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Se il freddo fa rumore
Se il freddo fa rumore
Se il freddo fa rumore
E-book346 pagine4 ore

Se il freddo fa rumore

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Info su questo ebook

Due ragazzine che non si conoscono sparite misteriosamente dalla stessa cittadina di provincia. Un brutale omicidio senza spiegazione. Un groviglio di emozioni, sentimenti e relazioni dove niente è come sembra. L’ombra di intimidazioni e minacce e la paura di non sentirsi mai al sicuro. Un inquietante caso per il vicequestore Luciano Mauri e per la giornalista Lorenza Maj. In una solitudine che penetra nelle ossa. Proprio come il freddo.

“Le stesse iniziali. La stessa città, la stessa angoscia. E il freddo. Accompagnare Lorenza e Luciano nella discesa nell’abisso, ascoltare il silenzio che li avvolge gelido, lasciarsi trascinare da una scrittura tagliente e raffinata. Per accorgersi dell’arrivo di una nuova, straordinaria voce nel romanzo nero italiano.” 
Maurizio De Giovanni 
LinguaItaliano
EditoreDamster
Data di uscita12 mar 2018
ISBN9788868103538
Se il freddo fa rumore

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    Anteprima del libro

    Se il freddo fa rumore - Sara Magnoli

    Sara Magnoli

    SE IL FREDDO FA RUMORE

    Prima Edizione Ebook 2018 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868103538

    Copertina

    Progetto grafico

    Massimo Casarini e Fabio Mundadori

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena

    http://www.damster.it  e-mail: damster@damster.it

    Sara Magnoli

    SE IL FREDDO FA RUMORE

    Romanzo

    INDICE

    PROLOGO

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    CAPITOLO 37

    CAPITOLO 38

    CAPITOLO 39

    CAPITOLO 40

    CAPITOLO 41

    CAPITOLO 42

    CAPITOLO 43

    CAPITOLO 44

    CAPITOLO 45

    CAPITOLO 46

    CAPITOLO 47

    CAPITOLO 48

    CAPITOLO 49

    CAPITOLO 50

    CAPITOLO 51

    CAPITOLO 52

    CAPITOLO 53

    CAPITOLO 54

    CAPITOLO 55

    CAPITOLO 56

    CAPITOLO 57

    CAPITOLO 58

    CAPITOLO 59

    CAPITOLO 60

    CAPITOLO 61

    CAPITOLO 62

    CAPITOLO 63

    CAPITOLO 64

    CAPITOLO 65

    CAPITOLO 66

    CAPITOLO 67

    CAPITOLO 68

    CAPITOLO 69

    CAPITOLO 70

    CAPITOLO 71

    EPILOGO

    Ringraziamenti

    L’autore

    COMMA21 la collana

    A Cristina, che una mattina davanti a un cappuccino

    di latte di farro (o era di soia e vaniglia?) e caffè chife

    mi ha fatto sentire immensa dicendomi una cosa

    che è il più bel complimento per chi scrive.

    O che almeno ci tenta...

    Grazie, ti voglio bene

     Sara

    … prendimi al volo e poi non farmi cadere più.

    Da questa altezza sai non ci si salva mai... mi ami?...

    (Magari, Renato Zero)

    …non basta un cielo sul soffitto per volare…

    (Splendidamente pazza, Grandi Animali Marini)

    PROLOGO

    Meglio di un orgasmo.

    Il pigiama gonfio di sudore.

    L’aveva sognata.

    Al risveglio improvviso si trovò già a sedere sul letto.

    L’aveva sognata.

    E nel sogno ricordava.

    Riviveva quanto accaduto solo poche ore prima. Quando lei si era piegata sotto i suoi colpi come un panetto di burro. Che piacere aveva provato. Si era sbriciolata come un friabile biscottino da tè.

    Non pensava potesse essere così appagante uccidere qualcuno e sentirlo morire sovrastandolo con le proprie mani.

    Zoccoletta puttanella. Ma che ti pensavi?

    Tolse le gambe da sotto le coperte, le fece scivolare sul materasso e con i piedi, lentamente, toccò il pavimento. Era gelido, e fu un brivido che alla sua mente riportò lo stesso piacere provato ammazzando. Ammazzandola.

    Nel buio, pur a fatica, le sue mani iniziarono a scorrere senza volersi fermare sul pigiama stendendosi sul corpo quel sudore come fosse un olio profumato e potesse prolungare il benessere che stava provando.

