Maneggiare assoluti: Immanuel Kant, Primo Levi e altri maestri
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Anteprima del libro
Maneggiare assoluti - Luciano Dottarelli
nonviolenza
Introduzione
Scegliere per tempo i propri maestri (il fiuto dev’essere innato) – purché siano pochi.
Stringerli, spremerli, sviscerarli, tormentarli, sminuzzarli e rimetterli assieme, senza subire la lusinga della polimatia.
Minatore fedele alla sua caverna: è la faccia oscura del filosofo.
Giorgio Colli
Una delle immagini che, in alcuni momenti decisivi del suo sviluppo storico, la filosofia ha voluto dare di sé è stata quella di un’indagine rivolta al conseguimento di un sapere assoluto, capace di restituire una visione della realtà nella totalità delle sue determinazioni e con la garanzia di una piena evidenza dimostrativa.
La vocazione alla ricerca di una verità assoluta, che abbracciasse l’intero ambito dell’esperienza umana e fosse incondizionata, ossia svincolata (absolutus=sciolto, libero) da ogni presupposto accettato senza riflessione, si è manifestata nell’orizzonte della filosofia fin dalle sue origini, per costituirne un carattere distintivo rispetto ad altre forme di conoscenza.
In quell’inesauribile scrigno di concetti filosofici che restano ancora oggi i Dialoghi di Platone, non è difficile rinvenire, più o meno esplicitata, questa accezione della filosofia, intesa principalmente come attività teoretica (da theoréin, vedere) nella sua versione più forte.
In particolare nella Repubblica, Platone riconosce l’autentica natura filosofica nell’«anima che aspiri all’intero e alla totalità» e nella quale alberghi «la possibilità straordinaria di vedere tutto il tempo e tutto l’essere». Quest’opera, in cui agisce un’appassionata motivazione politica, è pervasa dalla certezza che l’aspirazione degli uomini al possesso di una verità assoluta non sia destinata a rimanere insoddisfatta.
Qui si fa sentire fortissima quell’urgenza di fornire risposte, quell’ossessione di superare il relativismo che, in una tensione continua con l’opposta esigenza di mantenersi fedele allo spirito più autentico del filosofare socratico, determina anche il dramma personale che si trova a vivere Platone.
Così egli nella Repubblica può far dire proprio a Socrate, che «filosofi sono coloro che riescono ad arrivare a ciò che sempre permane invariabilmente costante» e che le vie della dialettica, intesa come «parte più difficile» della filosofia e culmine dell’attività conoscitiva, conducono «a quella mèta dove chi giunge potrà ristorarsi del cammino percorso e porre termine al suo viaggiare».¹
Questa stessa fiducia di pervenire al risultato finale la ritroviamo espressa, con parole non molto diverse, in Hegel, il pensatore che più di ogni altro incarna lo sforzo titanico della filosofia per raggiungere un sapere assoluto: «Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza – alla meta raggiunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del sapere per essere vero sapere, – ecco ciò che io mi son proposto».²
In questa prospettiva, assoluto
non è soltanto l’aggettivo che si addice al sapere in cui consisterebbe la filosofia e che intende sottolinearne i caratteri di esaustività, compiutezza e verità incondizionata. Il termine qualifica anche l’oggetto di questo sapere, in quanto si identifica con la realtà nella sua totalità e con tutto ciò che, per essere e valere, non ha bisogno di relazionarsi ad altro, essendo indipendente e perfetto.
