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La guerra degli dei. Il ritorno del serpente
La guerra degli dei. Il ritorno del serpente
La guerra degli dei. Il ritorno del serpente
E-book710 pagine10 ore

La guerra degli dei. Il ritorno del serpente

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Info su questo ebook

Un autore da 5 milioni di copie

Un grande romanzo storico

L'epico scontro di due civiltà per la conquista della città d'oro

Una città d’oro. Un imperatore da sconfiggere. Un’impresa senza tempo
Hernán Cortés è deciso a conquistare tutto il Messico e l’oro degli Aztechi. Dopo aver sconfitto i Maya a Potonchan, marcia su Tenochtitlan, la città d’oro. Con un esercito di sole cinquecento unità è chiamato a fronteggiare il folle imperatore Montezuma e le centinaia di migliaia di uomini ai suoi comandi. Cortés si aspetta che i Tlascaliani, nemici da sempre degli Aztechi, si alleino con lui. Purtroppo si sbaglia di grosso. E così un assalto improvviso mette a rischio la sua stessa vita. Il destino sembra segnato, ma la sfida non è solo a colpi di armi, perché il ritorno del “serpente piumato” è vicino come quello delle forze più potenti mai viste sulla terra.

Un autore da 5 milioni di copie
Tradotto in 27 Paesi

«Il libro offre un inebriante mix di azione, politica, spiritualità e di componenti soprannaturali che Hancock ci ha insegnato ad apprezzare… Elementi fantasy convincenti e dettagli ricreati con grande precisione rendono la narrazione incalzante.» 
Daily Mail

«Una lettura affascinante che vi farà prenotare un volo per il Messico molto prima di finire il libro.» 
Evening Standard
Graham Hancock
Giornalista e scrittore scozzese, è autore di molti libri di successo, alcuni dei quali pubblicati in Italia (come Il mistero del Sacro Graal, Impronte degli dèi, Lo specchio del cielo, Sciamani e La spirale del tempo). Ha scritto e condotto, per la rete britannica «Channel 4», due programmi dedicati alla divulgazione storico-scientifica. La Newton Compton ha pubblicato La guerra degli dei. La profezia del serpente piumato e La guerra degli dei. Il ritorno del serpente.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2016
ISBN9788854199750
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    Anteprima del libro

    La guerra degli dei. Il ritorno del serpente - Graham Hancock

    Parte prima

    20 aprile 1519 - 12 maggio 1519

    Capitolo 1

    Sul mare, Golfo del Messico, martedì 20 aprile 1519

    «Quel bastardo sta crescendo bene. Sta diventando un bel cane da guerra», disse Telmo Vendabal.

    «Sì, signore, è così», concesse Pepillo.

    «Sembra forte, a guardarlo. Con cosa l’hai nutrito?»

    «Latte di capra, signore, all’inizio, e ora con i resti della cambusa».

    «Come l’hai chiamato?».

    Pepillo spostò il peso da un piede all’altro, con fare nervoso. «Melchiorre, signore», borbottò infine.

    «Melchiorre? Come quel moro amico tuo che si è fatto ammazzare?»

    «Sì, signore». Pepillo si morse un labbro, poi aggiunse: «Era un uomo coraggioso, signore».

    «Sì, piuttosto coraggioso, immagino. Ma nero come le chiappe del demonio».

    Gobbo, pesante e brutale, Vendabal era l’addestratore capo dei cani della spedizione. Un lampo calcolatore gli brillò nei piccoli occhi che si ritrovava. «E pensi che anche questo Melchiorre sia coraggioso?».

    Pepillo si sentì scivolare una goccia di sudore lungo la fronte. Non era per colpa del sole. «Non lo so per certo, signore. Lo sto allevando come un animale da compagnia».

    «Animale da compagnia? Compagnia un cazzo! Non c’è posto per degli animali da compagnia in una spedizione di guerra». Con una smorfia acida che gli piegò le labbra verso il basso, Vendabal si piegò su un ginocchio accanto al cucciolo meticcio, un incrocio tra un lupo e un levriero, lo afferrò per la mandibola inferiore, gli sollevò le labbra e ne esaminò i denti candidi. Melchiorre guaì, ansioso, cercando di ritrarsi e portando gli intelligenti occhi ambrati su Pepillo, in una muta richiesta di aiuto, quando si rese conto che l’uomo non lo lasciava andare.

    «Buono, ragazzo», ordinò Pepillo. «Cuccia!».

    Melchiorre non sembrava molto a suo agio, ma Pepillo lo stava addestrando all’obbedienza, e restò fermo mentre Vendabal gli controllava i denti e gli passava il pollice lurido sulle gengive. Ma quando la mano destra del gobbo si spostò verso i posteriori del cucciolo, provando ad afferrargli i testicoli, l’uggiolio nervoso di Melchiorre divenne un ringhio minaccioso, e i denti candidi scattarono in un morso. Con un fiume di imprecazioni e bestemmie, Vendabal ritrasse la mano e colpì con forza il cane sulla testa, mandandolo a rotolare sul ponte, guaendo. Poi lo seguì di corsa e gli sferrò un calcio feroce nelle costole, facendolo uggiolare di nuovo di dolore.

    Reagendo d’istinto, Pepillo scattò avanti mentre l’addestratore si preparava a un altro violento calcio. Lo placcò alle gambe, facendolo crollare sul ponte.

    In pochi istanti, un gruppo di più di una ventina di marinai e soldati si era radunato tra gli alberi maestri, fischiando e urlando, per godersi la scena, mentre altri correvano ad arrampicarsi sul sartiame per avere una vista migliore. Paonazzo in viso e con il respiro corto, Vendabal si rialzò in piedi a fatica, afferrando Pepillo per il bavero e avvicinandolo a sé fin quando i loro volti non furono quasi a contatto, per poi investirlo con una tempesta di fiato fetido. «Piccolo bastardo», muggì, «quel cane è mio. Al prossimo scontro che combatteremo sarà in prima linea contro il nemico».

    «No, signore, vi prego», lo implorò Pepillo. «Melchiorre non è un cane da guerra. Non sarebbe neanche vivo se aveste fatto a modo vostro. Dopo che la madre è morta nello scontro a Potonchan, avete ordinato ai vostri uomini di liberarsi del resto della cucciolata. Avete detto che non c’era tempo di nutrire a mano i cuccioli. Me l’ha detto don Bernal Díaz, signore. È stato lui a salvare Melchiorre».

    «Díaz, eh? E dov’è, ora che hai bisogno di lui?»

    «Sulla nave di don Pedro del Alvarado, signore, come sapete bene, ma potrà confermarvi tutto non appena raggiungeremo la terraferma. Mi ha regalato Melchiorre, e non potete portarmelo via!». Pepillo si sentiva deciso e forte, ora, mentre la rabbia gli saliva dentro, anche se il gobbo lo teneva con i piedi sollevati da terra ed era bloccato e inerme nella sua presa.

    «Confermarmi tutto?». La voce di Vendabal divenne quasi un urlo. «Confermarmi tutto? Te la faccio vedere io la conferma!». E con quelle parole cambiò posa, trattenendo ancora Pepillo per il bavero con la sinistra, mentre lo schiaffeggiava con la destra, una, due e poi tre volte. Quando il quarto colpo arrivò a destinazione, il ragazzo sentì un ringhio farsi strada oltre il ronzio delle sue orecchie, e vide un lampo di pelo striato, mentre Melchiorre si lanciava contro Vendabal e gli piantava i denti nell’avambraccio muscoloso e pieno di tatuaggi. Di colpo, la presa sul bavero di Pepillo si allentò; il ragazzo piombò sul ponte con un tonfo sordo e non poté fare altro che restare a guardare, sconvolto e stordito, mentre Vendabal si scrollava di dosso il cucciolo, gettandolo a sua volta sul ponte e torreggiandogli sopra con uno sguardo assassino.

    «Basta così!».

    Quella voce arrivò come un tuono. Superò senza sforzi le urla eccitate degli spettatori, gelando Vendabal dove si trovava. «Ho detto basta!». Tutti si volsero al ponte di navigazione, dove Hernán Cortés, capitano generale della spedizione, era uscito dalla sua cabina privata. Dal massacro dei maya chontal a Potonchan, le sue sfuriate erano diventate leggendarie, e Pepillo, che lo conosceva meglio di molti altri, capì subito che il suo signore era di cattivo umore. Non era mai una buona cosa svegliarlo dall’abituale siesta pomeridiana, ma svegliarlo bruscamente significava rischiare il peggio della sua ira.

    Con addosso soltanto un colorato panno nativo che gli cingeva i fianchi, Cortés avanzò scalzo fino alla ringhiera sul bordo del ponte di navigazione, che sovrastava quello principale, e fulminò con lo sguardo Vendabal e Pepillo. «Che diavolo sta succedendo?», ruggì.

    «Quel bastardo mi ha morso», si lamentò Vendabal, indicando Melchiorre, che era di nuovo in piedi, il pelo ritto sul collo e le zanne snudate, come se lo stesse invitando a provare di nuovo a colpirlo.

    D’un tratto e del tutto inaspettatamente, Cortés sorrise. «E quella tua carne morbida non ha mai sentito i denti di un cane prima d’ora, eh, don Telmo? Quelle cicatrici che porti devono esserti state lasciate dalle unghie di qualche amante gelosa, suppongo».

    Vendabal sembrò confuso. «È ovvio che sono stato già morso in precedenza», mugugnò con rabbia. «Mille altre volte! Ma nessun cane che mi morde se la cava senza una punizione esemplare. Devono capire chi è che comanda».

    «Avete già punito Melchiorre», obiettò Pepillo. Si era rialzato, adesso, ed era corso accanto al cucciolo. «Ha imparato la lezione. Vedete? Sta tremando».

    Era vero, Melchiorre tremava, ma non di paura, Pepillo lo sapeva bene. Un ringhio basso vibrò nella gola del cane che sembrava pronto a gettarsi di nuovo contro Vendabal.

    «Che io sia dannato se ha imparato qualcosa», sbottò il gobbo. «Quel cane merita di essere frustato. E poi se ne andrà insieme agli altri del branco, per essere addestrato alla guerra».

    «No!», esclamò Pepillo. «Lui è mio! Non potete prendervelo».

    Cortés li fissò dal ponte di navigazione, con uno strano, crudele sorriso sul volto. «Il cane resterà con il mio paggio», dichiarò infine. «Per adesso». Poi voltò loro le spalle e fece per tornare nella cabina prima di aggiungere, senza girarsi: «Ma frustalo pure, Vendabal. Che io sia dannato, frustalo quanto ti pare».

    Capitolo 2

    Tenochtitlan (Città del Messico), mercoledì 21 aprile 1519, tardo pomeriggio

    Guatemoc saltò in alto, con grazia e stile, e la lama di Mangiauomini gli fischiò sotto alle piante dei piedi senza neanche sfiorarlo. Poi, nello stesso fluido movimento, l’avvenente principe mexica abbassò la propria arma contro la fronte dell’avversario, fermando il fendente a meno di un dito dal bersaglio. «Sei morto, Mangiauomini», dichiarò Guatemoc. «Hai la testa spaccata a metà. E quello che giace nella polvere davanti a noi immagino sia il tuo cervello, per quanto poco tu ne abbia lì dentro».

    Mangiauomini non era bravo a perdere. Era la quarta volta che veniva battuto platealmente in meno di un’ora di allenamento, e a quel punto ringhiò con rabbia e attaccò ancora, la lama che fendeva l’aria in rapidi movimenti, troppo veloci perché l’occhio potesse seguirli. Eppure, in qualche modo Guatemoc riuscì a schivarlo, con il corpo snello, muscoloso e coperto di cicatrici che si spostava da un lato all’altro, abbassandosi e ondeggiando mentre si ritraeva dal furioso assalto, finché di colpo – e Tozi non riuscì a prevederlo – si scostò di lato, scivolando oltre l’avversario, prima di colpirgli con il piatto della lama la grossa nuca, riducendo la forza del colpo, ma comunque facendolo risuonare con forza nell’aria e mandando l’amico a rotolare nella polvere, dove rimase immobile a faccia in giù.

    Invisibile, inconsistente come l’aria, capace di andare ovunque volesse senza farsi notare, Tozi restò a osservare la scena in silenzio, all’insaputa dei presenti. In verità, aveva osservato Guatemoc diverse volte da quando Montezuma aveva tentato di farlo avvelenare, e lei aveva usato la magia per salvarlo e per farlo guarire dalle terribili ferite che aveva ricevuto nella battaglia contro i tlascaliani. Era molto sconveniente, doveva ammetterlo, essersi innamorata di quel nobile principe, nipote dell’uomo malefico che si faceva chiamare Montezuma, e che, per l’intera estensione dei quindici anni di vita di Tozi, era rimasto sul trono come Supremo del malvagio impero dei mexica. Ma, dopo aver accettato la verità di quei sentimenti, le sembrava di essere più in grado di gestirli, adesso.

    E soprattutto, l’idea di una relazione tra loro era fuori questione.

    Guatemoc era di sangue reale, mentre Tozi era una strega, figlia di una strega. Inoltre, lui era suo nemico e nipote del suo nemico. Doveva usare la sua magia e la sua astuzia per metterlo contro lo zio e contro il dio della guerra Huitzilopochtli, Colibrì che lo zio di Guatemoc serviva, oppure avrebbe dovuto far condividere a Guatemoc lo stesso terribile destino che aveva progettato per Montezuma.

    Quetzalcóatl, il Serpente Piumato, dio della pace, antico antagonista di Colibrì, stava arrivando, come era stato profetizzato in quell’anno, l’anno Uno-Canna, per detronizzare un re crudele e abolire per sempre il vile culto dei sacrifici umani del dio della guerra. Tozi provò un lampo di rimorso, poiché i suoi poteri magici, in particolare quell’abilità di rendersi invisibile, erano stati potenziati proprio da Colibrì quando si era trovata davanti al suo altare sacrificale. La sua amica Malinal, che era lì con lei quella notte di due mesi prima, e che era stata liberata insieme a lei dopo l’intervento di Colibrì, aveva visto in quella storia un terribile pericolo. Perché se Colibrì le aveva liberate, salvandole dal sacrificio per mano del suo burattino Montezuma, significava che il dio della guerra doveva avere un piano riguardo a loro, e, poiché Colibrì era un essere malvagio, ne poteva venire soltanto qualcosa di male.

    Tozi non si era affatto curata di quelle preoccupazioni quando aveva mandato Malinal verso la costa in cerca di Quetzalcóatl. Di certo c’era un piano – un grande piano – ma non era opera di Colibrì. E di sicuro lei e Malinal avevano un ruolo in quella storia. Tozi ripensò alle parole che aveva usato per rassicurare l’amica: «Siamo parte di un grande piano che coinvolge pure Montezuma, e in cui deve fare la sua parte anche il dio perfido di cui è servo».

    «Non so», aveva replicato Malinal. «Non ci capisco niente di queste cose».

    «Non ce n’è bisogno, bella Malinal. Questo è l’anno Uno-Canna e tu devi solo fare la tua parte… Secondo te è un caso che tu sia una maya chontal e che i messaggeri del ritorno di Quetzalcóatl siano approdati nella terra della tua gente, e a Potonchan poi, proprio la città in cui sei nata? Non è affatto un caso, Malinal. Ecco perché devi tornare a Potonchan. Ecco perché devi partire subito».

    E così aveva convinto Malinal a compiere quel pericoloso viaggio di ritorno verso la sua terra natale e la famiglia che l’aveva venduta come schiava ai mexica. L’aveva mandata a cercare il dio della pace che stava tornando. La magia di Tozi era forte, ora, più di quanto non fosse mai stata, ma non aveva idea di cosa potesse essere accaduto alla sua amica nei sessanta o più giorni che erano trascorsi da allora. Poteva soltanto immaginare e sperare che stesse bene, e che la sua missione di trovare Quetzalcóatl e di condurlo a Tenochtitlan per rovesciare Montezuma fosse stato coronato dal successo.

    Nel frattempo, lei doveva restare lì, con Guatemoc.

    Riuscire a portarlo dalla parte del Serpente Piumato sarebbe stata una grande vittoria, ma Tozi riusciva a malapena ad avvicinarlo. In realtà, da quando gli si era presentata davanti sotto le sembianze di Temaz, dea della medicina e della guarigione, le bastava pensare a lui per sentirsi girare la testa, perché in quell’occasione il principe l’aveva accolta tra le braccia e baciata sulla bocca, e lo aveva sentito intrecciare la lingua alla sua. Perfino in quel momento, mentre lo osservava, non vista, protetta dall’invisibilità, bastava quel ricordo a spezzarle il respiro.

    Vestito soltanto di un perizoma di cotone bianco, Guatemoc si era allenato con l’amico Tecuani, soprannominato Mangiauomini, nell’ampio cortile della sua casa del quartiere reale di Tenochtitlan. Entrambi erano armati di macuahuitl, spade di solido legno private dei loro denti di affilata ossidiana per potersi affrontare in sicurezza, ed entrambi erano coperti di sudore. Solo che al momento Guatemoc era in piedi, mentre Mangiauomini se ne stava disteso a terra a faccia in giù, con un segno di un rosso arrabbiato sulla nuca, dove il principe l’aveva colpito.

    «Avanti», lo esortò Guatemoc, inginocchiandosi al suo fianco. «Non ti ho colpito poi così forte».

    Silenzio.

    Guatemoc sospirò. «So che puoi sentirmi, Mangiauomini. E lo so che stai solo fingendo di essere morto».

    Silenzio.

    Il principe iniziò a preoccuparsi sul serio e prese a scuotere l’amico per le spalle, senza ottenere risposta.

    «Svegliati, Mangiauomini! Che ti succede?».

    Quando non ebbe reazioni da parte sua, Guatemoc si chinò in avanti, e a quel punto Mangiauomini, un possente e robusto nobile sui trent’anni, un cavaliere del giaguaro ma con la testa rasata e la ciocca laterale che lo identificava come membro della formidabile classe dei guerrieri cuahchic, scattò. Si gettò addosso al principe e lo atterrò sulla schiena. «Arrenditi, Guatemoc», esclamò. «La tua ora è giunta».

    «Non direi proprio, amico mio», rise Guatemoc. «Visto che ti ho spaccato e tagliato la testa, non credo che tu sia nelle condizioni di accettare la mia resa».

    «Be’, allora siamo pari», dichiarò Mangiauomini, dopo averci pensato su per un attimo. «Devi ammettere che ti avevo ingannato».

    «D’accordo, parità sia», replicò Guatemoc, ridendo ancora, mentre entrambi si rialzavano, battendosi pacche sulle spalle come due ragazzini che facevano pace dopo una zuffa.

    Ancora nascosta dal suo velo di invisibilità, Tozi li osservò. Le ferite da coltello che Guatemoc aveva subito al ventre, alla gola e all’avambraccio due mesi prima erano ormai quasi del tutto guarite…

    Grazie alla sua magia!

    La sua energia vitale era tornata.

    Grazie alla sua magia!

    E, attraverso tanto esercizio e altrettanta determinazione, anche la sua forza fisica era tornata.

    Presto, perciò, decise Tozi, sarebbe stato il momento di ripresentarsi a lui fingendosi la dea Temaz, l’unica forma in cui lui la conosceva, e forse avrebbe potuto condividere di nuovo il piacere, il torrido calore, la promessa infinita di un bacio…

    No! Non così! Sebbene si sentisse invadere il grembo da un dolce calore, non gli avrebbe permesso di toccarla. Non avrebbe ripetuto l’errore della prima volta.

    Non ci sarebbero stati contatti tra loro, soltanto parole.

    Forse poteva recarsi da lui quella notte stessa, dopo che Mangiauomini se ne fosse andato, e i servitori si fossero ritirati. Allora avrebbe parlato con Guatemoc da solo, e l’avrebbe portato dalla sua parte.

    Capitolo 3

    Tenochtitlan, mercoledì 21 aprile 1519, sera

    Montezuma era seduto a cena, e sceglieva un boccone qui e uno lì dai trecento piatti disposti davanti a lui, ma senza trarne il minimo piacere. Le immagini che gli affollavano la mente erano degli Tzitzimime, i demoni stella dell’oscurità, quei mostruosi ragni che dal cielo si buttano addosso al sole alla fine di un’era, attaccandolo.

    Uno scalpiccio quasi inudibile di passi sul lucido pavimento di mogano della sala da pranzo, insieme a un lieve movimento d’aria, annunciò l’arrivo del suo lugubre maggiordomo, Teudile, il settimo nobile più importante dell’impero mexica. Alto, allampanato e con le guance scavate, con le tempie e le sopracciglia rasate, i lunghi capelli grigi legati in una crocchia dietro la nuca e la dignità personale, di cui andava tanto fiero, esaltata dalla divisa con ricami di stelle che solo lui poteva indossare alla presenza del Supremo, era l’unico responsabile delle faccende che riguardavano la casa reale. A cena, era uno dei suoi particolari privilegi poter descrivere le pietanze al Supremo, e offrirgli ciò che desiderava, ma quella sera, come anche in diverse sere precedenti, Montezuma non aveva usufruito di quel servizio, senza minimamente curarsi delle delizie del menù, e preferendo mangiare da solo, perso nei suoi cupi pensieri.

    «Signore, le mie umili scuse…».

    «Vattene, Teudile! Mi disturbi a tuo rischio e pericolo».

    Con la coda dell’occhio, Montezuma vide il maggiordomo che si torceva le lunghe mani magre.

    «Perdonatemi, signore, ma temo che la vostra ira ricadrà su di me se non porterò questa faccenda alla vostra attenzione…». Si torse di nuovo le dita. «È bene che siate voi in persona a decidere».

    La rabbia di Montezuma cominciò a crescere. Non per nulla, il suo nome significava Signore adirato. Ma si sentiva anche angosciato, con addosso un senso di imminente catastrofe. «Molto bene», rispose, pacato, visto che non alzava quasi mai la voce. «Parlami di questa faccenda».

    Il timore di Teudile era palpabile, ora. «Signore», riprese, «alla porta c’è un pochtecatl di nome Cuetzpalli. L’avrei mandato via dopo averlo fatto bastonare, ma ha il vostro sigillo, e afferma che lo avete incaricato di scoprire certe informazioni. Afferma di essere in possesso di tali informazioni, ed è certo che vogliate ascoltarle».

    Ogni traccia di colore sparì dal volto di Montezuma. Aveva convocato quell’uomo, Cuetzpalli, nel palazzo per un incontro privato l’anno prima, poco dopo i primi inconclusivi abboccamenti con le creature dalla pelle bianca, simili a uomini ma dotate di poteri sovrannaturali, che erano emerse dall’oceano orientale su barche che si muovevano senza l’uso dei remi. Montezuma aveva più di un motivo di temere quegli eventi. Tutto faceva pensare che quelle creature fossero venute ad aprire la strada al ritorno di Quetzalcóatl, il dio della pace che, secondo le profezie, lo avrebbe scacciato dal trono dell’impero mexica, avrebbe messo fine ai sacrifici umani che lui stesso presiedeva e avrebbe rovesciato l’ordine del mondo.

    Il giovane mercante Cuetzpalli, membro di una delle potenti gilde pochteca, viaggiava e commerciava tra i maya chontal dello Yucatan, e lì quelle creature erano rimaste per un po’ di tempo. Perciò era perfetto per scoprire se si fossero fatti rivedere. «Se torneranno», gli aveva detto, inviandolo in Yucatan, «raccogli più informazioni che puoi e vieni a riferirmele il prima possibile. Potrai venire da me a qualsiasi ora del giorno o della notte. Non ci sono informazioni più fondamentali di queste per la sicurezza del nostro regno».

    «Hai fatto bene a disturbarmi», sospirò Montezuma, sollevando Teudile dall’angoscia che lo attanagliava. «Incontrerò il pochtecatl nella Casa dei serpenti. Ma prima di condurlo lì, chiama Namacuix e digli che voglio due prigionieri, entrambi maschi, e giovani, da sacrificare».

