Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L' ombra del predicatore: Le indagini dell'intendente Navarra
L' ombra del predicatore: Le indagini dell'intendente Navarra
L' ombra del predicatore: Le indagini dell'intendente Navarra
E-book313 pagine4 ore

L' ombra del predicatore: Le indagini dell'intendente Navarra

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dopo il Costa Rica, dove è stato coinvolto nel caso del “Patto dei Gentiluomini”, l’intendente Navarra torna in Nicaragua. Ad attenderlo, la notizia di essere stato assegnato al piccolo distaccamento di polizia di Granada. I giorni nella cittadina turistica scorrono tranquilli e quasi insignificanti, finché la scomparsa di Maricruz, una ragazza quindicenne, agita improvvisamente le acque. Sulle prime si pensa a una fuga d’amore, ma l’omicidio della madre di Maricruz scompiglia le carte.
Nel frattempo Rosa, una ragazza sequestrata e costretta a lavorare in un bordello gestito dai narcos in una località del Messico, riesce a fuggire e, dopo un viaggio rocambolesco, raggiunge Granada.
Le indagini, intanto, si concentrano sul predicatore della chiesa evangelica frequentata da Maricruz e dalla madre, Agustín Pacas. Un uomo dalla personalità magnetica e dal passato oscuro. I sospetti contro Pacas trovano fondamento nell’accusa del suo assistente, Kendall Arana, finché anche questi non viene trovato morto. E di nuovo la soluzione del caso si allontana e le speranze di trovare Maricruz viva si riducono.
Come sempre, attraverso le indagini dell’intendente Navarra Campisi ci racconta pezzi di storia del Centroamerica, di una società piena di contraddizioni dove ricchezza e povertà, bene e male si scontrano in una epica, serrata lotta quotidiana.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2016
ISBN9788868992668
L' ombra del predicatore: Le indagini dell'intendente Navarra
Autore

Maurizio Campisi

Maurizio Campisi (Rivoli, 1962) è stato collaboratore e corrispondente di varie riviste italiane ed estere (Diario, Narcomafie, D di Repubblica, Peacereporter, La Juventud di Montevideo, Liberación e altre). Free lance, attualmente è corrispondente dall’America Centrale per la Radio Televisione Svizzera e per la appzine L’Indro. Ha pubblicato due libri, Centroamerica. Reportages e Sandino. Il generale degli uomini liberi (entrambi per Fratelli Frilli Editori, Genova), e l’e-book Pelle di Serpente, lo sfruttamento infinito delle risorse dell’America Latina (Editorial Intangible, Valencia), pubblicato anche in spagnolo e in edizione cartacea per Marcovalerio, Torino. Vive in Costa Rica.

Correlato a L' ombra del predicatore

Titoli di questa serie (3)

Visualizza altri

Ebook correlati

Poliziesco per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L' ombra del predicatore

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L' ombra del predicatore - Maurizio Campisi

    Prima parte

    L’auto si era fermata improvvisamente e, nel bagagliaio, la ragazza sobbalzò impaurita. Cieca, nell’oscurità più completa, prigioniera nel ventre metallico che puzzava di gas di scarico e immondizia, provò a concentrarsi sull’udito, l’unico senso a cui poteva affidarsi. Ascoltò il rollio monotono del motore in folle, che le giungeva sommesso. Forse li avevano intercettati. Forse avevano scoperto la sua fuga. Venne presa dal panico.

    Cercò di farsi forza, di respirare profondamente e di non pensare all’oscurità che la circondava ma a una spiaggia assolata, all’intero universo inondato di luce, a un mondo differente dove non fosse costretta a scappare nascosta in un portabagagli. Trattenne il fiato per sentire i rumori che provenivano dall’esterno, ma riusciva a percepire solo il lugubre ululato del vento nel deserto.

    L’auto riprese la marcia, arrancò per alcuni metri e, finiti i sobbalzi, lei si rese conto che erano passati dalla strada sterrata all’asfalto. Almeno quello era un sollievo. Per chilometri era stata sbatacchiata da una parte all’altra del baule, al punto che era stata costretta a proteggersi il viso e il capo con le braccia. In seguito a quei movimenti bruschi, i gomiti e i polsi le dolevano. Fece per stirarsi, per trovare una posizione migliore, ma malgrado gli sforzi i suoi movimenti erano limitati, tanto meno poteva allungare le gambe. Non si era immaginata che un bagagliaio potesse essere così piccolo.

    Vi fu un’altra sosta prolungata e, nell’attesa, le giunse chiaro un suono che prese come un presagio di buona fortuna: il timbro argentino di una campana. Doveva esserci una chiesa nei pressi. Ascoltò ammaliata i rintocchi, quel suono straordinariamente cristallino, come di un carillon, insolito e affascinante in quella situazione. Finché la campana si zittì. Poi, l’auto riprese il suo cammino, questa volta docile e regolare sull’asfalto di una strada sconosciuta.

    1

    Gli avevano procurato un piccolo appartamento al secondo piano di una casetta con vista sul lago. Due camere, un bagno e una terrazza ad angolo che dava da un lato sulla Calle El Caimito e, dall’altro, sulle calme acque del Cocibolca. Uno spazio ristretto, soffocante quando il sole si infiammava, ma sufficiente per soddisfare alle sue poche necessità: dormire, guardare un film alla tivù, prepararsi qualcosa da mangiare se ne aveva voglia. A Navarra piaceva la sera abbandonarsi sulla sdraio in terrazzo, a godersi la brezza vespertina osservando le luci delle barche dei pescatori che tardavano sul lago mentre il vento gli portava discorsi spezzati dei passanti che sostavano sul Malecón. Ci aveva fatto l’abitudine appena arrivato a Granada, dove era stato inviato dopo che gli era stato detto che a Managua, al Palacio, non c’era più posto per lui.

    Sulle prime si era infuriato. Non gli andava di lasciare Managua per dirigere la squadra investigativa di una città di provincia. Lo volevano degradare, lasciarlo fuori dai giochi, dichiararlo indesiderato. Poi, i discorsi dei superiori, le conversazioni molli nei tardi pomeriggi con i colleghi, gli avevano fatto vedere la cosa sotto un altro aspetto. Non era un castigo, tanto meno una punizione. Andava a dirigere una squadra investigativa, era pur sempre un onore. Che gli desse lui, quindi, il significato che preferiva. Per la maggior parte dei colleghi del Palacio Navarra era un uomo fortunato, perché con quell’incarico si toglieva di dosso tutta la merda di una città caotica, con i suoi giochi di potere, la pressione di una criminalità sempre più organizzata, la politica collusa. Che voleva di meglio? Granada era una località turistica, dove al massimo avrebbe dovuto occuparsi di furti ai villeggianti e di retate di giocatori d’azzardo e prostitute.

    Poi, se gli fosse venuta nostalgia di Managua, delle bistecche al sangue del russo o del caffè nero di Neco, avrebbe sempre potuto prendere la macchina e mezzora dopo trovarsi dove voleva. La strada da Granada alla capitale era dritta, veloce, in buono stato e senza ombra di traffico, almeno fino a Masaya. Non lo avevano spedito né nelle paludi della Mosquitia, dove per investigare avrebbe dovuto pagaiare, né tra le montagne dell’Ocotal, dove avrebbe incontrato solo strade polverose e il silenzio dell’omertà. Non aveva perciò di che lamentarsi.

    I colleghi avevano avuto ragione. Nei quattro mesi dacché aveva assunto l’incarico, Navarra si era trovato ad affrontare sette furti di portafogli e documenti a turisti (quattro statunitensi, due britannici, un italiano), cinque casi di aggressione domestica (quattro donne picchiate dal marito e un uomo randellato dalla moglie), un sequestro di droga e una truffa. Niente di che, ma soprattutto niente che meritasse la sua attenzione e meno ancora la sua esperienza. