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E-book278 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Michele Barbieri pensa di essere una brava persona. Ha trentasette anni, vive a Torino e lavora con poco entusiasmo in una casa editrice che pubblica costosissimi e invendibili libri d’arte, la cui unica attrattiva attuale, soprattutto a livello di social, dopo anni gloriosi è rappresentata dalla Sala Cuccioli, dove i dipendenti possono rilassarsi accarezzando cagnolini. Michele è un tipo ironico, che spesso non prende abbastanza sul serio le situazioni. Convive con Sandra, che di mestiere fa la blogger, ma i suoi (scarsi) introiti sono dovuti principalmente ai prodotti che le aziende le mandano da recensire e che lei rivende su eBay. I due hanno una figlia, Cthulhu, concepita (per errore) quando la relazione era ancora agli inizi. Il nome della bambina, preso dai romanzi di H.P. Lovecraft, arriva da uno scherzo degli amici di Michele in risposta a Sandra, che sul blog aveva fatto un sondaggio per decidere il nome della bambina. E poiché Sandra il blog e internet sono tutto, aveva accettato quel nome in quanto «verdetto della rete». Sandra infatti è ossessionata dall’idea che un giorno scriverà il «post decisivo», che diventerà virale e le spalancherà tutte le porte: la ospiteranno in tv, avrà una parte in un reality, le chiederanno di scrivere un romanzo… Tra lei e Michele serpeggia una tensione latente: lui non è interessato al web, e lei pensa che disprezzi il suo blog e preferirebbe si trovasse un lavoro «normale». L’impressione che danno, più di essere una coppia, è di essere due colleghi che si occupano di una bambina. I momenti di affetto sono rari, così come il sesso. Un giorno, mentre sta attraversando le strisce pedonali, Michele rischia di essere travolto da un’auto di passaggio. Non succede nulla, ma lui ha una reazione violenta e, trovato un sampietrino per terra, lo scaglia contro la vettura. Altrettanto istintivamente, Michele fugge, non prima di essersi accorto che una ragazza accanto a lui ha visto tutta la scena. Quando Michele torna a casa, scopre attraverso Sandra che un «pazzo» in centro a Torino ha scagliato un cubetto di porfido contro un’anziana signora, ferendola in modo molto grave. Qualcuno però ha documentato la scena su un post che è diventato virale su Facebook. L’autrice è la rivale storica di Sandra, la blogger MorganaScrive. È proprio MorganaScrive la ragazza che l’ha visto, e il post è una descrizione di Michele, che però si sente temporaneamente scagionato, visto che MorganaScrive ha calcato un po’ troppo la mano su certi aspetti che lui non riconosce. Michele decide di continuare la sua vita come se nulla fosse successo, anche se l’episodio del sampietrino lo pone di fronte a delle domande su se stesso – sono un violento? sono un frustrato? Intanto, per non rischiare di essere riconosciuto, cambia il proprio look: si taglia i capelli e si compra un completo elegante da indossare al lavoro. Questo cambiamento però ha delle conseguenze inaspettate.
LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2020
ISBN9788833860626
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    Anteprima del libro

    A cosa stai pensando - Marco Lazzarotto

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    1.

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    Ringraziamenti

    golem / romanzo

    © 2019 Miraggi Edizioni

    via Mazzini 46, 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Pubblicato in accordo con Pastrengo Agenzia Letteraria

    In copertina: illustrazioni di Ombretta Tavano

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Borgoricco (PD)

    nel mese di settembre 2019 da Logo srl

    per conto di Miraggi Edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    Prima edizione digitale: settembre 2019

    isbn 978-88-3386-062-6

    Prima edizione cartacea: settembre 2019

    isbn 978-88-3386-057-2

    Alle mie due V.

    1.

    In cima al cavalcaferrovia, lo sguardo rivolto al retro della stazione di Porta Nuova, le punte delle dita infilate tra le maglie della griglia metallica che sovrasta il parapetto. Di sicuro un modo per scoraggiare aspiranti suicidi, o quantomeno per dirgli «Non qui». Oppure chi avesse intenzione di lanciare qualcosa contro i treni, che in quel punto vanno ormai a passo d’uomo.

    Sotto di me, il groviglio di binari trovava ordine nella rastrelliera delle pensiline più avanti. Il cielo esponeva un campionario completo delle variazioni del grigio, dal cenere al nero, e non si intravedeva neppure uno spiraglio azzurro nella volta che andava dalla collina, alla mia destra, alle Alpi, alla mia sinistra. Il grattacielo della Sanpaolo, nonostante la distanza lo riducesse a un trattino verticale chiaro, spiccava. Anche da lì mi dava l’impressione che gli mancasse qualcosa, come se non l’avessero mai ultimato. Tozzo, talmente bianco da risultare luminoso, una fonte di luce, si stagliava sullo sfondo come se ce l’avessero incollato sopra dopo averlo ritagliato da una giornata migliore di questa. Lo chiamavo «il Frigorifero», e tutti lo trovavano molto divertente.

    Per fortuna il Frigorifero mi aiutava a orientarmi; mi permetteva di calcolare, in maniera molto approssimativa, dove fosse avvenuto tutto (un po’ a destra del grattacielo), il mio percorso fin lì, e dove si trovasse casa (un po’ a sinistra del grattacielo).

    L’imbarazzo si stava affievolendo, la mano non mi doleva neanche più, nei punti in cui avevano premuto gli spigoli del sampietrino, e dentro la testa non rimbombavano più le urla. Era ora di avviarmi; mi sono staccato dal parapetto e voltato dall’altra parte. Oltre la linea di mezzeria, oltre la seconda corsia, oltre il marciapiede opposto, l’altro parapetto, attraverso l’altra griglia di metallo per fermare suicidi e malintenzionati, il profilo di un secondo parallelepipedo bianco si ergeva sulla città. Da dove mi trovavo, la sua forma pura era in tutto e per tutto simile a quella che adesso era alle mie spalle e che, se provavo a guardare con la coda dell’occhio, era ancora lì. Il grattacielo della Sanpaolo era ancora lì. Alle mie spalle. Sempre che si trattasse del grattacielo della Sanpaolo: non ero mica più così sicuro. E se fosse stato quello davanti a me, il grattacielo della Sanpaolo, allora dov’era che mi trovavo? Quale parte di città avevo creduto di osservare, fino a quel momento? Dove abitavo? Dov’è che era successo tutto? Dovevo ricalcolare il mio percorso. Mi girava la testa. Qual era il sud? E il nord? Mi sembrava di essere trascinato verso il basso e al tempo stesso di precipitare.

    Ma è durato poco. Il tempo che l’iPhone avviasse le mappe e piazzasse un pallino azzurro su un reticolato che poi, pezzo dopo pezzo, è diventato la mia città dall’alto. La mappa ha ruotato alcune volte intorno al pallino azzurro, come ad assecondare la mia testa. Poi si è fermata: ok, quello che stavo guardando era il nuovo grattacielo della Regione Piemonte, di Fuksas, mentre quello alle mie spalle continuava a essere il grattacielo della Sanpaolo, progettato da Piano. Mi trovavo dove credevo di trovarmi. I miei piedi erano saldi sul marciapiede, per quanto sotto di me, oltre strati di asfalto, catrame e cemento armato, prima delle rotaie, ci fossero almeno venti metri di vuoto.

    2.

    Avevo raggiunto il bordo del marciapiede e stavo per attraversare corso Vittorio. Alle mie spalle, l’ultimo arco di portici prima di corso Re Umberto, che incorniciava l’ingresso dell’Antica Torrefazione Palazzi e le sue luccicanti vetrine con le magnum di spumante e le piramidi di gianduiotti.

    Era verde: più avanti, sulle strisce pedonali, altre persone avanzavano con la sicurezza di chi sa di avere il semaforo dalla propria parte. Se ero rimasto indietro è perché nell’attesa avevo dato un’occhiata sull’iPhone all’ultimo post di Sandra. Ci teneva al mio parere: peccato pubblicasse sul blog sempre prima di chiedermi cosa ne pensassi.

    Infilato il telefono nella tasca posteriore dei jeans, informato quantomeno sul tema affrontato quel giorno dalla mia compagna, appena il tempo di appoggiare la punta del piede sul primo rettangolo bianco che mi è passata davanti. Ci saranno stati cinque centimetri, tra me e l’automobile: meno male che mi sono fermato in tempo.

