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La malafede e il nulla: Figure della falsità e della menzogna nel pensiero di Jean-Paul Sartre
La malafede e il nulla: Figure della falsità e della menzogna nel pensiero di Jean-Paul Sartre
La malafede e il nulla: Figure della falsità e della menzogna nel pensiero di Jean-Paul Sartre
E-book215 pagine2 ore

La malafede e il nulla: Figure della falsità e della menzogna nel pensiero di Jean-Paul Sartre

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Se il mondo è un teatro, e gli uomini e le donne non sono che attori, riflettere sulla menzogna significa interrogarsi sull’unica verità di cui l’uomo sembra disporre, quella che egli crede di possedere, e che quindi può scegliere di dire o non dire. Ma che cosa si cela tra i silenzi di questa presunta verità? Nel corso di tutta l’opera di Jean-Paul Sartre, il concetto di «malafede» è spesso risultato un tema complesso e difficile da trattare, soprattutto a causa del suo indissolubile legame con un’altra delle questioni dominanti della sua ricerca: il problema del nulla. Mentire, a sé stessi o agli altri, significa per Sartre fare compiuta esperienza del nulla – il dire di essere ciò che non si è. Eppure, proprio attraverso l’esperienza della menzogna l’uomo scopre la fondamentale teatralità del suo esistere. Ripercorrendo i capisaldi del suo impianto filosofico, della sua produzione teatrale e letteraria, nonché della sua concezione storica e del suo impegno politico, questo libro si propone di delineare le strutture fondanti dei rapporti onto-fenomenologici che si instaurano tra questi due termini del pensiero sartriano, proprio laddove tali strutture, in un esistenzialismo assolutamente libero da ogni vincolo o inquadramento, paiono essere assenti. Una libertà che, nell’orizzonte nullificante della malafede, è pur sempre limitata dall’«esistenza d’altri», indispensabile nella determinazione del soggetto. Il cameriere del caffè, il sadico, il perverso omicida: sono queste le figure emblematiche che Sartre ci propone per spiegarci il problema dell’autenticità della coscienza, la quale può solo concretizzarsi nella dimensione della «corporeità», sebbene attraverso una serie indefinita di negazioni. Negazioni che tuttavia sono essenziali per concepire il mondo come «rappresentazione», un teatro dove ogni uomo e donna è attore di sé medesimo. E la malafede non sarà altro che la verità della radicale menzogna che risiede nel cuore palpitante di ogni esistente: che il mondo non è mai ciò che dice di essere.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita9 mag 2012
ISBN9788863361667
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    Anteprima del libro

    La malafede e il nulla - Enrico Rubetti

    ENRICO RUBETTI

    LA MALAFEDE E IL NULLA

    FIGURE DELLA FALSITÀ E DELLA MENZOGNA NEL PENSIERO DI JEAN-PAUL SARTRE

    PREFAZIONE DI ANDREA TAGLIAPIETRA

    i cento talleri

    43

    Direttori di collana

    Jacopo Agnesina, Università del Piemonte Orientale - Vercelli

    Diego Fusaro, Università di Milano - San Raffaele

    Segretario di redazione

    Mario Carparelli, Università del Salento

    Comitato Scientifico

    Giovanni Bonacina, Università di Urbino

    Vincenzo Cicero, Università di Messina

    Massimo Donà, Università di Milano - San Raffaele

    Domenico Fazio, Università del Salento

    Sebastiano Ghisu, Università di Sassari

    Giuseppe Girgenti, Università di Milano - San Raffaele

    Marco Ivaldo, Università di Napoli - Federico II

    Roberto Mordacci, Università di Milano - San Raffaele

    Pier Paolo Portinaro, Università di Torino

    Andrea Tagliapietra, Università di Milano - San Raffaele

    I membri del Comitato Scientifico fungono da revisori. Ogni saggio pervenuto alla collana I Cento Talleri, dopo una lettura preliminare da parte dei Direttori di collana, è sottoposto alla valutazione dei membri del Comitato Scientifico (due per ogni saggio).

    Le proposte di pubblicazione devono essere inviate ai seguenti indirizzi: info@ilprato.com o, in forma cartacea, Casa Editrice il Prato, via Lombardia 43, 35020 Saonara (Padova).

