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Lo specchio delle sue brame
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E-book258 pagine3 ore

Lo specchio delle sue brame

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Info su questo ebook

Richard e Amanda sono due estranei, quarantenni con una vita tormentata. Lui è un infermiere, non molto socievole, con pochi amici e una compagna di nome Sabrina, madre divorziata. Lei spende le serate tra un locale e l’altro, perdendosi tra drink, droghe e la paura di un corpo che sta invecchiando.
I due sono a loro insaputa legati da un passato comune che ha segnato le loro esistenze e che porta il nome di Stephen e da un fatto traumatico mai confessato e dai lati oscuri. Un evento destinato a condizionare, nel corso degli anni, la vita dei protagonisti e a farli incrociare in modo imprevedibile.
Un mistero vecchio di vent’anni, un grande burattinaio, un circo itinerante e sullo sfondo il conflitto nei Balcani per riportare a galla un fatto sepolto da tempo che sconvolgerà definitivamente le vite di Amanda e Richard. Il tutto in nome di una semplice ragione: la vendetta.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2013
ISBN9788861555211
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    Anteprima del libro

    Lo specchio delle sue brame - Nicola Arcangeli

    Nicola Arcangeli

    Emanuela Tumiatti

    Lo specchio

    delle sue brame

    Copyright © 2012 Giraldi Editore

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

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    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-521-1

    Proprietà letteraria riservata

    © 2012

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ad Andrea, Claudia e Ivan

    Prefazione degli autori

    Eccoci arrivati alla fine: lo sappiamo, può sembrare strano leggere questa frase proprio all’inizio di un viaggio letterario, ma le cose stanno esattamente così. Dopo cinque mesi di fatiche, compresse inevitabilmente tra impegni di lavoro e incombenze quotidiane, siamo riusciti a completare il nostro romanzo.

    Il nostro primo romanzo.

    Sono stati mesi divertenti, in cui lentamente abbiamo visto la storia prendere forma sotto i nostri occhi e suggerirci sviluppi sorprendenti anche per noi stessi, facendoci dubitare di certe scelte. Ma soprattutto sono stati mesi in cui la convinzione non è mai venuta meno e anzi, col passare del tempo ha aumentato in noi la consapevolezza di aver realizzato qualcosa di importante.

    Ora però il giudizio passa a te, caro lettore, per cui ti confidiamo di essere in trepidante attesa che tu sfogli questa pagina e incominci il tuo cammino nelle vite di Amanda e Richard: loro non chiedono altro e, in tutta franchezza, nemmeno noi.

    Nicola Arcangeli

    Emanuela Tumiatti

    Prologo

    L’aria pungente dell’autunno balcanico soffiava decisa regalando l’unico rumore di un’alba non ancora nata. La luce delle stelle stava lentamente lasciando il posto all’azzurro del mattino, solo ad ovest le tenebre della notte regnavano ancora sovrane.

    Il vecchio, corpulento e claudicante, aprì lentamente il cancello non riuscendo tuttavia ad impedirne l’abituale cigolio.

    Era così da più di quindici anni: loro lo aspettavano. Nei primi tempi aveva provato solo un grande senso di vuoto e, ogni volta che si recava al cimitero, versava lacrime di tristezza, lacrime di rabbia.

    Poi nel tempo, sconfiggendo anche il senso di colpa, la tristezza se n’era andata lasciando spazio ad una mesta accettazione di quel terribile lutto. La rabbia però, no, non se n’era affatto andata. Era rimasta nascosta in fondo al cuore, in un nucleo duro e freddo come la pietra.

    Ormai quella periodica visita era l’unica abitudine in grado di dargli serenità. Attraverso le fessure dei suoi occhi non si poteva scorgere nulla che non fosse solo un’impressione. Vedendolo lì, al freddo, col cappello in testa e la sciarpa a coprirgli naso e bocca, quello sguardo avrebbe potuto tradire qualsiasi sensazione, dall’ilarità alla commozione, dalla pace all’inquietudine.

    Ma dentro di sé sapeva benissimo cosa provava ed aveva ben chiaro ciò che prima o poi sarebbe successo.

    I volti di un adolescente e di una donna lo guardavano dalla lapide; due piccole fotografie in bianco e nero quasi a rimarcare il tempo trascorso.