    Poiché la manifestazione animale di Quetzalcóatl era quella di un serpente piumato, a Montezuma sembrava appropriato trovarsi tra le creature di quella divinità, se, come temeva, avrebbe ricevuto notizie del suo ritorno.

    La Casa dei serpenti faceva parte dello zoo reale, e lì, nelle fosse e negli stagni che circondavano la zona principale, si trovavano serpenti di ogni dimensione e colore, dai grigiastri serpenti a sonagli ai coloratissimi serpenti corallo. La collezione comprendeva lachesi, terciopeli, vipere dalle ciglia, pitoni nani, serpenti giarrettiera, serpenti dei ratti, serpenti del latte, boa constrictor e molte altre specie, tra cui diversi serpenti acquatici. Il grande cortile chiuso, realizzato per osservare quei mostri, quella notte era in parte a cielo aperto, e ulteriormente illuminato da torce dardeggianti, che sembravano animare i ricchi murales con le immagini di serpenti che si sviluppavano in figure geometriche. Il guardiano dello zoo, Ichtaka, e il suo giovane assistente, stavano ancora accendendo alcune delle torce quando Montezuma entrò. Si affrettarono a prostrarsi, come si conveniva in presenza del Grande Supremo, ma lui li invitò a rialzarsi e gli ordinò di concludere il loro compito e andarsene.

    Namacuix, lo snello sacerdote dagli occhi ardenti che era diventato sommo sacerdote di recente, dopo la misteriosa scomparsa del suo infido predecessore Ahuizotl, arrivò poco dopo. Era accompagnato da quattro assistenti vestiti di nero che trasportavano una piattaforma di legno portatile per le esecuzioni. La sistemarono al centro della sala di osservazione. Con loro, guidati da sei guerrieri, c’erano due giovani prigionieri tlascaliani che indossavano dei perizomi di carta e avevano già il corpo coperto di gesso. Sebbene fossero drogati e docili, i loro occhi scintillavano di timore e orrore. Infine, entrò anche Teudile con un servitore che trasportava due sgabelli, uno alto per Montezuma e uno molto più basso per il pochtecatl.

    «Faccio entrare il mercante, signore?», domandò Teudile.

    In una delle fosse, un sinuoso boa constrictor stava ingoiando un grosso aguti. Osservandolo con aria pensosa e cupa, Montezuma fu colpito dal simbolismo di quella scena. Il serpente doveva rappresentare Quetzalcóatl, mentre l’aguti, che ormai era completamente nella gola del rettile, doveva essere lui.

    «Sì», rispose. «Fallo entrare».

    Era molto raro per chiunque, tanto più per un pochtecatl stanco e impolverato dal viaggio, sedersi in presenza del Grande Supremo, ma la missione di Cuetzpalli giustificava quell’inusuale onore. Quando il mercante ebbe mostrato la doverosa deferenza a Montezuma, il Supremo gli indicò lo sgabello e andò dritto al punto: «Le creature dalla pelle bianca sono tornate?», domandò.

    «Sì, signore», replicò Cuetzpalli. «Sono arrivate, come la prima volta, dall’oceano orientale, in navi enormi che si muovono da sole senza remi».

    Montezuma annuì lentamente. E dunque, pensò, come affermano le antiche profezie, la mia fine si avvicina. Fece un cenno a Namacuix, e, in tutta fretta e senza cerimonie, i due giovani tlascaliani furono distesi di schiena sulla piattaforma, e subito dopo fu squarciato loro il petto e strappato loro il cuore. Una volta compiuto il sacrificio, il sommo sacerdote infilò le dita nelle cavità del torace dei due cadaveri, si avvicinò a Montezuma e Cuetzpalli e li spruzzò deliberatamente di sangue.

    Ci fu un breve intervallo, mentre i corpi venivano portati via; le parti che non potevano essere mangiate furono date subito ai giaguari e agli altri animali carnivori dello zoo. Gli assistenti del sommo sacerdote e i guerrieri si allontanarono. Infine, rimasero solo Namacuix e Teudile, in piedi ai lati del loro signore. «Molto bene», disse Montezuma al pochtecatl. «Prosegui pure».

    «Siete molto generoso, signore», replicò il mercante. «Ma prima che io vada avanti, è mio dovere informarvi del fatto che gli eventi di cui sto per parlare sono avvenuti ventisette giorni fa».

    Montezuma aggrottò la fronte. «Ventisette giorni fa?»

    «Sì, mio signore, perché le terre dei maya chontal sono molto lontane da qui. Ho viaggiato più veloce che ho potuto, a marce forzate, dormendo poco e mangiando mentre ero in movimento. Ho lasciato indietro la mia carovana, tenendo con me solo le mie guardie cuahchic per viaggiare sicuro. Ma comunque, abbiamo viaggiato per ventisette giorni».

    Sebbene Montezuma si sforzasse di mantenere un’espressione calma e priva di emozioni, sentiva il cuore martellare nel petto. Se le creature dalla pelle bianca erano state viste nelle terre dei maya chontal ventisette giorni prima, chissà dov’erano adesso? Se erano davvero delle divinità, come sospettava, avrebbero senz’altro viaggiato più veloci di semplici uomini, e dunque chi poteva dire che non fossero vicini a Tenochtitlan?

    Quell’idea, terrificante già di per sé, divenne ancora più orribile e presente per Montezuma mentre il pochtecatl raccontava la sua storia, accompagnandola con diversi dipinti pieni di dettagli che il suo artista aveva realizzato durante una grande battaglia, avvenuta ventisette giorni prima, in cui i maya chontal avevano tentato, senza riuscirci, di ricacciare le creature dalla pelle bianca verso l’oceano.

    Montezuma sapeva che i maya erano combattenti feroci; era stata quella ferocia a convincere i mexica a non tentare mai di costringerli a pagare un tributo al loro impero. Erano inoltre numerosi come le mosche in estate e dunque in grado di mettere in campo grandi eserciti, il che rendeva l’idea di conquistarli un’impresa troppo costosa che i generali di Montezuma gli avevano sempre sconsigliato di compiere.

    Eppure, le creature dalla pelle bianca, che, a quel che diceva Cuetzpalli, non erano più di appena cinquecento, erano riuscite in un solo giorno a distruggere e a mettere in rotta un esercito di quattromila maya chontal! Di particolare importanza era il fatto che avessero usato gli Xiuhcoatl, i serpenti di fuoco. Il dio della guerra Huitzilopochtli, Colibrì, era apparso a Montezuma in diverse visioni, per avvisarlo del fatto che coloro che volevano la sua rovina sarebbero stati armati esattamente in quel modo.

    I capi maya, continuò Cuetzpalli, si erano stupidamente persuasi che quelle creature non fossero divinità, e che i loro Xiuhcoatl fossero semplici e ingegnose armi umane. Ma dopo averle viste in azione, il pochtecatl non aveva avuto dubbi sul fatto che fossero dotate di poteri sovrannaturali. «I loro serpenti di fuoco ruggivano», raccontò, «e quel rumore risuonava come un tuono, così forte da togliere le forze a un uomo e assordarlo». Inoltre, le creature non possedevano una sola di quelle armi miracolose, ma ben tre tipi diversi! La più piccola riusciva a uccidere uno o due uomini con un singolo colpo, quelle di medie dimensioni ne potevano uccidere una cinquantina, e le più grandi a centinaia. «La scarica di uno Xiuhcoatl grande è terrificante, mio signore», dichiarò Cuetzpalli, la voce carica di stupore. «Una cosa che sembra una palla di metallo esce dalle sue interiora, con una pioggia di fuoco e scintille roventi; vola in aria a grandi distanze, e quando arriva a terra rimbalza e rotola, uccidendo tutti coloro che trova sul suo cammino, facendo a pezzi gli uomini e disfacendoli come se non fossero mai esistiti. Il fumo che ne viene fuori ha un odore fetido, come di fango marcio. Si può sentire da molto lontano, e penetra fino al cervello, ferendolo».