La realtà che in primo luogo, da sempre, si è presentata in questa forma non-relativa è la divinità. È al modo d’essere del divino che si addice nel senso più appropriato e completo il predicato dell’assolutezza ed è per questo che, usato come sostantivo, il termine Assoluto
è diventato, fin dal tempo di Cusano, il nome che la filosofia ha utilizzato per chiamare Dio.³
L’ambizione di abbracciare la totalità incondizionata in una compiuta visione conoscitiva configura la filosofia come un «sapere assoluto dell’Assoluto» e, nel caso di Hegel, l’oggetto immenso è anche il vero Soggetto di questo sapere. Nell’affaticamento conoscitivo degli uomini è in realtà in azione lo stesso Assoluto, di cui essi non sono che una manifestazione. Lo sforzo di autocomprensione che si sviluppa nel corso della storia umana è «la commemorazione e il calvario dello spirito assoluto, l’effettualità, la verità e la certezza del suo trono, senza del quale esso sarebbe l’inerte solitudine».⁴
Dopo Hegel la filosofia non confiderà più – almeno non con la stessa possente e sicura determinazione – di poter raggiungere la sua meta e infine riposarsi del viaggio. Accadrà piuttosto che la metafora dell’eterno viandante tornerà a divenire consueta nelle pagine dei filosofi per esprimere una sempre più condivisa modalità di comprensione della condizione umana.
Nel frattempo però la fame di assoluto avrà continuato a manifestarsi in molteplici altri campi dell’esperienza umana: da quelli più tradizionalmente vocati alla produzione di senso come la religione e l’arte, ai nuovi terreni della politica e della scienza.
Proprio in questi ambiti si farà sentire con più vigore – soprattutto nel Novecento – la nostalgia dell’assoluto, dando testimonianza concreta (e tragica) di come la proiezione verso la totalità e l’incondizionato esprima una dimensione costitutiva dell’essere degli uomini ma possa anche nascondere in sé un potenziale immane di (auto)distruzione.
In questa migrazione fuori dell’orizzonte della filosofia, la ricerca dell’assoluto non ha certamente perso nulla dell’ebbrezza della ragione speculativa di Hegel; ne ha invece spesso smarrito la disciplina della mediazione, il richiamo ad un’etica della comunicazione responsabile, che invita a non ricercare comode scorciatoie e a non sottrarsi alla fatica del concetto.
Di fronte agli esiti di fanatismo irrazionalistico che ha assunto la ricerca dell’assoluto in certi ambiti dell’esperienza artistica e religiosa, le parole di Hegel possono addirittura suonare sobrie e richiamare il carattere costitutivamente umano dell’impresa filosofica. Si rileggano quelle pagine della Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito in cui, dopo aver proclamato che «il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro», mette però in guardia da quel senso comune che, facendo appello «all’oracolo interiore del sentimento, rompe ogni contatto con chi non è del suo parere; esso è costretto a dichiarare di non aver altro da dire a colui che non trovi e non senta in sé stesso la medesima verità – in altri termini, esso calpesta la radice dell’umanità. Questa infatti, per natura, tende ad accordarsi con gli altri; e la sua esistenza sta soltanto nell’istituita comunanza delle coscienze»⁵
La filosofia dunque, anche quella più incline a farsi coinvolgere nell’impresa di estinguere la sete dell’assoluto, contiene in sé, nella propria vocazione alla ricerca di una comune verità mediante il dialogo, un antidoto indispensabile al rischio distruttivo che può annidarsi in ogni tentativo umano, tanto umano di cogliere la totalità, l’infinito, Dio.
Anche le grandi tradizioni religiose, quelle che da secoli sono impegnate a tracciare sentieri, trovare parole, celebrare liturgie per saziare la fame di assoluto che agita il cuore e la mente degli uomini non possono fare a meno di intessere un intenso dialogo con questa tradizione di ricerca, soprattutto nei momenti cruciali, quando diventa urgente addomesticare i dèmoni che una frequentazione inadeguata del sacro può evocare.
Dèmoni che portano il nome di fanatismo, intolleranza, totalitarismo e di cui è purtroppo costellata la storia degli uomini alla ricerca della verità assoluta, della totalità autentica ed incondizionata, dell’esperienza integrale.
La consapevolezza che anche la filosofia non possa dichiararsi storicamente innocente, non cancella ma