    Sono alto un metro e novantuno, all’epoca dei fatti pesavo poco meno di cento chili, avevo i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo che mi arrivava a metà schiena e una barba così folta da nascondermi il collo e le stanghette verticali della K e della L della scritta «Brooklyn» sulla felpa rosso vivo che indossavo quel giorno.

    «Porcatroia!» ho urlato, e con lo sguardo ho seguito la Panda azzurra che se la filava indifferente.

    Sì, mi aspettavo delle scuse, anche minime: un braccio sollevato – magari più all’indirizzo dello specchietto retrovisore che a me – sarebbe stato comunque qualcosa.

    Poi l’ho visto, nitido sul bianco della prima striscia pedonale, come centrato dall’unico raggio di sole che era riuscito ad aprirsi un varco nella tavola compatta delle nuvole di quell’anonima giornata di marzo: il sampietrino.

    La Panda aveva tirato dritto senza alcuna scalfittura, come se niente fosse. È passata col rosso per poi girare a destra. Magari senza la freccia e col guidatore che parlava al telefono. E forse fumava pure, e poi ha buttato la cicca dal finestrino, verso qualcuno che passeggiava ignaro – una donna con passeggino? – e per finire si è fermato, parcheggiando in doppia fila e bloccando un’auto che aveva urgenza di partire… Così, giusto per completare il quadro.

    Non ho fatto in tempo a individuare in quale punto dell’asfalto fosse andato a rotolare il sampietrino che, alla mia destra, «Lui, lui!» stava urlando qualcuno. Una ragazza, in piedi nel tratto di marciapiede davanti al pilastro d’angolo dei portici. Ho guardato ancora una volta verso l’attraversamento pedonale, e oltre, e il segmento di strada tra le strisce e il semaforo, e poi di nuovo la ragazza. Carina? Difficile dirlo, con il viso deformato dalle urla. «Lui! Lui!» Urlava, ma non indicava nessuno, non faceva nulla. Se ne stava immobile davanti al pilastro a urlare «lui» come se fosse il richiamo per una qualche rara specie di uccello urbano, di fianco a un ovale bronzeo che raccontava, in italiano e inglese, le vicende dell’Antica Torrefazione Palazzi, dal 1874 a oggi.

    «È stato lui!»

    Sono state le mie gambe a partire, di loro iniziativa, come se avessero capito qualcosa molto prima del resto del corpo. Si muovevano agili e sciolte, due meccanismi ben rodati e oliati; ero sorpreso, come se non avessi mai conosciuto le loro reali potenzialità; probabilmente, senza che lo sapessi, erano già predisposte per la fuga.

    Tutta colpa di quella ragazza. Le sue urla avevano un che di feroce, sembravano anticipare un’aggressione: mi aveva spaventato, ed era da lei che stavo fuggendo.

    È stato così che ho percorso un lungo tratto di portici di corso Vittorio per sbucare in piazza Carlo Felice, attraversandola poi come un disperato che vede passare l’ultimo bus notturno – anzi, l’Ultimo Bus della Storia dell’Umanità. A quel punto, mi sono concesso di riprendere fiato, mescolandomi con la folla che aspettava intorno alle pensiline. Il cuore picchiava con insistenza contro lo sterno e mi era venuto caldo, così mi sono sfilato la felpa, l’ho arrotolata e legata in vita.

    Che figura di merda. Avevo rischiato di essere investito, avevo sbroccato malamente, e non solo una tizia (carina? forse sì) mi aveva visto, ma urlando aveva cercato di comunicarlo a chiunque fosse nei paraggi. Ma cosa pretendevo? Difficilmente il guidatore si sarebbe fermato per dichiarare: «Ha fatto bene a fracassarmi il lunotto posteriore, d’altronde ho commesso una grave infrazione. La lezione che ha voluto impartirmi mi è chiara, non lo farò mai più. Le sono davvero grato»; difficilmente ci sarebbero stati una stretta di mano e dei saluti. Per quanto avessi ragione – ero io che stavo attraversando col verde, mentre era lui quello che era passato col rosso – non era da me reagire in quel modo. Tutto era durato non più di cinque secondi: troppo pochi per indignarsi e decidere di farsi giustizia da soli valutandone pure le conseguenze. Potevo descrivere cosa avevo provato solo ricorrendo a una frase fatta: non ci ho più visto dalla rabbia. Era andata così, come se qualcosa di estraneo si fosse impossessato di me, mi avesse guidato e spinto a tirare il sampietrino. Qualcosa che sapeva dove trovare il sampietrino. Era stato tutto così rapido che non ero riuscito a capire chi o cosa fosse, ma senza dubbio era dentro di me.