    Premessa

    Nel corso dei miei studi universitari, ho sperimentato fin da subito una forte empatia col pensiero di Jean-Paul Sartre. Da un lato per ovvie esigenze di carattere filosofico, laddove le tematiche portanti della mia ricerca ricalcavano le orme lasciate dal filosofo. Dall’altro perché la sua vita, il suo impegno, il suo attivismo politico e sociale, la sua produzione teatrale e letteraria, e il suo stesso «atteggiamento intellettuale» nei confronti del mondo – tipico dell’intellettualismo francese del periodo, profondamente ermeneutico, che ambiva a superare gli sterili confini di una ricerca meramente teoretica, per guardare la realtà sotto molteplici sfaccettature – furono per me di grande ispirazione, soprattutto in relazione alla mia attività di scrittore. In seguito, il lavoro del prof. Andrea Tagliapietra (Università Vita-Salute San Raffaele), a cui devo moltissimo, mi fece appassionare ai temi della falsità e della menzogna nell’orizzonte esistenziale della «rappresentazione». Questa intima connessione che mi lega al pensiero sartriano è dunque il motivo che mi ha spinto a trattare queste complesse tematiche con un atteggiamento – il lettore mi perdoni – così sfacciatamente critico e radicale, dove la pars destruens nei confronti delle verità precostituite si configura come l’imprescindibile punto di partenza per una ricerca protesa non a stabilire l’egemonia di un assolutistico sistema di pensiero, ma a recuperare, senza compromessi, una rinnovata forma di «pensiero critico» capace di mettere in discussione le condizioni della sua stessa possibilità.

    Vorrei inoltre ringraziare l’instancabile tenacia del prof. Diego Fusaro, senza il quale questa pubblicazione non sarebbe stata possibile, e la preziosa consulenza sulla redazione del testo da parte della dott.ssa Maria Luisa Putti.

    Brescia, 29 settembre 2011

    Prefazione

    Il teatro della coscienza

    di Andrea Tagliapietra

    Se è vero quanto amava ripetere un grande animale da palcoscenico come Vittorio Gassman, ovvero che «l’attore è un bugiardo a cui si chiede la massima sincerità», il pensiero di Jean-Paul Sartre ci restituisce l’immagine dell’uomo, di quell’uomo ordinario e comune, che incontriamo per strada, al caffè o nel vagone di un treno, ovvero di qualsiasi essere umano che non può che celare la propria coscienza dietro le maschere della quotidianità, delle interazioni con gli altri e delle relative situazioni, come colui la cui sincerità si dà nella forma di una strutturale e insopprimibile malafede. Infatti, ciò che fa l’attore, ovvero quel dar vita alla pienezza e all’autenticità di un personaggio che si esprime per intero e senza resti nell’evento della messa in scena drammatica, è, per l’impronta chiaroscurale della coscienza umana, segnata da un costitutivo differenziale ontologico rispetto all’identità senz’ombra delle cose e degli enti che sono così come appaiono, un compito titanico e quindi impossibile, che vota l’agire individuale a quel fallimento in cui, prima o poi, precipitano tutte le avventure della libertà autentica. Così, se l’attore in scena è come un bugiardo che dice sempre la verità, gli esseri umani nell’esistenza ordinaria sono degli individui sinceri che, loro malgrado, non sono mai in buonafede, ossia non esprimono altro che falsità. L’uomo, come nei versi di Eliot, non è definitivamente sconfitto e sopraffatto dal falso solo perché continua a tentare (Four Quartets III, 47-48), a inseguirsi e a perdersi, ancora e inevitabilmente, nel gran teatro del mondo. Il vortice della malafede, che accompagna l’agire delle coscienze innanzi alla sfida dell’autenticità e dell’essere, si traduce, così, nel vuoto ontologico del nulla che, spalancandosi come la cavità buia della famosa quarta parete del teatro, quella innanzi a cui agiscono gli attori e in cui si trovano gli spettatori, ospita il destino di contraddizione degli individui, ovvero il loro continuo contraddirsi ed immedesimarsi. Anzi, il loro contraddirsi per immedesimarsi.

    Il volume di Enrico Rubetti, di cui qui occupiamo brevemente il proscenio, ha il merito di evidenziare come, nell’opera di Sartre – in tutti i suoi scritti e non solo, quindi, nei testi specificatamente drammaturgici o, comunque, dedicati alla finzione letteraria –, il teatro cessi di svolgere quella funzione di antimetafora gnoseologica ed ontologica della filosofia a cui l’aveva precocemente condannato la censura platonica della Repubblica e divenga l’orizzonte stesso in cui e da cui si pensa. Ciò che Sartre scopre, cercando di ricondurne l’intuizione, non senza difficoltà, nelle coordinate della tradizione filosofica e nel lessico fenomenologico di Husserl e Heidegger, è la strutturale teatralità della coscienza, ovvero del luogo, dell’ apertura metaforica in cui si pensa.