    Montezuma avvertì un profondo senso di pericolo che già sentiva da diversi anni, ma adesso stava per realizzare, lentamente e inesorabilmente, la sua terribile promessa.

    All’inizio, già a partire da più di dieci anni prima, c’erano stati segni e presagi, visioni inspiegabili, incoerenti e poco chiare, ma non per questo meno terrificanti. Poi, due anni prima, uno strano uccello gli era stato portato a palazzo. L’uccello aveva uno specchio nella cresta, e in quello specchio Montezuma aveva visto creature dalla pelle bianca e dai capelli dorati, vestite di metallo, alcune simili a esseri umani, altre in parte umane e in parte cervi, che correvano veloci. Poi, meno di un anno prima, dalle terre dei maya chontal erano arrivate voci secondo le quali delle creature identiche a quelle che aveva visto nello specchio erano apparse in Yucatan. Più avanti, Colibrì gli aveva offerto altre visioni di quelle creature, dicendogli che erano in grado di utilizzare metalli sconosciuti e che delle bestie selvatiche combattevano per loro: «Alcune trasportandoli più veloci del vento, altre con zanne mostruose che fanno a pezzi gli uomini». Ora, dopo aver visto con i propri occhi una battaglia avvenuta appena ventisette giorni prima, Cuetzpalli aveva con sé dei dipinti che rappresentavano quelle bestie - «cervi che portavano quelle creature sulla schiena, alti come le terrazze in cima ai tetti», e altri mostri grandi come giaguari, che lui aveva visto solo da lontano, ma che correvano in massa sul campo di battaglia, abbattendo e divorando i soldati maya. Entrambi i tipi di bestie si muovevano con una velocità terrificante e innaturale, volando sul terreno e compiendo balzi incredibili; e tutte indossavano armature simili a quelle delle creature dalla pelle bianca, fatte di un metallo misterioso che scintillava come argento, ma era così duro da impedire alle armi dei maya di penetrarlo. «Le loro bardature e le loro armi sono fatte di questo metallo», continuò Cuetzpalli. «Se ne vestono e lo indossano anche sulla testa. Le loro spade sono di metallo, i loro archi sono di metallo, e così i loro scudi e le loro lance».

    L’artista aveva realizzato immagini sconvolgenti delle creature con la pelle bianca, delle loro strane bestie e del terribile metallo che avevano con loro. Mentre Montezuma studiava le rappresentazioni, ascoltando il racconto di Cuetzpalli, l’antico sospetto che quelle creature potessero essere delle divinità iniziò a diventare una certezza nella sua mente. Sebbene Cuetzpalli non fosse riuscito ad avvicinarli, e avesse osservato la battaglia dalla cima di una collina, aveva interrogato uno dei capi maya che aveva negoziato con loro per alcuni giorni, prima dello scontro. Questo capo, che si chiamava Muluc, aveva descritto le creature come «molto bianche. Hanno volti come il gesso; i capelli sono gialli, anche se alcuni li hanno neri. Hanno barbe lunghe e gialle, e baffi gialli».

    La descrizione era identica a tutte le antiche testimonianze che parlavano del dio Quetzalcóatl, barbuto e con la pelle bianca, il cui ritorno, a lungo profetizzato, sarebbe dovuto avvenire proprio quell’anno, nell’anno Uno-Canna. Infatti, il nome intero di Quetzalcóatl era Ce-Acatl Quetzalcóatl, ovvero Quetzalcóatl Uno-Canna. Inoltre, secondo una venerabile tradizione, gli anni con il segno della Selce vengono dal nord, quelli con la Casa dall’ovest, quelli con il Coniglio dal sud, quelli con la Canna dall’est. E dunque era senza dubbio un fatto significativo che quelle divinità dalla pelle bianca, la cui descrizione corrispondeva perfettamente a quella di Quetzalcóatl, fossero giunti in Yucatan da est, attraversando l’oceano orientale. Inoltre, il luogo in cui erano giunti e dove avevano dato una così terribile dimostrazione dei loro poteri sovrannaturali era Potonchan, lo stesso luogo in cui si diceva che Quetzalcóatl fosse andato via molti anni prima, e dove aveva promesso di tornare per far crollare i devoti di Colibrì, il dio della guerra che lo aveva scacciato. Quetzalcóatl è comparso!, pensò Montezuma. È tornato! Verrà qui, a Tenochtitlan, nel luogo del suo trono e del suo palazzo, perché è ciò che ha promesso quando se n’è andato.

    «Nell’anno Uno-Canna», recitava la profezia, «un re sarà detronizzato e fatto schiavo».

    Ormai certo di essere lui quel re condannato, Montezuma trovava sempre più difficile nascondere l’orribile terrore che gli offuscava la mente e stritolava le viscere, e che ormai rischiava di sovrastarlo come una maledizione mortale, facendogli tremare il cuore e le ginocchia.

    Quello stesso terrore, ispirato dai primi presagi, l’aveva condotto a iniziare l’olocausto di duemila donne sulla piramide, sessanta giorni prima. Il grande sacrificio aveva prodotto l’effetto desiderato. Colibrì gli era apparso e gli aveva promesso di combattere al suo fianco, e in cambio Montezuma aveva giurato al dio della guerra di offrirgli un sacrificio ancora più vasto, costituito unicamente di giovani vergini. Era stato certo di poter mantenere la promessa perché Coaxoch, il suo più grande generale, era stato al tempo il comandante in capo di un esercito di ben quattro reggimenti, ciascuno composto da ottomila uomini, e concentrato soltanto sul compito di catturare un enorme numero di nuove vittime. Ma quello che Montezuma non sapeva quella notte, e che non avrebbe mai potuto immaginare, era che l’esercito di trentaduemila guerrieri di Coaxoch sarebbe stato annientato la mattina successiva da una forza tlascaliana superiore, demolito dal re tlascaliano Shikotenka al punto che soltanto tremila sopravvissuti demoralizzati sarebbero tornati a Tenochtitlan con la coda tra le gambe. Né aveva potuto prevedere lo strano crescendo di battaglie esploso subito dopo, molto più vicino alla sua patria, contro le forze ribelli guidate da Ishtlil, l’infido principe di Texcoco. Quegli sconvolgimenti avevano tenuto così occupati i cinque eserciti mexica rimanenti che non c’erano stati molti progressi nella ricerca di ulteriori vittime sacrificali.

    Nel profondo delle sue viscere stritolate dalla paura, Montezuma sapeva benissimo perché, nonostante tutti i suoi sforzi e il suo disperato bisogno di rassicurazioni e consigli, Colibrì non gli era più apparso, né gli aveva mandato segni, chiari o ambigui che fossero. Era ovvio che il dio della guerra sarebbe rimasto distante finché non avesse ricevuto le vergini che gli erano state promesse. Da quel momento, decise Montezuma, avrebbe dedicato quattro reggimenti interi dei suoi migliori uomini solo a quel sacro compito.

    Quando Cuetzpalli ebbe concluso il suo rapporto, Montezuma gli parlò con calma. «Ti sei affaticato molto», dichiarò, «e sei esausto per il lungo viaggio, dunque ora vai a riposare. Quando avrò bisogno di te ti farò richiamare. Ma sappi questo: quello che mi hai raccontato e mostrato stanotte deve restare un segreto. Deve rimanere solo dentro di te». Lanciò uno sguardo a Teudile e Namacuix, e la sua voce divenne severa: «Nessuno dovrà parlare di queste cose. Nessuno dovrà lasciarsi sfuggire una sola parola in merito. Se chiunque dei presenti parlerà di questa storia, morirà. Impiccherò sua moglie e farò schiantare i suoi figli contro i muri della sua casa, e la sua casa sarà distrutta e strappata dalle sue fondamenta».

    Mentre si alzava per andarsene, Montezuma lanciò uno sguardo al boa constrictor nella fossa. Notò con interesse che l’aguti si era rivelato troppo grosso per inghiottirlo. Il gozzo del serpente era esploso ed entrambe le creature erano morte.