    Non ero un violento, cazzo; non lo ero mai stato: non mi veniva in mente un solo episodio in cui avessi messo le mani addosso a qualcuno – andando a scavare nei recessi della memoria, recuperavo solo le volte in cui le avevano messe addosso a me, poche per la verità, perché dalla prima liceo in avanti la mia stazza ha sempre scoraggiato eventuali assalitori. Ogni tanto ero un po’ polemico, questo sì, e Sandra non perdeva occasione per rimproverarmelo, secondo lei era un atteggiamento sterile e autocompiaciuto. Se non fossi stato polemico non me la sarei presa con la Panda azzurra per essere passata col rosso eccetera eccetera.

    Ero uscito da poco dal lavoro. Il mio collega Crapanzano mi aveva salutato invitandomi a dare una palpatina al culo di quella figa di mia moglie da parte sua. Come al solito. Io gli avevo risposto che non era mia moglie, eravamo coinquilini, e lui aveva riso un sacco. Come al solito. Nel corso della giornata non era accaduto nulla di significativo. Non avevo proprio nulla di che lamentarmi della Fratelli Cuzzi Edizioni d’Arte. Ero stato assunto, cosa che non capitava a tutti, in un settore in crisi, con un mercato sempre più in contrazione, presso un editore che dopo un periodo di splendore (avete presente Storia dell’arte del Ventesimo secolo in venti volumi?) arrancava; percepivo uno stipendio più che dignitoso, e con puntualità; nessuno aveva mai avuto da ridire sui miei capelli lunghi o sulle mie magliette coi nomi sanguinolenti delle band e infine, cosa non da poco, quel che facevo non mi dispiaceva affatto. Ero un grafico editoriale, mi occupavo di volumi molto complessi, ricchi di immagini, e con note così piccole che l’ipotesi di un accordo segreto tra l’editore e la lobby degli oculisti non mi sembrava tanto folle. Nei casi più complicati, il mio lavoro si trasformava in una lunga partita a Tetris e, per quanto certe volte trovare l’equilibrio tra testo, immagini e note a piè di pagina fosse un’impresa tale e quale ad afferrare un’anguilla con le mani insaponate, non perdevo mai la pazienza. Non mi capitava nemmeno con gli autori più ossessivo-compulsivi, come la soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici del Piemonte, la professoressa Emilia Rossetti, che io e Crapanzano avevamo affettuosamente ribattezzato DSM-IV. (Io e Crapanzano avevamo un soprannome per ogni collega). Anche quel giorno DSM-IV mi aveva imposto delle modifiche alla sua monografia su Giovannone da Varazze, oscuro pittore di pale d’altare del Cinquecento («Spostiamo questa Madonna con Bambino nella pagina successiva» o «Aggiungiamo una nota bibliografica qui e qui e qui»), ma era gestibile, e io e Crapanzano avevamo il nostro modo di sdrammatizzare.

    Insomma, non trovavo nulla, nelle ultime ore, che mi avesse spinto di punto in bianco a lanciare sampietrini.

    Respiravo meglio, nonostante il gusto ferroso in bocca, e la vampata post-corsa era passata. Di fronte a me, la facciata della stazione di Porta Nuova era impacchettata per lavori; quel restauro sembrava eterno, non ricordavo più quale fosse il volto della stazione. Se lo spartivano due colossali messaggi promozionali: a destra, la nuova monovolume della Fiat; a sinistra, un ventaglio multicolore di nuovi smartphone della Samsung.

    La ragazza che urlava. Ecco: aveva un Samsung Galaxy in mano. Con la cover nera, lucida. Gli unici dettagli di lei che mi erano rimasti impressi. Mentre urlava che ero stato io, in realtà teneva gli occhi incollati allo schermo dello smartphone.