    Il pensiero, infatti, è il teatro della verità e della falsità, e solo la dimensione intrinsecamente drammatica dell’interazione fra più intenzionalità che agiscono l’una verso l’altra ci può consentire di accedere ai fenomeni sfuggenti e complessi della malafede e della menzogna e, di contro, ci permette di attribuire alla verità in gioco nelle questioni umane un valore che vada oltre alla corrispondenza fattuale e alla coerenza logico-formale prodotte dalla riflessione calcolante e concernenti il mero orizzonte delle cose in quanto tali. La storia della filosofia, là dove si è occupata del problema della menzogna, sembra concludere che, sul piano oggettivo degli enti, sia dimostrabile il dire il falso, ma non altrettanto sia possibile isolare la bugia, facendola corrispondere ad uno stato di cose o a un fatto. Per dirla con una formula estremamente stringata, che condensa il risultato della più che bimillenaria riflessione del pensiero occidentale sul tema, la menzogna non è un fatto o uno stato di cose, ma è un atto intenzionale, un mentire, vale a dire l’agire di una o più coscienze nei confronti di un’altra o di altre coscienze al fine di far credere ciò che non si ritiene vero.

    Da questa definizione, ovvia e allo stesso tempo complessa, deriva un’immediata conseguenza, ossia che il contrario della menzogna – che a questo punto si configura più specificamente come, appunto, un mentire, come un atto, e non come un detto, ovvero come un contenuto del detto rispecchiante un certo stato di cose – non è più la verità o la realtà, ma la veracità, la veridicità, ossia il dire il vero, il voler dire il vero. La verità appare come il riferimento tensionale delle simmetricamente opposte strategie pratiche del mentire e del voler dire il vero, sicché per il funzionamento e la definizione di questi dispositivi intenzionali è secondario che la verità evocata dal parlante, per dirla (veridizione) o per nasconderla (dissimulazione) o alterarla (simulazione) sia anche effettivamente tale per coerenza o corrispondenza, mentre è essenziale che sia creduta tale, ovvero è necessario che venga preso in esame come decisivo, di volta in volta, il punto di vista del bugiardo e, dall’altra parte, quello dell’individuo sincero. Basta appena aggiungere che il duplice dispositivo così costruito è rappresentabile e comprensibile in una prospettiva teatrale, quella che Foucault chiamava la scena del pensiero, mentre appare assolutamente inafferrabile se si intende il pensiero medesimo come un monologo o, vuoi anche, come «un dialogo interiore dell’anima con se stessa, che avviene senza voce», secondo la famosa definizione di Platone nel Sofista (263e 4-5).

    Eppure, è evidente come la tradizione filosofica occidentale abbia voluto privilegiare proprio questa concezione disincarnata e monologica del pensiero, confinando la teatralità, la pluralità e la caratteristica eventuale e interattiva del pensare al di fuori della sua purezza logica, nel campo delle passioni e delle emozioni – appannaggio, come il desiderio, di una corporeità nettamente separata dall’intelletto e dalla ragione. Del resto, all’inizio della parabola della nostra cultura, teatro e filosofia si incrociano pericolosamente. Anzi, sembrano nascere dalla stessa radice, come intuirà il più filologo di tutti i filosofi, Friedrich Nietzsche. Allora, uno sfondo comune, un teatro filosofico, un pensiero come drammatologia appare forse possibile e ciò che avrebbe potuto essere rimane appena accennato nella maschera di Socrate e nelle altre dramatis personae prigioniere dei dialoghi platonici. Ma con Platone, appunto, la filosofia prende già un’altra strada, lasciandosi alle spalle lo specchio infranto del teatro. Le questioni della verità e della menzogna abbandonano l’intreccio dei personaggi e l’orizzonte della vita sociale e personale per spostarsi sul piano astratto delle idee e dei concetti. Al teatro verrà riferita la dimensione dell’illusione, il domino delle apparenze di cui la filosofia si riserverà, in esclusiva, la verità come dominio. Quel dominio dell’essere che si attua mediante la forma dell’esclusione – la negazione del nulla – che riassume e concentra, nella sua forza logica totalizzante, tutte le esclusioni storiche e sociali che attraversano e scuotono l’avventura della cultura occidentale e la sua ascesa a civiltà del mondo globalizzato. Di qui seguirà, infatti, all’inizio della modernità, quell’aggancio fra dominio ideologico dell’essere e soggettività che, costruendo, con Cartesio, la figura del soggetto-fondamento, aprirà la stagione dell’individualismo soggettivistico moderno. È la storia di quell’homo clausus del cogito che, negandosi all’esteriorità delle interazioni ed escludendo dalla razionalità la fluttuazione delle maschere della vita, cercherà di istituirsi come luogo assoluto di verità, ma, proprio per questo, condannerà ogni individuo empirico a potersi contemplare soltanto nello specchio del nulla della malafede, o a riconoscersi, per puro diletto, nella folle e possente galleria di personaggi messa in scena dal teatro.