    Non ebbe neppure bisogno di aprire gli occhi, anzi, voleva tenerli chiusi, e respirare piano, per non far uscire da sé quel godimento sottile che voleva solo poter estendere all’infinito.

    Pensava di essere al sicuro, quella cretinetta. Pensava di poter fuggire.

    Storse la bocca in quello che voleva essere un sorriso di soddisfazione. Risentì tra le mani il panetto di burro fondersi, il biscottino da tè sbriciolarsi.

    Non sapeva ancora di aver ucciso la persona sbagliata.

    -----------------

    Nomadi. Si spostavano nel chiuso dell’abitacolo costrette a una prigionia che lui aveva deciso per loro.

    Nomadi. Come lui. Lui che le costringeva a stare rinchiuse. Rinchiuse, solo per lui. Lui che era sfuggente.

    Nomade. Come loro. Con loro.

    Con loro condivideva un segreto. Il segreto. Era solo suo, non aveva mai permesso a nessun altro di farne parte. Non l’avrebbe mai permesso.

    Neppure a lei. Sagoma scura che aveva lasciato poco prima sola vicino alla panchina davanti al teatro chiuso. Avrebbe dovuto ricordarselo, che a lei i teatri facevano paura da quando…

    Per un attimo ebbe un’esitazione. Dalla terza scalò alla seconda, come volesse rallentare e tornare indietro, mentre in realtà si stava preparando alla quarta. Ma fu solo un attimo. Un istante. Una frazione di tempo così piccola da non ricordarsela neppure.

    Sapeva di averle fatto male. E sapeva anche che lei, tutto sommato, non se lo meritava. Era come una bambina, nonostante il suo corpo non fosse più acerbo e neppure più di ragazza. Ma dentro, lui lo sapeva, lei era rimasta una bambina. Vittima di un’adolescenza che forse non aveva mai vissuto, troppo impegnata a cercare di piacere agli altri prima che a se stessa, a non deludere chi la voleva brava ragazza, matura, fine intelligenza. Prima in tutto. Fino a renderla per sempre ultima davanti a se stessa.

    Lo sapeva anche lei, ne era certo, anche se non se ne voleva rendere conto.

    Ma il segreto delle note nomadi doveva essere solo suo. Gli bastava ogni sera chiudersi nella sua auto e far partire il cd perché i suoni della quinta danza ungherese di Brahms iniziassero a muoversi come impazziti, alla ricerca di uno spazio aperto che lui negava loro ogni sera, ogni volta. Tutte le volte.

    Nessuno sapeva di questa sua grande passione musicale. E nessuno avrebbe mai dovuto saperlo. Nessuno l’avrebbe mai saputo. Non che se ne vergognasse, al contrario. Ma un segreto ciascuno di noi deve averlo. E quello con la quinta danza ungherese di Brahms era solo suo. Dal Grande Dittatore di Chaplin, un minuto e quarantatre secondi del barbiere che si muove sul nomadismo di quelle note, alla guerra di violini che Dudley Moore dichiarava contro Armand Assante per l’adorabile infedele che credeva fosse Nastassja Kinski. Era il 1984 quando Howard Zieff aveva curato la regia di Un’adorabile infedele, remake di un film di trentasei anni prima.

    E la danza ungherese numero 5 di Brahms l’aveva stregato. Unica essenza di genere femminile che fosse mai riuscita a possederlo totalmente. Accompagnando un titolo di infedeltà che lui indossava come un vestito cucito su misura. Il grande direttore d’orchestra Claude Eastman che affonda l’archetto come se fosse una spada a trafiggere il violinista che crede sia l’amante della giovane moglie.

    Il violinista… come si chiamava il violinista? Stein. Maximilian Stein. Maximilian Stein. Maximilian. Le coincidenze, a volte, chissà se esistono.

    La necessità passionale di quelle note di liberarsi, muoversi, non fermarsi, picchiava forte nell’abitacolo dell’utilitaria, mentre la sagoma scura di lei non era più sullo sfondo, pur essendoci ancora.

    Lei, lei sì che era fedele. Intimamente fedele, nonostante quella volta. Quella volta che neppure un infedele come lui riusciva a dimenticare. Strana. Irreale. Illusoria.