    Il fiato m’è venuto meno, insieme a una pressione sullo sterno. ’rcatroia: mi aveva fotografato, immortalato mentre, col braccio ancora teso in avanti, cercavo di capire dove fosse finito il sampietrino? Poi mi sono ricordato come teneva lo smartphone: con tutte e due le mani. Per fotografarmi meglio? Messa così, tuttalpiù avrebbe potuto inquadrarmi le scarpe: in effetti, era probabile che in tutta Torino non fossero molti gli esemplari di Converse blue navy numero quarantasette. No: stava scrivendo. Stava scrivendo un messaggio e contemporaneamente mi aveva visto lanciare il sampietrino, tutto lì. Fine del discorso.

    Ero abbastanza sicuro di non averla neanche sfiorata, la Panda. E allora, che cazzo aveva da urlare in quel modo?

    Senza rimettermi a correre, ma comunque a passo spedito, ho attraversato corso Vittorio e mi sono avviato verso i portici di via Nizza. Dove stessi andando non avrei saputo dirlo, visto che casa mia era a qualche chilometro nella direzione opposta; era come se stessi cercando di mettere quanta più distanza possibile tra me e l’incrocio dove avevo avuto quell’assurdo attacco di rabbia. Speravo che a un certo punto – forse sarei dovuto arrivare fino in piazza Bengasi; no, oltre: a Moncalieri, se non addirittura in Liguria – sarebbe diventato così piccolo da non esistere più.

    Ed ecco che mezz’ora dopo stavo percorrendo il cavalcaferrovia in discesa. Ho attraversato via Sacchi, facendo ben attenzione che non ci fossero automobili in arrivo nel raggio di almeno mezzo chilometro, e mi sono infilato nel primo bar che ho incontrato. Stava chiudendo: le sedie erano sopra i tavoli e il proprietario stava lavando il pavimento. Ho chiesto un Sansimone dicendo che sarei stato rapido; lui ha fatto una smorfia, ha precisato che il ghiaccio non me l’avrebbe messo, poi ha posato lo spazzolone nel secchio ed è andato dietro il bancone. Mi ha servito l’amaro in un bicchierino di carta da caffè, me l’ha passato sul bancone ancora umido dicendomi: «Cinque euro».

    Era un test. Il barista era la prima persona con cui interagivo dopo il lancio del sampietrino. Si era trattato di un episodio? O ero un violento represso? O c’era appena stata una svolta, si era aperta una breccia e adesso ero una persona diversa? Ho estratto un biglietto da dieci, lui ha tirato fuori un cinque da una tasca del grembiule. Non aveva alcuna intenzione di farmi lo scontrino. E non me l’ha fatto. L’ho guardato negli occhi, e di solito a questo punto il commerciante dovrebbe mettere su un sorriso falso e ammettere che si stava dimenticando. Niente: mi ha guardato anche lui negli occhi, poi è tornato a lavare il pavimento.

    «E lo scontrino?» ho detto.

    Mentre strizzava lo straccio nel secchio, mi ha detto: «è già tanto se ti ho dato da bere».

    Mi sono guardato intorno: c’erano un bastone, un secchio, delle sedie, volendo pure parecchie bottiglie. Insomma, avevo a portata di mano un bel po’ di strumenti per fargli del male. Ma, davvero, non ho sentito nulla. Non mi è successo di non vederci più dalla rabbia. Ho ingollato il Sansimone, e sono uscito ringraziando e scusandomi.

    È stato fuori del bar che mi sono accorto che Sandra mi aveva scritto un messaggio. Per la verità, si trattava di un’immagine, un disegno astratto realizzato da nostra figlia con l’iPad. Una composizione di poligoni senza alcun criterio di distribuzione, dominato al centro da un rettangolo più grosso, color rosso vivo. Il testo del messaggio era: «Il papà scomparso, 17 x 24 cm, collezione privata».

    3.

    Vivevamo in un bell’attico di centosessanta metri quadrati in una zona di Torino Nord non lontana dal centro, vecchie officine ferroviarie riconvertite, con due terrazzi per una superficie complessiva quasi pari all’appartamento stesso, l’uno rivolto verso la città, con in primo piano, guarda un po’, proprio «il Frigorifero», e l’altro verso la collina e la basilica di Superga. Quello sarebbe dovuto diventare un quartiere trendy, l’ennesimo polo della vita notturna che in città sembrava spostarsi per osmosi, dal Quadrilatero a San Salvario a Vanchiglia, tutti posti in cui Sandra aveva vissuto nei loro momenti di massimo splendore; ma per il momento le promesse erano state deluse visto che, a parte una costosa scuola di recitazione sorvegliata ventiquattr’ore su ventiquattro da un Hummer degli alpini, una fondazione d’arte che, a giudicare dai bassi, sembrava ospitare più che altro rave party, e sparute figure che camminavano veloci nelle ore notturne guardandosi nervosamente alle spalle, ci abitavamo soltanto noi.

    Ho aperto la porta di casa e «Mapporcatr…», per poco non sono andato a sbattere contro un muro. La parete non era di mattoni, ma di confezioni di omogeneizzati accatastate l’una sull’altra. Campioni che arrivavano da aziende bio, di cui Sandra avrebbe dovuto fare un riferimento del tutto casuale sul suo blog.

    Casa nostra era così. Ad aree, piuttosto ristrette, di ordine e pulizia estremi, dove Sandra si scattava i selfie che finivano sui social, si accompagnavano zone più estese che rimanevano fuoricampo, in cui le cose erano depositate senza criterio. Da questo punto di vista, il muro di scatole aveva una sua peculiare bellezza. Molto probabilmente, si trovavano lì perché Sandra le aveva rivendute su eBay ‒ faceva così, nei momenti di magra ‒ ed erano pronte per essere spedite.

    La prima cosa che ho visto superando il muro di scatole è stato il divano in pelle grigio antracite con seduta sopra Sandra, tuta attillata nera e sguardo fisso, quasi ipnotizzato, sul MacBook posato sulle cosce; ho detto ciao e lei si è alzata per venirmi incontro – «Eccoti, finalmente» –, lasciando cadere dietro di sé il portatile senza neanche prendersi la briga di chiuderlo. Il computer da tremila euro ha rimbalzato pericolosamente sul cuscino di pelle. La seconda, sul tappeto davanti al divano: mia figlia Ciù, con il pigiamino già addosso, tutta presa dall’iPad. Reazioni da parte sua al mio arrivo: nessuna. (Era chiaro ora, dalla sua accoglienza, che il titolo dell’«opera» non era suo, e che molto probabilmente il rettangolo umanoide non ero io).

    Sandra mi ha baciato sulla bocca, o meglio, sull’angolo, quasi sulla guancia – non che avesse problemi con la mia altezza, considerato il suo metro e ottanta –, e si è subito staccata per guardarmi dritto negli occhi. Doveva dirmi qualcosa di importante. «È successa una cosa tremenda alla tua fermata. L’hai saputo? Un pazzo ha aggredito una signora». La pressione alla bocca dello stomaco si era riattivata, in picchiata, di nuovo, sul baricentro che avevo perso poco prima, per risalire veloce alla testa.

    «Un pazzo» ho ripetuto. «Una signora?»

    «Sì, un tizio che urlava in mezzo alla strada. Una roba terribile».

    «Un pazzo in mezzo alla strada».

    «Più o meno. Davanti a Palazzi».

    Ho deglutito.

    «Pensa che le ha tirato in testa un cubetto di porfido».

    «Opporcatroia» ho esclamato. La notizia mi ha fatto fare un passo indietro, e ho urtato una confezione di pollo-coniglio-e-verdure facendola cadere. «Un sampietrino, vorrai dire».

    «Sì… che differenza fa?»

    Ho raccolto la scatola e l’ho rimessa a posto. L’ho tenuta d’occhio, per assicurarmi che fosse in equilibrio. «Fammi andare a salutare mia figlia».

    Ciù aveva tre anni. Era una bambina molto tranquilla, e pure sveglia: anche lei aveva il suo blog personale. Si chiamava «DSFKJH», dalle prime lettere che aveva digitato in vita sua, a sette mesi. Certo, non aveva la minima idea di cosa scrivesse, postava più che altro sequenze di testo prive di senso, che produceva replicando il ritmico tamburellare di sua madre al computer, oppure disegni ai limiti dell’astratto. Sandra condivideva sempre tutto con grande orgoglio. Non l’avevamo cercata, Ciù, eppure adesso era la cosa più importante della mia vita.

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