Il soffiatore di suoni e l'uomo dei sogni
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Anteprima del libro
Il soffiatore di suoni e l'uomo dei sogni - Alberico Martin
Youcanprint.it
IL SOFFIATORE DI SUONI E L’UOMO DEI SOGNI
A NEW YORK
PROLOGO
Quando i telegiornali di tutto il mondo mostrarono via satellite le immagini del cadavere del famoso pittore Duccio Treviri nel suo studio, con le vene tagliate e una tela bianca sporca del suo sangue, si pensò all'ennesimo suicidio del genio corroso dal suo talento, si pianse la grande perdita subita dal mondo dell'arte e gli venne tributato un solenne funerale e grandi onori. Grande fu quindi lo sgomento quando tempo dopo si sparse la notizia di una voce peraltro mai confermata sull’esistenza all’interno del testamento di una vecchia busta sigillata contenente un documento autografo in cui Treviri confessava che tutte le opere firmate con l'ormai celebre pseudonimo Filadelfo
non erano farina del suo sacco ma appartenevano a un certo Edward Namur di cui nessuno fino allora aveva mai sentito parlare. Come sempre ci fu chi sosteneva che sospettava tutto fin dall'inizio e chi invece sosteneva il testamento trattarsi di un falso, uscirono innumerevoli sedicenti Namur, si scatenarono violenti dibattiti e le più accese fantasie. La signora Treviri mise tutti a tacere sostenendo che nella busta sigillata che le aveva consegnato il notaio non c’era niente d’importante, solo lettere personali. Restava il fatto che il quadro Bambina con cane era l’unico quadro conosciuto di Namur e anche se era firmato Filadelfo
era completamente diverso da tutti gli altri. La verità era che dietro lo pseudonimo Filadelfo
il nome Namur era un vero e proprio punto interrogativo. Di lui ci resta solo quest’opera essendo egli svanito nel nulla. Non si sa se esiste veramente e se sia vivo o morto. La sua vita rimane tuttora un mistero assoluto.
PARTE PRIMA
FILADELFO
1
Il locale era invaso dal fumo, l’aria sapeva di chiuso.
Il suono non usciva.
Si mise a sedere, stanco.
Il sax dondolava inerte appeso al cinturino.
La sala venne avvolta dal silenzio.
Un silenzio pesante.
Poi la decisione.
– Okay. È finita.
Il suono non usciva.
– Che farai, ora?
Non usciva più.
– Non lo so.
2
Era lì, appoggiato ad un lampione di una delle tante vie di una squallida periferia a fissare il marciapiede di fronte, gli occhi appesantiti inquadravano a fatica il sudiciume intorno a lui. La strada era deserta, ogni cosa immobile. Il cielo si schiariva lentamente in una pallida alba che presagiva un mattino freddo e umido. Il tanfo insopportabile invadeva l'atmosfera che andava timidamente animandosi, i primi mattinieri si avviavano alle subway per andare al lavoro, in fabbrica o al porto. Si era acceso una sigaretta e aspirava il fumo a lente boccate, immerso nei suoi pensieri. Aveva sempre pensato che il fuoco sacro che lo consumava potesse eruttare in una sfavillante e irresistibile energia musicale che lo avrebbe fatto diventare una stella del Jazz, ma ora doveva riconoscere il suo fallimento, che era un musicista mediocre, se non proprio scarso. La musica non era riuscita a elevarlo socialmente e tanto meno a liberarlo dal fardello dell'esistenza che anzi si faceva sempre più gravoso. Era tempo di cambiare strada. Richiuse la custodia del suo sax per non riaprirla più e si avviò con lo strumento al più vicino banco di pegni.
Odisseo era stanco, e sarebbe tornato a casa.
3
Quest’opera è stata fatta da un mio caro amico, il pittore Edward Namur. Per tutta la vita esplorò come un cavaliere errante tutti i meandri dell’arte con l’illusione di inseguire l’impossibile con tenacia, persino con coraggio, perché in cuor suo sapeva che la sua era una strada che portava a niente, che quello che cercava si era perso all’interno di se stesso.