    Sentiva il bisogno di ingranare la quinta, con quella musica sparata a tutto volume nell’abitacolo dell’utilitaria. Ma pioveva. Quella stupida pioggerellina del cazzo che Roma non aveva. O almeno, lui non se la ricordava. Ce l’avevano lì, in quello straccio di pianura che giurava di avere uno dei più importanti polmoni verdi d’Europa. Malato di cancro da inquinamento. Atmosferico, acustico, alla faccia di chi lo negava e cercava pretesti per dire che non era così, che non si poteva incolpare l’aeroporto, l’indotto automobilistico, che non c’erano prove tangibili. Tutte stronzate. Le auto inquinano, gli aerei pure, il riscaldamento anche. Punto. Che altre cazzate potevano inventarsi per negarlo? L’aeroporto di Malpensa aveva squarciato il cuore e l’anima di quello che si stava sempre più velocemente trasformando in un’accozzaglia di case dormienti o disabitate. Lì come altrove.

    Se l’era goduto quello spettacolo in un teatro che era stato inaugurato da colui che un mese dopo sarebbe diventato Paolo VI. Teatro delle Arti, si chiamava, ed era uno splendido esempio di grande prosa in una città che contava poco più di 50mila abitanti. Gallarate. Un passato manifatturiero che non esisteva più e un nome che a lui ricordava, chissà come, passate battaglie.

    Ma quel teatro, ah, quel teatro. Avevano declamato parole, da quel palco, lo aveva letto sulle locandine appese nel foyer, nomi come Vittorio Gassman, Mariangela Melato, Nobel come Dario Fo. E ancora Peppino De Filippo, Giancarlo Sbragia, Valeria Moriconi. L’inaugurazione nel 1963 aveva avuto il volto di Emma Gramatica, nella Damigella di Bard, commedia di Salvator Gotta.

    Alla fine aveva ceduto anche lei davanti a quei due biglietti che lui le aveva sventolato davanti. Quel teatro non era male, quello spettacolo non era stato male, per niente. Ma lui l’aveva vista, con la coda dell’occhio, lei aveva tenuto lo sguardo serio e fisso sul palco, aveva applaudito solo alla fine. Paura, delusione, dolore.

    E poi, fuori, la gente se ne era andata via quasi subito, complice quella maledetta pioggerellina. Le luci si erano spente, in quella via stretta in zona a traffico limitato, chi andava a pensare che lì ci fosse un teatro così, stretto tra palazzi, negozi sopravvissuti, l’oratorio che al teatro si collegava, i parcheggi poco distanti occupati la sera, la notte, in parte dalle auto di residenti senza box. Anche loro due avevano trovato posto lì vicino, nella strada che immetteva verso quella pedonale del teatro, accanto a un ponte sotto il quale scorreva il torrente Arno con le sue anatre, i suoi pesci, l’immondizia gettata dentro senza ritegno. Ma alla fine dello spettacolo lui era salito veloce sulla sua auto, e aveva lasciato lei là, sola.

    – Fa’ attenzione, – gli aveva detto lei, come ogni volta quando si separavano alla fine di quelle giornate che li avevano visti per troppo tempo fianco a fianco. Fa’ attenzione. Ma non aveva teso la mano a fargli una carezza, come era talvolta capitato, cucciolo innamorato di lui ma che amava un altro. Non quella sera. Solo: fa’ attenzione. A lui, che si era chiuso nell’auto e se ne era andato subito, lasciandola al buio, vittima delle sue paure. Lui sapeva che lei lo capiva anche senza che le dicesse nulla. Ma era sempre convinta di essere lei a non farsi capire dagli altri, se non esprimendosi a parole.

    Fa’ attenzione. A quegli archetti di violino che sembrano spade. A quelle note zingare pronte a qualsiasi inganno pur di ritrovare la libertà. A quelle strade opacizzate dalla pioggia, da quella pioggia. A Roma non c’era. Roma, Roma, sempre Roma. Lui, nomade, in Roma aveva trovato la madre che voleva, quella dove si conta qualcosa pur potendo passeggiare per la strada senza che ti riconoscano. Anche se per lui era stato diverso. Era diverso.

    Doveva raggiungere l’autostrada e poi sarebbe stato libero di correre.

    E figurati se non arriva lo stronzo con il suv. Eccolo qui, a mezzanotte passata. E abbassa quei cazzo di fari, coglione. Abbassali che danno fastidio. O supera, imbecille, e vai a schiantarti più avanti.