    Le iscrizioni recitavano A. Blazevic e S. Blazevic, i ricordi dicevano il figlio e la moglie da troppo tempo lontani.

    Il vecchio si avvicinò chinandosi verso i volti effigiati sulla lapide e si abbassò la sciarpa dal viso scoprendo così dei grossi baffi bianchi.

    Accarezzò i due ritratti.

    Arijan, Sonija sussurrò mentre gli occhi si facevano ancora più socchiusi.

    Non disse nient’altro. Una lacrima scese rigandogli il viso in una gelata stria di dolore.

    Ritrasse il braccio dalla lapide con una certa indecisione; quanto avrebbe voluto continuare a toccarli, ma proprio non poteva.

    Anche se le forze non erano più quelle di un uomo in buona salute, sapeva che era arrivato il momento di andarsene e non far più ritorno.

    Almeno per un po’.

    Un’ultima, stanca, cavalcata per vendicare i suoi due cari.

    Si strinse nel proprio loden blu, pesante come i ricordi del passato. Quei fugaci momenti di commozione servivano solo per rammentargli che era ancora un essere umano.

    Uscì, leggermente ingobbito, chiudendosi alle spalle il cigolante cancelletto di metallo.

    Non si voltò più e sparì nella morente notte.

    1

    Sembrava una magia. Nel buio totale dell’ambiente intorno a Richard, le gambe di lei risplendevano come un sole nell’universo. Lui non poteva fare a meno di seguirne le traiettorie, un movimento dapprima lento, quasi malinconico, poi gradualmente ritmato, infine quasi frenetico, specchio di un desiderio che non si poteva tenere a freno. L’uomo era ormai a pochi centimetri da Carmen e ben presto la coscia sinistra di lei si insinuò tra le sue gambe. Le scarpe décolleté rosse, con un fine laccetto sopra le caviglie, batterono gli alti tacchi per terra producendo un rumore secco, un clangore che squarciò quella crescente attesa culminata nel loro contatto fisico.

    Richard la osservava con gli occhi rapiti da quel movimento; la sua bocca era semiaperta in una sorta di smorfia inebetita che tradiva in pieno il senso di stupore di quell’attimo. Lui la strinse a sé con decisione e i loro corpi iniziarono ad unirsi in un tutt’uno con la musica attorno a loro.

    La Milonga del Angel li accompagnò per una manciata di minuti, tra ritmi prima crescenti poi repentinamente calanti, le note alte del pianoforte, l’accompagnamento degli archi e un flauto ad indicare la strada maestra di quella melodia. Le gambe di lei seguivano con sensualità ogni movimento del compagno in un rincorrersi quasi erotico che rapì totalmente i sensi di Richard.

    Il cuore gli batteva all’impazzata, mentre la musica lo portava in una dimensione onirica scandita da un susseguirsi di cambi di dinamica dal pianissimo, quasi sussurrato lamento di un violoncello a un fortissimo crescendo di archi e piano accompagnati, quasi presi per mano, da un flauto che precedeva gli altri strumenti in quel canone impazzito.

    Come un orgasmo.

    La musica andò presto in un diminuendo progressivo, lieve e sempre più silenzioso, fino a cessare del tutto. Divenne buio per pochi istanti, poi lentamente le luci si accesero attorno a Richard, mostrandogli d’innanzi lo schermo su cui iniziavano a scorrere i titoli di coda.

    La sala era desolatamente vuota, fatta eccezione per due anziane signore cinque file più indietro, spostate sulla destra. Rick raccolse il proprio soprabito e si avviò verso l’uscita, pensando che saper eseguire balli così sensuali come il Tango e la Milonga, magari l’avrebbe potuto condurre dentro quel film, in quel mondo di nitrato d’argento, dove le emozioni che si provano solo come spettatore terzo, possono diventare proprie. Invidiò parecchio Sebastian Avellaneda, l’attore: avrebbe voluto essere lui Sebastian Avellaneda e avere Carmen Negredo tra le proprie braccia.

    Appena arrivato in strada, venne colto da un brivido di freddo. Non aveva idea di quanto ciò dipendesse da una sua impressione o fosse frutto di una condizione oggettiva, tuttavia si sentiva le ossa tremare tanto che per qualche istante fu incapace di muoversi. Richard aveva ancora impressi nella mente e nel corpo i suoni caldi e avvolgenti del film appena visto e il calore confortante, seppure un po’ stantio, della sua poltrona in sala e delle grosse tende amaranto nei pressi delle uscite.