    Capitolo 4

    Mercoledì 21 aprile 1519, notte

    Guatemoc era seduto da solo sul terrazzo del tetto della sua casa nel quartiere reale di Tenochtitlan, intento a fissare il cielo stellato. Nelle profondità notturne dell’oscurità, le scintillanti Mamalhuaztli, le sette stelle brillanti della costellazione delle Torce, stavano tramontando, e ben presto sarebbero entrate nel loro periodo di invisibilità, e non si sarebbero più viste sino alla fine dell’estate.

    Era strano, pensò Guatemoc, come le stelle andassero e venissero, sparendo e poi tornando a farsi vedere. Erano imperscrutabili e misteriose come Temaz, la dea della guarigione e della medicina, a cui doveva la sua incredibile ripresa dalle terribili ferite che Shikotenka, il re condottiero di Tlascala, gli aveva inflitto due mesi prima in battaglia, e anche dal letale veleno cotelachi che gli era stato somministrato mentre giaceva convalescente nell’ospedale reale. Suo zio Montezuma aveva ovviamente negato ogni coinvolgimento diretto nella congiura, e aveva ordinato che Mecatl, il medico reale, fosse scuoiato vivo per aver tentato di avvelenarlo, e gli aveva offerto in dono la sua pelle. In ogni caso, Guatemoc e suo padre Cuitláhuac, la cui lealtà a Montezuma era sempre stata incrollabile, sapevano entrambi con estrema certezza che il tentato avvelenamento era stato opera del Grande Supremo.

    Ah, Temaz, Temaz… Guatemoc non riusciva a credere quanto se ne fosse innamorato! Era lì seduto a sospirare sotto la volta del cielo notturno. Lei gli mancava, avrebbe desiderato il suo dolce tocco, mentre ricordava l’innaturale calore curativo che dalle sue dita era passato alle sue ferite, riportandolo alla vita. Erano passati più di cinquanta giorni dal loro primo incontro nell’ospedale reale, quando lei gli aveva rivelato il piano di Montezuma. Poi, dopo che lui era stato trasportato al sicuro nella villa di suo padre a Chapultepec, lei gli era apparsa altre tre volte per guarirlo ulteriormente e parlargli di cose impossibili: in particolare, del ritorno di Quetzalcóatl, il Serpente Piumato, il dio della pace, che, secondo lei, avrebbe detronizzato Montezuma. Perfino adesso, a tanti giorni di distanza, sebbene non l’avesse più vista da quella straordinaria notte, le sue parole gli riecheggiavano ancora nelle orecchie: «Guatemoc, tu non devi, non devi metterti contro Quetzalcóatl! Sta per iniziare una guerra, e tu devi stare dalla parte giusta. Devi stare dalla parte della pace».

    «Pace?», aveva risposto Guatemoc, sinceramente confuso. «Io sono un guerriero, mia signora. Non potrò mai stare dalla parte della pace…». E poi, «Che razza di dio della pace combatterebbe una guerra? Se spera di liberare il mondo da Montezuma sarà capace di trovare il modo di farlo con mezzi pacifici, no?»

    «Montezuma è cattivo», aveva insistito Temaz, «a volte il male supera il bene e quando capita non si può sperare di allontanarlo pacificamente. Dev’essere combattuto, dev’essere fermato e Quetzalcóatl è tornato per questo».

    «Allora Quetzalcóatl è un dio della guerra come Colibrì?»

    «No… Sì!».

    «Quale delle due, mia signora? Il vostro Quetzalcóatl è un dio della pace? O è un dio della guerra? Non può essere entrambi!».

    «Allora è un dio della guerra! Ma la sua guerra è contro lo stesso Colibrì, il perfido signore e dominatore del mondo invisibile che contamina e infetta quello che tocca col male e l’oscurità, che ha per burattino Montezuma, come Mecatl lo è stato per Montezuma nel tentativo di avvelenarti… La vera domanda che devi farti, Guatemoc, allora è: anche tu sarai il burattino di Colibrì nell’imminente grande conflitto o combatterai dalla parte del bene e della luce?»

    «Mia signora, Temaz», aveva replicato Guatemoc, «se mi chiedete di combattere contro Montezuma vi dico che sono pronto a farlo adesso! È uno smidollato, un pazzo, e ha cercato di uccidermi! Ma se mi state chiedendo di combattere contro Colibrì, mia signora… be’, è tutta un’altra storia e non è affatto facile».

    «Verrà il momento in cui dovrai scegliere, principe», aveva detto Temaz. «Spero che sceglierai con saggezza». Guatemoc ricordava come Temaz aveva premuto ancora una volta le dita contro le ferite che gli rigavano il ventre nudo, diffondendogli il calore della guarigione in tutto il corpo. «Ci rivedremo», gli aveva detto, raddrizzandosi e staccandosi da lui.

    E poi…

    Poi l’aveva baciata, un lungo bacio passionale e profondo, pieno di desiderio – il suo come quello di lei – che poteva essere saziato in un solo modo, che avrebbe dovuto essere saziato in un solo modo, ma in quel preciso istante Temaz era svanita in una spirale di fumo tra le braccia di Guatemoc, che si era ritrovato ad abbracciare l’aria vuota.

    Cos’è successo?, ricordò di aver pensato. Chi è lei? Una dea come dice di essere? O qualcos’altro?

    Si era toccato di nuovo le labbra calde, vive, ancora formicolanti. Ma quando aveva tolto le dita, aveva visto che erano macchiate di rosso. Allora si era accigliato. Cos’era? Sangue? Si era leccato le labbra con la lingua. No! Non sangue! Qualcos’altro. Qualcosa di familiare.

    Aveva trovato uno specchio di ossidiana e si era controllato. Quella roba rossa, qualsiasi cosa fosse, non l’aveva solo sulle labbra ma lo macchiava tutto intorno alla bocca. L’aveva assaggiata di nuovo e a un tratto aveva capito. Tintura di cocciniglia! Rara ed esotica, certo, ma senza dubbio un trucco di donna.

    Che ci faceva una dea con del trucco femminile?

    Se l’era domandato allora e se lo domandava adesso, ma non era ancora giunto a una conclusione definitiva. Restava possibile che fosse stato guarito da una dea. Ma il suo intuito suggeriva una possibilità ancora più straordinaria: che la dea Temaz fosse sempre stata soltanto una donna travestita. Una strega, magari, con strani poteri che le permettevano di rendersi invisibile.

    Guatemoc sospirò di nuovo. Il pensiero di essere stato ingannato normalmente lo avrebbe fatto infuriare, ma in quel caso, invece, non era così. La semplice e incontrovertibile verità era che quella Temaz, che fosse una dea o una donna, un fantasma o una strega, l’aveva miracolosamente guarito, salvandogli la vita.

    Si passò la punta delle dita sulle labbra. Perfino in quel momento, dopo tutto il tempo che era passato, immaginava spesso di poter sentire ancora la dolcezza della sua bocca, e l’umido calore della lingua di lei che si intrecciava alla sua.

    E talvolta – era sempre la sua immaginazione, o qualcosa di più? – aveva la forte sensazione della sua invisibile presenza, come se fosse lì a osservarlo in silenzio. Si sentì rizzare i capelli sulla nuca. Forse quello era uno di quei momenti?

    «Temaz», sussurrò piano. «Mia dolce dea. Mostratevi a me».

    Ecco! Cos’era stato? Un fremito nell’aria? Una forma che sembrava uscire dalle ombre? La dea sarebbe tornata da lui proprio quella notte? Guatemoc si piegò in avanti, speranzoso, con gli occhi che cercavano di penetrare l’oscurità. «Siete lì?», domandò, sorpreso dal tremore della propria voce. Si alzò in piedi, procedendo esitante verso il punto in cui gli era sembrato di vederla, allungando le braccia. «Vi ho desiderato tanto», mormorò, per poi sentirsi uno sciocco, perché non ci fu alcuna risposta, e l’aria della notte tornò ferma come prima. Le ombre erano soltanto ombre prive di sostanza.

    Basta! Si stava comportando come un ragazzino immaturo.

    Era il momento di smetterla con quelle sciocchezze. Il giorno dopo, decise, avrebbe iniziato di nuovo a interessarsi degli affari di Stato. Montezuma non ne sarebbe stato contento, ma ormai il suo tempo era agli sgoccioli. Se Quetzalcóatl stava per tornare, un vero guerriero avrebbe dovuto affrontarlo.