    Si strinse un po’ più sulla destra e questa volta sì che scalò. Che passasse e in fretta, con quei fari così alti.

    Oh, ma è davvero cretino. Anche il suv rallentò, scalò la marcia, restandogli, come si usa dire in gergo, proprio attaccato al culo.

    Picchiavano, le note, premevano sui finestrini chiusi. Colpivano le frecce lanciate a vendicare l’onta che il direttore d’orchestra credeva di aver subito da un’adorabile moglie che pensava infedele. Ridevano sulle mani intente a insaponare del barbiere Chaplin.

    Il suv si spostò un poco sulla sinistra e sembrò voler passare a ogni costo.

    Asfalto nascosto dalla pioggerella arrivata a disturbare un parco dai polmoni malati. Falò di nomadi che suonano melodie tzigane.

    Fa’attenzione. Fa’attenzione.

    Supera, maledetto idiota.

    Eccolo lì, finalmente in fase di sorpasso, per stringere, stringere, costringere a fermarsi. L’aveva fatto apposta.

    L’impatto con il ponte sotto il tratto di ferrovia fu questione di un momento. Non fu lui ad aprire la portiera per liberare la quinta danza ungherese di Brahms dalla prigionia.

    Le note fuggirono. E per lui fu il buio.

    CAPITOLO 1

    C’era un mucchio di foglie secche accatastate da tempo, poco dopo il cancello leggermente aperto. Una volta era stato sicuramente elettrificato. Adesso l’avevano definitivamente spaccato. E ci si poteva entrare tranquillamente, in quel prato che di certo non poteva essere definito un bel giardino curato come prima che la casa fosse abbandonata.

    Lui, il ragazzo, vestiva jeans pieni di tagli all’altezza delle ginocchia e un giubbetto imbottito scuro. In testa, un cappellino di quelli con l’aletta. Si tirava dietro lei, la ragazza, che faceva un po’ di resistenza. No che non era la prima volta che si infrattavano in qualche posto strano per fare l’amore. Ma a lei quelle case delocalizzate mettevano addosso brividi strani. Come se, nonostante non ci abitasse più nessuno da anni, avessero occhi pronti a spiarli. Ma lui era tutto preso dall’eccitazione di un posto che sembrava popolato da fantasmi. Gliene aveva parlato quel pirla del suo amico d’infanzia, che quando voleva essere scemo lo sapeva fare benissimo, secondo lei. Gli aveva descritto nei dettagli la frenesia del prima e del durante quando c’era andato lui, il mese prima, con la sua fidanzata. Fidanzata che lei conosceva, visto che uscivano assieme il sabato sera. E adesso le dava un po’ fastidio, le creava un certo imbarazzo sapere che cosa aveva fatto con quell’idiota. Certo, se lo poteva anche immaginare che cosa facessero, ma non sapere i dettagli la immunizzava un po’. Invece lui non aveva perso tempo a spiegarle in ogni particolare le performance vere o presunte dell’amico, sostenute dall’insolito clima che quel posto sembrava avergli messo addosso.

    – Senti – aveva cercato di fermarsi lei mentre il ragazzo con il cappellino con l’aletta la tirava sempre più forte, convinto di essere sul punto di fare aprire per entrambi le porte di un impero dei sensi che neppure il regista Nagisa Oshima avrebbe mai potuto descrivere. – Senti, per favore, andiamo da un’altra parte. Questo posto mi agita.

    Il ragazzo si era fermato, perplesso. L’aveva guardata, le aveva preso il volto tra le mani accarezzandoglielo con i pollici. – Ti agita? Ma non dire cazz… cioè, non devi avere paura, cioè, stai qui con me. E poi non siamo mica i primi che vengono qua a… va be’, cioè, hai capito, dai!

    Quelle sue frasi lasciate a metà, come a voler nascondere termini volgari per descrivere quello che per lei avrebbe dovuto essere solo un normale atto del loro rapporto d’amore, la indispettivano.

    – No – puntò i piedi lei. – Non ci vengo. E poi tu hai sempre la capacità di rovinare tutto con il tuo modo di esprimerti.

    Lui non smise di accarezzarle le guance, facendo muovere le altre dita dietro la nuca di lei. – Uffa, dai, era così per dire, cioè, scusa. Ma guarda che non c’è nessun pericolo, cioè, l’ho letto anche sui giornali che qui vengono pure coppie che vogliono stare da sole, cioè, che vogliono… va che ci hanno trovato anche dei materassi! E poi non è ancora buio, cioè, non è mica notte.