    Era stata una giornata pesante, i turni all’ospedale nell’ultimo periodo erano diventati quasi insostenibili. A volte gli capitava il turno doppio, che accettava di buon grado, se non altro per arrotondare uno stipendio troppo esiguo per definirsi tale: era più che altro un’elemosina che non valeva nemmeno come indennizzo per tutta la sofferenza con cui un mestiere come il suo lo costringeva a vivere. In tutto questo quadro di miseria e precarietà riusciva comunque a vedere il bicchiere mezzo pieno; a volte aveva i pomeriggi liberi con tanto di biglietto ridotto al cinema, in altre circostanze poteva gustarsi la città con calma, al di fuori degli orari di punta e in alcuni frangenti si sentiva quasi un uomo libero, già... quasi.

    Inoltre il lavoro di infermiere riusciva, seppur raramente, a regalargli qualche sorriso. Capitava quando poteva toccare con mano la bontà del suo operato e vedere alleviate le sofferenze dei malati. In oncologia geriatrica tutto quello che vedi quasi sempre termina con la morte, ma Richard credeva che, per quanto fosse vero che la strada era comunque segnata, beh, quelle povere persone avrebbero avuto almeno diritto al miglior trattamento possibile per affrontare il loro miglio verde di sofferenza.

    Quella sera non avrebbe visto Sabrina, la sua compagna: Richard si era infatti già accordato con un paio di colleghi per vedersi di fronte a una pinta di birra e fare due chiacchiere all’Outback, un pub non troppo lontano da casa. Uno di quei posti sempre affollati in cui il frastuono causato dal vociare e dallo sghignazzare copriva senza alcuna fatica i suoi lunghi silenzi. La storia con Sabrina gli pareva arrivata ad un binario morto, erano già quattro anni che si frequentavano e che lui cercava di fare da padre al figlio della donna, Niccolò. Il bimbo aveva sei anni, praticamente l’unico uomo con cui avesse mai visto la madre era Rick, ma nonostante ciò tra i due non era mai scattato nulla di buono. Il piccolo Nicco, dopo quattro anni, continuava ancora a nascondersi dietro la gonna della madre ad ogni visita di Richard e d’altro canto lui non sapeva essere veramente spontaneo verso quel figlio non suo.

    Dopo un paio d’anni di frequentazione, una sera a cena, Richard regalò a Sabrina un anello con un piccolo diamante; in realtà il diamante era minuscolo, tanto che la donna in un primo momento non l’aveva neppure notato. Tutta la scena fu a dir poco imbarazzante con lei intenta a scusarsi per la gaffe e lui umiliato, incapace di proferire una sola parola dopo ciò che era accaduto, rinunciando così a renderla partecipe del suo desiderio di avere un figlio con lei. L’argomento morì lì, senza nemmeno essere nato, un’intenzione abortita a causa della permalosità e dell’indolenza dell’uomo, anche se lui temeva che i reali motivi andassero ricercati nell’inconsistenza del loro rapporto, nella mancanza di spinta e di comunicazione che avevano reso la loro relazione un’apatica consuetudine.

    Mentre Richard camminava sotto i portici vedeva tante coppie, giovani e mature, insieme, affiatate; un mondo così distante da lui e Sabrina, sempre trafelati e inevitabilmente distaccati anche quando erano insieme. Un paio di vecchietti attirarono la sua attenzione, avevano circa una novantina d’anni e i loro movimenti erano lenti ed incerti. Li seguì con lo sguardo per un po’, osservandoli attentamente, notandoli mentre si tenevano per mano e affrontavano con timore una breve scalinata. Lentamente superarono quell’ostacolo e divennero sempre più piccoli e sempre più uniti agli occhi di Rick, quasi rapito dalla lentezza ma anche dall’inarrestabilità di quell’insicuro claudicare.

    Salvatore era il leader incontrastato del terzetto, il classico scapolone ultraquarantenne, un fisico massiccio come un wrestler, una faccia di bronzo senza eguali e sboccato come uno scaricatore di porto (anche se a voler essere sincero Richard era convinto che le parole più turpi si sentissero sugli autobus, sedendosi in fondo, vicino a quei gruppi di scolarette dai sorrisi così innocenti e dalle lingue così lorde). Una sua caratteristica era quella di infarcire i propri epiteti con aggettivi quanto mai improbabili. Quella sera in particolare Tore era scatenato, parlava di tutto ciò che gli veniva in mente, condendolo con gli immancabili cazzo, porca troia, puttana, merda e chi più ne ha più ne metta. Saltava di palo in frasca con una disinvoltura sconcertante, lasciando a Richard e Renato solo brandelli di tempo nella discussione, il minimo sindacale giusto per poter abbozzare un Ah!, Sì!, Ma va? e poco altro.

    Renato era un tipo tranquillo, fresco sposo, molto innamorato. Spesso in passato si era fatto trascinare da Tore nelle sue avventure, però col matrimonio le cose si erano notevolmente normalizzate e in quell’ultimo periodo Richard aveva trovato in lui un valido interlocutore ed un buon amico. Erano molto più affini lui e Renato piuttosto che uno qualunque di loro con Salvatore.

    Ma vi rendete conto, cazzo? tuonò il corpulento Tore seduto su una sedia talmente piccola che solo una natica poteva appoggiarvisi sopra. Poi continuò: Era dal 1971 che erano insieme... quarant’anni. E adesso, cosa fa ’sto vecchio monolitico stronzo, lascia tutto e se ne va, ma vi pare?

    Richard e Renato lo guardarono un po’ smarriti, senza capire perfettamente il senso della frase appena pronunciata dall’amico.

    Forse si era stancato, nei rapporti le cose vanno così, rispose Rick, anche se ad essere sinceri, dopo tanti anni...

    Ma non ha senso, riattaccò Salvatore, in equilibrio sempre più precario, quasi riverso sul tavolino tondo a tre gambe a cui erano seduti, dopo una vita insieme, capite, una vita! E cosa va a fare adesso quel vecchio, chi se lo fuma ormai?

    Che ci vuoi fare, replicò vagamente Renato, incerto su cosa dire, poi azzardò: Forse non si amavano più.

    L’espressione di Tore si fece improvvisamente basita e sorpresa: tutto durò solo alcuni centesimi di secondo e nel giro di pochi istanti Salvatore stava già girando su se stesso e scivolando sul pavimento. La sedia dell’uomo era schizzata un paio di metri sulla destra e il tavolino, birre comprese, era andato repentinamente a far conoscenza con le mattonelle del pavimento. Una conoscenza che anche il corpulento wrestler chiacchierone avrebbe, nel giro di un batter di ciglia, vantato nel suo palmares.

    Il tonfo fu fragoroso.

    Porca troiaaaaaaa urlò sguaiatamente Tore, totalmente disteso sul pavimento tutto bagnato di birra e sporco di briciole di patatine e snack vari.

    Richard e Renato non seppero cosa dire, poi scoppiarono a ridere, con il loro amico in posizione supina e l’aria dolorante come uno che l’ha preso in quel posto da un bisonte. Un fottuto bisonte. Anzi, un fottente bisonte.

    Ma che? Ma che cazzo ridete, coglioni, aiutatemi! sbraitò Salvatore.

    Tore, sei uno spettacolo, dovresti vederti disse Renato, poi rivolgendosi a Richard: Questa me la segno, e chi se la scorda ’sta scena?

    Ridete, ridete pure, sapidi minchioni protestò mister ‘una giravolta e mezzo’ alzandosi e guardando gli effetti che quella caduta disastrosa sul pavimento aveva causato ai suoi abiti, poi imprecò: Merda, non ci credo! Questa è merda! Tore si stava annusando la manica destra della giacca.

    Renato e Rick si guardarono sorpresi, poi scoppiarono in una risata ancora più divertita.

    Salvatore era paonazzo e disorientato, poi, ignorando i suoi due amici, si diresse verso il bancone del pub ed incominciò a bestemmiare all’indirizzo del barista: Questa cazzo di giacca l’ho pagata ottocento euro e adesso puzza di merda, di merda che è nel tuo locale di merda, hai capito?

    Il barista, intimorito dalla stazza e dalla ferocia con cui veniva ingiuriato da Tore, abbozzò un poco convincente Non sono io il proprietario.