Un’enigmatica dedica di quattro righe scritte da Treviri a presentare il suo amico. Questo era tutto ciò che era scritto sulla brochure della mostra e sul catalogo. Suonava come un epitaffio. Il catalogo era praticamente inutile per chi conosceva l’arte di Treviri essendo la mostra formata dai suoi vecchi cavalli di battaglia, tutta roba già vista e rivista, tranne questo strano quadro di tale Namur di cui nessuno aveva sentito mai parlare e sembrava fosse lì solo per rispettare le ultime volontà del pittore scomparso in circostanze tanto tragiche.
Logan accompagnò la sua amica al museo controvoglia. Avrebbe preferito di gran lunga un buon ristorante seguito da un buon cinema, ma sapete come sono fatte le donne. Lei voleva vedere prima delle sue amiche il famoso quadro misterioso
e non c’era stato verso di farle cambiare idea. – Mio caro, ma qui si tratta dell’ultima opera di Filadelfo! E pare che non sia nemmeno sua e forse neanche le altre. Non possiamo assolutamente perderla, per niente al mondo.
Non era un intellettuale, era un musicista istintivo e non si era mai interessato alla pittura, o alla scultura, o altro: per lui esisteva solo la musica. Fin da bambino, quando vivevano ad Harlem e sua madre lo portava in chiesa perché, diceva, un bambino può anche essere senza padre, ma non senza Dio, e quel giorno vide quella bambina cantare quel gospel, O come all ye faithful. La bambina non la rivide più, la musica rimase. E qualche anno dopo, quando ancora minorenne riuscì a intrufolarsi al Three Deuces sulla 52a per ascoltare quella nuova musica che chiamavano bebop, e riuscì a vedere per la prima volta Bird e Dizzy per quasi un intero set, prima che lo scoprissero e lo buttassero fuori. Bird era morto da tempo, sembrava fossero passati mille anni. L’arte contemporanea poi, lo lasciava del tutto indifferente, si chiedeva in realtà cosa fosse esattamente. Si poteva considerare un artista un tipo che esponeva una tazza del cesso o una pila di detersivi, o quell’altro che appendeva al muro una scatola di fagioli o una tela sgarrata? I musei poi gli mettevano tristezza e per giunta aveva già visto la foto del quadro sui giornali e gli era parso, con rispetto parlando, una gigantesca stronzata. Una roba tremenda, di quelle che si vedono in quei posti tipo la sala d’aspetto di un dentista, un motel da camionisti o alberghi a ore. Faceva pensare all’ennesima trovata di critico o gallerista radical-chic, messa su a convincere qualche attore del cinema o qualche milionario con abbastanza soldi da buttare a mettersi in casa una roba rifilata come un’opera d’arte ma che era in grado di disegnare perfino sua zia. Questi critici e galleristi, erano come broker di Wall Street a piazzare sul mercato azioni di burro di arachidi o di succo d’arancia. La verità era che l’arte era in mano a un branco di finocchi, con rispetto parlando. Un’altra verità era che Logan non aveva zie.
Si avviarono alla sala. Logan la osservava in pompa magna, tailleur e tacchi, secondo le regole del bon-ton tra la gente pigiata in fila come soldatini a guardare a turni di venti secondi la tela affissa alla parete come fossero al capezzale di una veglia funebre, chiedendosi ancora cosa stesse facendo lì. Faceva fatica a seguire le regole della musica, trovando in Charlie Parker prima, in Monk e Ornette Coleman poi i suoi idoli. Gente che aveva trovato il modo di passarci attraverso le regole o di inventarne di nuove, senza inciamparci sopra. Per il resto era sregolato in tutto, anche quel giorno sembrava che avesse passato la notte sui vestiti. Ataviche patacche cerchiavano la camicia non stirata, i jeans gli cadevano sulle gambe come una tenda sgualcita, piegandosi a fisarmonica con buchi e sfilacciature all’altezza dei piedi. Fecero pazientemente la coda con gli altri, fin quando arrivò il loro turno. Lei si mise davanti tutta impettita, ben decisa a prendersi tutto il tempo che ci voleva ad ascoltare quella specie di telefono premuto sull’orecchio, che in non meno di cinque lingue dovrebbe darti chissà quali spiegazioni. Era una impegnata. Di quelle che, quando si trattava di un qualche argomento elaborato, annuivano diligenti, assumendo una posa attenta e serrando le labbra avanti, a culo di gallina. Logan la guardava incantato e allo stesso tempo stupito da tanta ottusa demenza, dando al contempo un’occhiata preoccupata alla gente in coda, pigiata e innervosita che aspettava stizzita che la madama si levasse dalle scatole, lei e il suo telefono, per avere il loro turno e i loro venti secondi di cultura. Rifletteva sul perché tutti quanti avessero tanto bisogno di farsi spiegare
un’opera d’arte da un critico o da un qualche erudito del cavolo. Come se le più intime emozioni per uscire dall’inconscio avessero bisogno del libretto delle istruzioni, come per montare un mobile fai-da-te o norme da osservare in aereo in caso di incidente. Quando ascoltò la bambina cantare O come all ye faithful, o Bird e Diz suonare Ko Ko, non aveva certo avuto bisogno di qualcuno che gli spiegasse cosa stesse succedendo. Era musica, e basta. E allora perché non dovrebbe essere lo stesso per la pittura? Perché non dovrebbe parlare da sola?
Questo pensava, volgendo lo sguardo distratto sulle figure indistinte dei visitatori della sala. Poi i pensieri si dissolsero e quando vide per la prima volta la bambina col cane guardarlo con i loro occhi innocenti e pieni di malinconia dall’interno di una tela di tale Edward Namur, il vero e solo Filadelfo
, fu uno shock: il quadro era lì davanti e il vederlo dal vivo a meno di due metri irradiava una luce nuova.
Ebbe una sensazione di profonda pena e di vuoto assoluto.
Non c’era nessuno che potesse spiegargliene il fascino. Era allo stesso tempo semplice e profondo, come se fosse stato dipinto da un poeta con la mano di un bambino. Cosa avesse voluto dire al mondo con questo dipinto, questo pittore di cui non si sapeva nulla e quelle poche notizie lo davano per alcolizzato, pazzo e deficiente, rimaneva un enigma. Correvano voci peraltro mai confermate che ebbe una profonda depressione in seguito a una pena d’amore e che si era ridotto a vivere come un barbone. Non c’erano praticamente tracce della sua vita, niente. Ora comunque Logan ebbe la conferma che le voci che aveva sentito dire e che sembravano l’ennesima trovata pubblicitaria erano vere. Il dipinto dal vivo emanava una luce oscura, una strana magia che qualsiasi riproduzione fotografica, per quanto perfetta fosse, non riusciva a fissare – anzi lo rendeva di una banalità assoluta, semplicemente ridicolo. Come cercare di fotografare un fantasma e dentro la camera oscura trovare impressa una stanza vuota.
Alla fine al ristorante ci andarono. La formalità della cena fu sbrigata tra scambi di sorrisini e cordiali banalità di circostanza per riempire imbarazzati silenzi. Si prendevano le mani e si guardavano negli occhi in attesa di una qualche scintilla che non esisteva. Aveva preso quell’appuntamento per giustificare a se stesso il fatto di averci comunque provato a farlo, il tentativo, ma in cuor suo già sapendo in anticipo che non avrebbe funzionato. Ora non vedeva l’ora di chiudere la messinscena e di tornarsene a casa da solo con i suoi fantasmi. In verità, senza rendersene conto o forse in mancanza di argomenti mentre guardava distratto le pareti del ristorante, stava rimuginando sul dipinto del pomeriggio e sul come fosse stata l’unica scossa della giornata, che per il resto si era rivelata come al solito. Chiese il conto.
A casa andò in bagno a sciacquarsi la faccia. Mentre si asciugava vide allo specchio tra la condensa un uomo che guardava al futuro con rassegnazione. La depressione nel corso degli anni si era impadronita di lui e la sua storia non differiva poi da quelle di tanti altri. Sentiva che si stava lasciando andare. Per dimenticare il presente, sempre più spesso si rifugiava nel passato, a cercare frammenti di ricordi rimasti incastrati tra i solchi di vecchi dischi. In cucina i piatti sporchi si accumulavano giorno dopo giorno fin tanto che la gravità lo consentiva. Striature di verde e di nero di polvere di muffa facevano capolino, l’odore di rancido pure, fin quando non ebbe l’idea tanto semplice quanto geniale di passare ai piatti di carta. Diffidava da chiunque gli sorrideva, nella vita aveva imparato che le porte si chiudono sempre con un sorriso. L’aria cordiale, l’inaspettata familiarità, la premura di sapere come stavi, la famiglia, se era tutto a posto per dirti che sì, sei sempre il migliore, hai tutta la stima