, non è strano che le ragazze ambiscano a essere incluse nella categoria sociale privilegiata dei destinati a ricevere. Ciononostante, dal momento che i bambini necessitano del dono unilaterale per sopravvivere, le donne che sono state socialmente orientate verso questo compito (o, quantomeno, non orientate antiteticamente a esso) rimangono aderenti alla logica del dono in molti aspetti della loro esistenza, anche se non hanno figli o se sono state assorbite dal mercato e vedono il mondo attraverso la lente del paradigma dello scambio.

    La pratica della logica del dono a livello verbale e materiale può aver luogo anche senza che ne siamo consapevoli. Di fatto, la pratica del dono unilaterale è di natura transitiva e pone valore e attenzione sull’altro; lo scambio, viceversa, richiede quantificazione e misurazione, palesando in questo modo a chi lo mette in atto la visione di quanto si sta facendo. In Occidente siamo abituati alla conoscenza e alla coscienza autoriflettenti proprie dello scambio, per cui aderiamo a quanto osserviamo senza metterlo in discussione, e quanto osserviamo NON è ovviamente dono. La gratitudine ci può portare a prestare più attenzione ai doni che facciamo e riceviamo ma, nel momento in cui rendiamo il nostro dono contingente alla gratitudine altrui, questo non è più unilaterale. In un contesto di scambio anche la gratitudine è problematica. Rischia di apparire, o diventare a tutti gli effetti, un compenso per i doni ricevuti. Esiste inoltre una penuria di gratitudine perché meritare appare più onorevole del semplice ricevere. Ciò che è necessario adesso è considerare il donare

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