    Ecco allora che nel rovesciamento di questo schema non sta solo il superamento del platonismo come forma originaria e, si potrebbe dire, archetipica dell’olismo di ogni ideologia, ma anche la riproposizione di quell’iniziale prossimità fra teatro e filosofia, nonché l’apertura di un nuovo pensiero in corrispondenza di un’altra, immanente realtà possibile. Là dove regna la maschera si dà anche la possibilità concreta dello smascheramento. Perché il mondo del vero teatro, a differenza del mondo dell’ideologia, è sempre un mondo trasformabile, ovvero è sempre un mondo in cui, come suggeriva Bertolt Brecht, non è stata detta da nessuno l’ultima parola e dove, quindi, le rappresentazioni morali e sociali di una realtà si accompagnano dialetticamente ai germi critici del loro mutamento: della trasformazione come della liberazione.

    Ciò che Rubetti ricostruisce, disegnando con chiarezza la parabola della nozione di malafede nel pensiero di Sartre, saggiandone lo sviluppo dalla teoria alla prassi, dalle pagine de L’essere e il nulla alla morale in situazione che si ricava dalla lettura degli scritti teatrali e letterari, ma anche dalle testimonianze vissute dell’impegno politico del filosofo all’interno del quadro dei grandi conflitti geopolitici e sociali del XX secolo, non è soltanto un valido e accurato esercizio ermeneutico sull’opera di uno dei maggiori pensatori del Novecento, ma fa intravedere il promettente inizio di una ricerca affascinante, protesa coraggiosamente fra teatro e filosofia. Di questa ricerca La malafede e il nulla costituisce una prima, precoce prova a fianco della quale, tuttavia, non si può omettere di menzionare l’apprezzata attività di Enrico Rubetti in campo teatrale e cinematografico, dove il nostro giovane autore si occupa di drammaturgia e sceneggiatura. Del resto, se il teatro può diventare cruciale experimentum philosophiae, perché la filosofia non potrebbe essere, nella ripresa della destinazione del suo compito originario, un’autentica drammaturgia del pensiero?

    1. Introduzione

    Così è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli. […] L’uomo è una passione inutile.

    Sartre, L’essere e il nulla

    1.1 Sartre figlio del suo tempo: gli anni ’60 e la crisi

    «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica nonlibertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico»¹. Così esordiva Herbert Marcuse, in una delle sue opere capitali, quando tentava di definire le nuove forme di controllo che affliggevano le società occidentali a partire dalla seconda metà del XX secolo. In particolare negli anni ’60, con il consolidarsi delle tensioni della Guerra Fredda, la minaccia di una catastrofe atomica, che avrebbe potuto annientare la razza umana, serviva nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuavano il pericolo. Tuttavia, «gli sforzi per prevenire una simile catastrofe pongono in ombra la ricerca delle sue cause potenziali nella società industriale contemporanea. Queste cause rimangono non identificate, non chiarite, non soggette ad at tacchi del pubblico, poiché si trovano spinte in secondo piano dinanzi alla troppo ovvia minaccia dall’esterno»². In tal senso, Marcuse si proponeva di porre in relazione le cause del pericolo nucleare con il modo in cui la società stessa era organizzata e, allo stesso tempo, organizzava i suoi membri. Con questo ci troviamo immediatamente dinanzi al fatto che la «società industriale avanzata» dell’epoca diventava sempre più ricca, più grande e migliore a mano a mano che perpetuava il pericolo. La struttura della difesa rendeva la vita più facile a un numero crescente di persone, ed estendeva il dominio dell’uomo sulla natura; in tali circostanze, i mezzi di comunicazione di massa trovavano poche difficoltà nell’imporre al pubblico interessi particolari come fossero quelli di tutti gli «uomini ragionevoli»³. I bisogni politici della società diventavano bisogni e aspirazioni individuali, e la loro soddisfazione favoriva lo sviluppo degli affari e del bene comune; ambedue apparivano perciò come la personificazione stessa della ragione. Infatti, si chiede Marcuse, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel corso della meccanizzazione di attività socialmente necessarie, o della concentrazione di imprese individuali in società per azioni più efficaci e più produttive? «I diritti e le libertà che furono fattori d’importanza vitale alle origini e nelle prime fasi della società industriale cedono il passo ad una fase più avanzata di questa: essi vanno perdendo il contenuto e il fondamento logico tradizionali»⁴. E questo proprio perché le libertà di pensiero, di parola e di coscienza sono, nell’ottica marcusiana, idee essenzialmente critiche, al pari di ogni libera iniziativa che dovrebbe promuovere e proteggere una cultura produttiva e razionale e, nel caso, sostituirla a una più materiale e obsolescente.

    Sulla linea della questione sollevata dal filosofo francofortese, è possibile ottenere una panoramica del complesso contesto socio-culturale all’interno del quale si muoveva, in tutta la varietà delle sue forme, il pensiero di Jean-Paul Sartre⁵. Un pensiero che, sul piano dell’impegno

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