    Quanto alle donne… ebbene, erano numerose come i pesci nel mare. Guatemoc si era tenuto distante da loro fin troppo a lungo, a causa della sua stupida lealtà a Temaz.

    Era stato come se fosse rimasto fedele a un sogno!

    Era pronto ad andare avanti.

    Capitolo 5

    Giovedì 22 aprile 1519

    Il grande signore di nome Cortés, con addosso la scintillante giacca di metallo che gli spagnoli chiamavano corazza, era seduto sotto un patio, sulla stessa spettacolare e ingegnosa sedia pieghevole che Malinal gli aveva visto usare nel suo incontro diplomatico con i capi sconfitti dei maya chontal. Ma era passato molto tempo da allora, e l’uomo che era di fronte a Cortés, quel giorno, seduto a gambe incrociate su un tappeto a terra, e perciò costretto ad alzare il volto verso di lui in una posizione di inferiorità, non era un maya. Si trattava di un robusto nobile dei mexica di media importanza, di nome Pichatzin, che Montezuma aveva reso governatore provinciale della città costiera di Cuetlaxtlan. Nei suoi cinque anni come schiava sessuale dei mexica, Malinal aveva partecipato a diversi festini a Tenochtitlan, in cui anche Pichatzin era stato presente, prima di essere inviato a gestire quell’angolo remoto dell’impero. Ma, poiché il suo rango tra i pipiltzin, i nobili, era troppo basso perché Malinal potesse essergli concessa come amante, non pensava che si sarebbe ricordato di lei. Per lo stesso motivo, non conosceva nessuno degli altri cinque nobili di basso rango che lo accompagnavano, e che al momento, per necessità di spazio, erano costretti a restare all’esterno della protezione del patio, sotto gli strali del sole pomeridiano. Inoltre, Pichatzin aveva portato con sé un artista, anche lui seduto al sole, intento a realizzare una serie di dipinti.

    L’entourage di Cortés era costituito da Puertocarrero, con la sua barba rossa, che Malinal già conosceva fin troppo bene, e dai signori Alvarado, Escalante, Ordaz e Montejo, i cui nomi aveva imparato a memoria. Sebbene fossero tutti in piedi, avevano trovato posto all’ombra. Il ragazzo che non era mai troppo lontano dal fianco di Cortés, Pepillo, a parte quando doveva occuparsi del suo cane ferito, era seduto a terra, con una penna e un mazzo di fogli, come sempre pronto a registrare tutto ciò che diceva e faceva il suo signore. C’era anche l’interprete Aguilar, ma poiché parlava soltanto castigliano e maya, mentre Pichatzin e il suo entourage, come la gran parte dei mexica, parlava solo la lingua nahuatl, al momento aveva ben poco da fare. Era ovvio, dal ripetuto uso del linguaggio dei segni e dei sorrisi frustrati, che i due gruppi non sembravano capirsi molto bene.

    Osservando l’incontro da sopra il vapore che si levava dalle pentole, e in mezzo al viavai delle altre ragazze che lavoravano nell’improvvisata cucina dell’accampamento spagnolo, Malinal vide infine la possibilità che le era stata negata fino a quel momento per dimostrarsi utile a Cortés. La prima volta che aveva potuto posare gli occhi sugli uomini bianchi a cavallo, ventotto giorni prima, era stato proprio con Cortés che aveva scambiato un rapido sguardo, mentre lui la superava, in sella, vestito dalla testa ai piedi della sua scintillante armatura di metallo, diretto verso la grande battaglia che infuriava poco lontano da Potonchan. Il giorno dopo, gli era stata offerta come pegno di pace da suo padre adottivo Muluc, governatore di Potonchan, che ovviamente era sopravvissuto allo scontro in cui così tante migliaia di maya chontal avevano trovato la morte. Insieme a lei, erano stati offerti mucchi di pelli di giaguari, stoffe pregiate, un baule pieno di preziosi oggetti di giada, diverse gemme, qualche piccolo oggetto d’oro e argento, e diciannove altre donne, tutte, come Malinal, offerte come schiave agli spagnoli, che avrebbero potuto usarle come meglio credevano. «Hai detto di essere tornata da noi per incontrare gli uomini bianchi», le aveva ricordato Muluc, «dunque esaudirò il tuo desiderio, e mi libererò una volta per tutte di te. Spero che tu sia un problema per loro quanto lo sei stata per me». Sua madre Raxca aveva pianto, ma non aveva fatto obiezioni quando il suo rivoltante marito si era tolto dai piedi per sempre la figliastra, placando al contempo un formidabile nemico, e dunque, come aveva gongolato lui stesso: «Uccidendo due uccelli con una sola freccia».

    Malinal aveva faticato a nascondere la gioia che provava. Dopo che lei e la sua amica Tozi erano scampate per un soffio al sacrificio per mano di Montezuma in persona, aveva percorso tutta la strada a piedi da Tenochtitlan per riuscire a trovare quegli dèi bianchi, solo per essere allontanata dalla sua ricerca proprio da Muluc, ma il destino l’aveva infine reso lo strumento che l’aveva messa nelle loro mani. Per un attimo tutto era andato secondo i piani, ma appena uscita da Cintla, la capitale della regione, per tornare a Potonchan ed essere consegnata agli spagnoli, l’idea di Malinal di far parte di uno schema divino era stata di nuovo brutalmente spezzata. Il collegamento speciale che aveva sentito con il capo spagnolo quando l’aveva visto andare in battaglia in sella al suo cavallo, il modo in cui aveva voltato il viso barbuto verso di lei e in cui i suoi occhi l’avevano fissata, bloccandola sul posto, l’avevano riempita di speranza e di uno strano desiderio. Eppure, quando gli era stata presentata, a Potonchan, lui l’aveva accolta come un dono meno importante della giada, dell’oro e delle gemme (che comunque non sembravano averlo soddisfatto molto), senza prestarle molta attenzione si era rifiutato di ascoltare ciò che lei avrebbe voluto dirgli attraverso l’interprete Aguilar e infine l’aveva data al suo amico Puertocarrero.

    Dopo quell’episodio, non aveva quasi mai visto Cortés nei ventitré giorni successivi in cui gli spagnoli erano rimasti nelle terre dei maya chontal. L’uomo aveva passato gran parte del tempo lontano da Potonchan, spesso in compagnia del suo crudele ma bellissimo secondo in comando, Pedro de Alvarado. Presto Malinal aveva scoperto dai servitori, che Muluc aveva mandato a lavorare per loro nel palazzo, che gli spagnoli stavano saccheggiando tutte le città della regione in cerca di oro – la qual cosa sembrava ossessionarli almeno quanto ossessionava i mexica, mentre per i maya era di scarso interesse. Si diceva perfino che Muluc e il capo supremo Ah Kinchil fossero stati torturati per persuaderli a cedere le riserve di oro che gli uomini bianchi ritenevano avessero nascosto, ma ovviamente loro non ne avevano affatto. A Malinal non interessava la veridicità di quei racconti; i due capi avevano cospirato per rovinarle la vita e secondo lei meritavano tutto il male che il destino potesse riservargli.

    Quando non andavano a caccia d’oro, l’altra attività preferita di Cortés, a cui si dedicava con molto entusiasmo, era distruggere gli idoli degli dèi nei templi e predicare alla gente di Cintla e Potonchan la sua strana e incomprensibile religione. E poiché tutti lo temevano, otteneva molte conversioni.

    Quando non era occupato, Malinal aveva chiesto più volte ad Aguilar di aiutarla ad avvicinarglisi per potergli parlare. Ma dal primo giorno l’interprete non le era stato di alcun supporto. Gli aveva fatto capire che non conosceva solo la lingua maya, ma anche il nahuatl, la lingua dei mexica. Però, per qualche ragione che non comprendeva, lui sembrava deciso a non farla parlare con Cortés.

    Poi capì perché.

    Una sera, Cortés aveva fatto un annuncio all’esercito riunito, che Aguilar aveva dovuto tradurre per le venti schiave che li avrebbero accompagnati; aveva detto che gli spagnoli avevano concluso i loro affari con i maya chontal e che presto si sarebbero addentrati nei territori dei mexica. Si sarebbero mossi prima via nave, fino alla città costiera di Cuetlaxtlan, e dunque tutti dovevano essere pronti a imbarcarsi nel giro di appena tre giorni, e da lì, avrebbero attaccato Tenochtitlan, la capitale mexica. Essa sarebbe stata espugnata con la forza, prendendo l’imperatore Montezuma «vivo o morto» e a quel punto gli spagnoli si sarebbero appropriati delle vaste riserve d’oro che si riteneva che l’impero avesse ammassato.

    Si riteneva?, aveva pensato Malinal, mentre il cuore perdeva un battito. Si riteneva! Se le fosse stato concesso di parlare con Cortés, avrebbe potuto assicurargli settimane prima che non si trattava di mere supposizioni. I mexica erano il popolo più ricco del mondo intero, Tenochtitlan era piena d’oro e la tesoreria di Montezuma era sul punto di straripare.

    Era ovvio che Aguilar aveva agito in modo così strano perché sapeva che la giovane donna parlava bene il nahuatl – mentre lui non lo capiva – e aveva compreso che stava già imparando il castigliano. Quello sciocco doveva aver temuto, poiché era inevitabile che la caccia all’oro degli spagnoli li avrebbe prima o poi condotti ai mexica, che lei potesse usurpare il suo posto privilegiato al fianco di Cortés. E dunque, pur senza mentire al suo signore riguardo alle ricchezze incredibili di Tenochtitlan, l’interprete aveva fatto tutto il possibile per non farlo venire a conoscenza di quelle importanti informazioni e per evitare che Cortés scoprisse quanto potesse essere indispensabile Malinal per la sua causa.

    Forse Aguilar aveva perfino sperato che gli schiavi fossero lasciati indietro mentre gli spagnoli continuavano il loro viaggio! Ma di certo Puertocarrero o gli altri ufficiali che avevano ricevuto delle donne in dono non avrebbero mai fatto a meno delle loro cuoche, cameriere e amanti, e Cortés aveva confermato infatti che li avrebbero accompagnati nell’avanzata fino a Tenochtitlan.

    Dunque, Malinal aveva capito di essere di nuovo in linea con il suo destino. Molto presto, Cortés avrebbe incontrato i signori dei mexica e avrebbe scoperto di non poter parlare con loro. E a quel punto, per quanto Aguilar volesse tentare di fermarla, lei sarebbe stata lì e si sarebbe presa il posto che le spettava di diritto nella storia.

    Tre giorni dopo, come Cortés aveva promesso, lasciarono Potonchan. A quel punto, era cominciato un viaggio per mare nella grande barca chiamata Santa Luisa, di proprietà di Puertocarrero. Malinal non aveva mai visto un vascello così enorme, al punto da sentirsi inizialmente sgomenta, e perfino terrorizzata, dalla sua incredibile mole, e dal geniale modo in cui le sue ali di stoffa si gonfiavano al vento, spingendolo sulle onde orlate di spuma.

    Inoltre, la Santa Luisa era solo una delle undici barche sotto il comando di Cortés, con la sua Santa Maria che era la più grande e la più magnifica della flotta. Tutte quelle navi, come le chiamavano gli spagnoli, erano salpate insieme lungo la costa dello Yucatan dopo essere partite da Potonchan, e per Malinal non c’era stata alcuna opportunità di parlare con Cortés, visto che erano su vascelli diversi. Ma si era ben presto resa conto del fatto che stavano viaggiando ben più veloci di quanto avrebbe potuto fare un uomo a piedi, e che stavano mantenendo quella velocità un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro e una notte dopo l’altra, ben presto lasciandosi alle spalle le terre dei maya e avvicinandosi sempre di più ai territori abitati e governati dai mexica.

    Infine, la mattina del quarto giorno in mare, Cortés aveva ordinato alla flotta di gettare l’ancora al largo della costa, poche miglia a nord di Cuetlaxtlan, e di far sbarcare subito gran parte dell’esercito. Nel giro di poche ore, sulle dune sabbiose della costa era stato costruito un accampamento, e Pichatzin e il suo entourage erano giunti a scoprire cosa stesse succedendo, solo per ritrovarsi di fronte alla frustrante barriera della lingua, che al momento sembrava insuperabile. A quel punto, Malinal, che stava cucinando insieme alle altre donne, aveva avuto di nuovo l’opportunità di fissare negli occhi Cortés, come aveva fatto il giorno della grande battaglia fuori Potonchan.

    Allora, mentre lui la superava a cavallo, avrebbe ancora potuto credere che lui e i suoi compagni fossero divinità, ma ormai sapeva che non era così. Le erano bastate, in verità, le scorregge di Puertocarrero per farle capire che in realtà aveva di fronte degli uomini come tutti gli altri, con tutte le debolezze, le follie e la stupidità del sesso maschile. Certo, avevano un aspetto molto diverso da quello di maya e mexica, e la loro lingua, che Malinal aveva già iniziato a imparare, era differente da qualunque altra avesse mai sentito. In effetti, anche i loro costumi e il loro comportamento erano strani. Sebbene la maggior parte di loro non si lavasse mai, con il risultato che i loro corpi erano sporchi e puzzolenti, avevano una disciplina e una determinazione incrollabili, e le loro armi, i loro animali e le loro navi erano straordinari. Tuttavia, alla fine dei conti si trattava di uomini, nient’altro che uomini, e dunque, per quanto spaventosi e diversi fossero, si potevano capire e manipolare.

    Malinal controllò ancora una volta le pentole. Lo stufato era pronto. Ne versò due mestoli abbondanti nelle scodelle che avrebbe offerto a Cortés e Pichatzin, disse alle altre di servire il resto degli uomini e attraversò la distesa di sabbia, dritta verso il proprio destino.

    «Deve pur esserci qualcosa che accomuni mexica e maya», disse Cortés, rivolto ad Aguilar. «Qualcosa che puoi usare per comunicare con questi selvaggi, o no?»

    «No, Hernán», replicò l’interprete. «Le loro lingue non sono come il francese e l’italiano, con parole simili. Sono molto diverse, invece. E non riesco minimamente a farmi capire».

    «Allora abbiamo un problema», commentò Cortés. «Se non possiamo parlare con i mexica, non potremo neanche negoziare con loro, o impressionarli con le nostre argomentazioni, o capire cosa pensano. Sarà più complicato sconfiggerli».

    «Sciocchezze!», interloquì Alvarado, che era con Puertocarrero al fianco di Cortés. «La lingua della spada è universale. Se useremo quella, ci capiranno alla perfezione!».

    Cortés ridacchiò stancamente. «Vorrei anch’io che fosse così semplice, Pedro, ma nella mia esperienza la lingua è un’arma più potente della spada».

    Mentre parlava, l’uomo notò la maya alta e attraente che aveva donato a Puertocarrero avvicinarsi a loro sulla sabbia; portava due scodelle fumanti del pasto pomeridiano che lui stesso aveva ordinato di preparare. Aveva visto quella deliziosa creatura per la prima volta nel giorno della grande battaglia di Potonchan, insieme a un gruppo di altri maya sulla cima di una delle basse colline che circondavano la piana, e poi l’aveva riconosciuta la mattina dopo, quando quel barbaro di Muluc gliel’aveva offerta come tributo. In quell’occasione, la giovane donna aveva tentato in tutti i modi di parlargli, ma Aguilar l’aveva persuaso a ignorarla, contro ciò che gli aveva invece suggerito l’istinto. Adesso, notando ancora una volta l’eleganza dei suoi passi e le curve seducenti di quel corpo, Cortés considerò che avrebbe dovuto tenerla per sé. Ma tra i velazquisti, come aveva chiamato la fazione di conquistadores ancora leale al suo rivale Diego de Velázquez, governatore di Cuba che lui aveva tradito salpando da Santiago senza permesso due mesi prima, stava crescendo il germe della rivolta. I suoi amici erano

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