    No che non era notte, ma lei aveva paura lo stesso. E poi in quei pomeriggi autunnali la luce se ne andava via presto e veloce. Non capiva che cosa ci trovasse lui di tanto eccitante. Ma lo seguì oltre il cancello aperto, e poi verso quella casa strana, con la porta dal catenaccio divelto. Lui si fermò guardando per aria, come a scrutare il cielo. Si tolse il berretto con l’aletta, poi se lo rimise in testa e si girò verso di lei. – Cioè, sto pensando, entriamo in casa o diamo un’occhiata al garage là in fondo? Dentro mi pare che c’è pure un divano, cioè, me l’ha detto l’Alfredo, ma tanto ho portato io due belle coperte.

    Notò che lei stava tornando a irritarsi e cambiò registro. – Okay, dai, no, cioè… sai che facciamo? Andiamo a scoprire che c’è in questa casa che ti mette tanta paura. Partiamo da fuori, cioè, dal giardino, vediamo il garage e poi se vuoi entriamo, che tanto la porta è aperta. E poi decidiamo insieme che cosa fare, cioè, ti va bene adesso?.

    La prese per mano, lei lo seguiva più docile, senza opporre più alcuna resistenza. Lui camminava all’indietro, guardando lei e parlando di chissà quali scemenze e chissà con quanti cioè, quando i suoi piedi furono afferrati da un groviglio forse di sterpi, forse di foglie impastate dal tempo che non aveva visto, bloccandogli i passi come se avesse incontrato un blocco di cemento. Cadde di schiena, e la trascinò sopra di lui. Non l’aveva neppure lontanamente pensato, ma improvvisamente la situazione gli sembrò un’occasione davvero eccitante. Nel prato, sotto la pioggerella che non smetteva di cadere.

    Cercò di scambiare le loro posizioni, costringendo lei a mettersi sulla schiena, ma quello che gli era apparso un blocco di pietra reo di averlo fatto inciampare se ne stava lì al suo fianco. Girò la testa, a cercarlo con lo sguardo. Si trovò davanti un caschetto di capelli impastati di sangue.

    CAPITOLO 2

    Ogni viaggio ha una fine. Ogni treno che parte ha una stazione d’arrivo oltre la quale non può andare. Se vuoi proseguire, devi prenderne un altro. Sperando ci sia una coincidenza. Che sia vera coincidenza, non un’attesa di ore. Una coincidenza, a volte, chissà…

    Che strano: un’unica parola per significare la corrispondenza d’orario tra l’arrivo di un mezzo di trasporto e la partenza di altro e la concomitanza spesso casuale di più circostanze. Come se, a ben guardare, per evitare di perdere tempo, di farsi prendere dallo sconforto di una lunga attesa, magari al freddo, non ci possano essere avvenimenti casuali, ma piuttosto una precisa programmazione, uno studio al minuto, al secondo, di arrivi e partenze. Di fine corsa e di ripartenza. Di treni che vengono e treni che vanno.

    E poi c’è anche da capire com’è il viaggio. Nonostante il biglietto regolare, il rischio di farsi il tragitto in piedi c’è sempre. E chissenefrega se ti fa male la schiena, sei stanco o altre banalità del genere. Te lo fai in piedi. Magari nella calca. O con i rischi di multe perché nella fretta di salirci, sul treno, sperando di trovare un posto a sedere, il biglietto non l’hai obliterato e il viaggio non è regolare.

    E comunque, ogni viaggio è sempre un’incognita, non sai mai che potrebbe capitare. Per sfortunati casi non programmabili. O perché c’è sempre qualche stronzo che ti crea problemi anche durante un viaggio che all’apparenza dovrebbe svolgersi regolarmente.

    Il fatto è che ogni tanto, anziché prenderlo, quel treno, ti ci vorresti buttare sotto mentre passa. E finirla lì.

    CAPITOLO 3

    – Schatzy, piantala di farmi il solletico.

    Scherzavamo insieme sul divano, più o meno una settimana prima che accadesse tutto.

    Lui ricambiò il mio sguardo stringendo quei suoi due diamanti verdi che mi avevano fatto perdere la testa tre anni prima. – Perché? Stiefelin si diverte quando ti vede agitarti ridendo come se avessi il fuoco di Sant’Antonio, – sogghignò.