    E chi cazzo se ne frega se non sei tu il proprietario, chiamamelo e digli che non me ne vado da qui prima di avergliene cantate due. Avete dei seggiolini di merda, non ci si riesce nemmeno a stare sopra, sembrano degli sgabelli per nani, se non sto attento mi entrano pure nel culo.

    Signore! disse con solerzia un uomo, probabilmente il proprietario, avvicinandosi a Tore, di fianco a Richard e Renato. Non si preoccupi, penso a tutto io, mi vuol lasciare la giacca? Ci pensiamo noi a fargliela avere pulita.

    E tu chi sei, sei il capoccia? domandò furioso mister ‘cado nella merda’, poi continuò: Il vostro locale è uno schifo, tavolini di merda... piccoli, instabili, indecenti. Nemmeno nei campeggi rom hanno dello sterco come il vostro. L’ultima volta che ho visto dei tavolini così è stato a Parigi in un fottuto bistrot. Sono tavolini da uno! Si va lì, con un maledetto libro, ci si siede, si prende un caffè e si legge. Non si mettono tre persone in quel coso lì, vaffanculo!

    La prego, sono costretto a chiederle di seguirmi fuori disse seccato l’ex aspirante paciere.

    Ah, vogliamo metterla in rissa? Fottiti mantecato pezzo di guano, ti distruggo. La voce di Salvatore rimbombò minacciosa nel locale che si era improvvisamente ammutolito. Richard assunse allora l’iniziativa e prese Tore per il braccio sinistro trascinandolo verso l’uscita dell’Outback.

    È il gestore, si chiama Taddeo Belmonte se non sbaglio, disse Renato mentre i tre uscivano dal pub, poi proseguì, lo conosco perché abita non lontano da casa mia, ogni tanto lo vedo dal tabaccaio o in qualche altro negozio.

    Taddeo? Che nome da stronzo! sentenziò Salvatore lasciando che la porta dietro di sé si chiudesse e li conducesse fuori da quella bolgia puzzolente.

    Passò un minuto di relativa e taciturna calma durante il quale los tres amigos cercarono di smaltire chi i fumi dell’alcool, chi l’arrabbiatura e chi il senso di calore insopportabile patito in quel buco di pub.

    Beh, non solo il nome è da stronzo, abbozzò Renato interrompendo il silenzio, pensa che se ne va in giro con una Mercedes, ma non di quelle belle nuove che girano ormai dappertutto; va in giro con un catorcio che sembra più un taxi sgangherato della Beirut anni Settanta piuttosto che una macchina come Dio comanda.

    I tre fecero alcuni passi, poi Salvatore si girò con aria mefistofelica verso Renato e chiese: È quella?

    Richard alzò lo sguardo e vide una vecchia Mercedes gialla parcheggiata pochi metri più avanti. Non facciamo stronzate ragazzi disse. Renato gli fece eco: No dài Tore, sa chi siamo, non possiamo.

    Cazzate, mi prendo io la briga e la responsabilità disse con determinazione mister ‘manica immerdata’. Alzò la gamba sinistra e assestò un calcio secco allo specchietto laterale destro della macchina blaterando Te la do io la Merdeces, aristocratica testa di cazzo. Lo specchietto cadde un metro più avanti, completamente divelto dall’automobile, frantumandosi.

    Richard e Renato si erano allontanati velocemente tanto che Tore si dovette affrettare per raggiungerli: Se l’è meritata borbottò indispettito. I due amici lo guardarono continuando a camminare spediti, poi lui aggiunse: Che giornata di merda, scusatemi ragazzi, ma oggi è stata una giornata allucinante: da quando ho saputo che Paul Cotton ha lasciato i Poco dopo quarant’anni, tutto ha cominciato a girare sempre più storto.

    Rick guardò l’altro amico, quello sano di mente: i loro occhi si incrociarono per qualche istante e ognuno poté vedere stupore e incredulità nello sguardo dell’altro. Tutta quella sceneggiata per un semi-sconosciuto gruppo country rock che negli ultimi trent’anni aveva fatto sì e no quattro album? Un manipolo di dinosauri sfiatati?

    Richard salutò gli amici e si diresse verso casa; aveva la viva sensazione di aver sprecato un’altra sera. La sua vita ormai era come il pane azzimo, senza gusto, senza sale, senza spessore, mentre lui avrebbe tanto voluto essere una millefoglie di

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