    Tre anni e ancora riusciva a farmi battere il cuore come il primo giorno. E non solo quando diceva che a me non avrebbe mai rinunciato.

    Tu si’ ‘na cosa grande pe’ mme, ‘na cosa ca me fa nnammura’, ‘na cosa ca si tu guard’a mme je me ne moro accussi’, guardanno a tte.

    Ci sono canzoni che ti fanno capire perché Domenico Modugno se lo volevano tutti.

    Tre anni. Tre anni in cui erano cambiate molte cose. Anche il mio peso. Perché ero riuscita a dimagrire. Non di molto, ma era bastato per farmi sentire un po’ bella. Una dieta ferrea da quando avevo scoperto che l’unico dolce di cui non potevo fare a meno era quel miele dato dalla tenerezza di un uomo.

    A volte mi sembrava di non sapere se quello tra Maximilian e me fosse amore. Di non saperlo tre anni prima, quando era stato un dolore, una tragedia, a farci incontrare e a farmi mettere in dubbio tutto quello che avevo tentato di cambiare nella mia vita. Di non saperlo forse neppure adesso. Perché non sapevo, a dire il vero, che cosa intendere con amore. E non sapevo se mi fosse possibile scoprirlo o ritrovarlo dai miei sogni adolescenti quando ero ormai più che quarantenne. Ma sapevo che se l’amore era fatto di dolcezza, di complicità, di sguardi che non necessitavano di parole e di parole che si confrontavano negli sguardi, di vedute diverse che trovavano sempre un punto di contatto, nonché di una passione che non pensavo potesse esistere e dalla quale ero stata forzatamente lontana troppo a lungo, allora, forse, il nostro poteva essere qualcosa che all’amore assomigliava parecchio.

    – Dunque, Schatzy, tu preferisci far divertire la gatta che ascoltare me?

    – Mi sembra ovvio, Brezelin.

    – Se non sbaglio ti ho già chiesto di non chiamarmi Brezelin.

    – La smetterò quando tu la pianterai di chiamarmi Schatzy.

    Che era come dire mai. Schatzy è un modo affettuoso per chiamare qualcuno tesoruccio, tesorino, dal termine Schatz, tesoro in tedesco. Brezel è quel pane tipico dei Paesi di lingua tedesca che ha quella forma che ricorda un cuore, con due striscioline che si intrecciano quasi come fossero braccia che si stringono. Pane di cui sono golosissima. Da qui il soprannome coniato per me da Maximilian. Che odia essere chiamato Schatzy perché ha scoperto che era il nome che avrei voluto dare al mio pappagallino, se mai ne avessi avuto uno.

    Il gioco di battute fu interrotto dallo squillo del telefono. Non avrei risposto. Ero in ferie e al mio posto l’interlocutore avrebbe trovato la segreteria telefonica. Tanto poteva essere solo qualcuno che cercava di vendere qualcosa telefonicamente o di fare un sondaggio. Di solito gli amici e i colleghi mi chiamavano sul cellulare. Che in quel momento era volutamente spento.

    Maximilian e io non passavamo insieme sotto lo stesso tetto ogni nostra giornata. Lui era sempre più impegnato con i cantieri navali che condivideva con suo padre e trascorreva intere settimane all’estero. Quell’appartamento a Milano ce l’eravamo sì preso insieme, ma per molta parte dell’anno lo occupavo da sola. No, con Stiefelin, la mia gatta. E con un enorme poster di Salisburgo, città che adoro, appeso a occupare l’intera parete davanti al divano. Dunque, quando Maximilian rientrava in Italia per lunghi periodi, la mia vita lavorativa poteva anche proseguire normalmente, come quella di una donna che ha un compagno e che non deve approfittare di solo pochi momenti per stare con lui. Ma quando tornava soltanto per qualche giorno, appena potevo chiedevo ferie o riposi. E quello era uno di questi casi. Saremmo partiti insieme per Salisburgo. Tra non più di 48 ore.

    Non sarebbe stato il telefono a rompere l’idillio.

    – Vi risponde la segreteria telefonica di Maximilian Stravinskij e Lorenza Maj. In questi giorni siamo insieme e dunque non ci siamo per nessun altro. Se proprio volete, lasciate un messaggio in dieci secondi al massimo dopo il bip, ma non sappiamo quando lo ascolteremo. Grazie.

    Al bip iniziavo il conto alla rovescia: dieci, nove..

    – Lorenza,

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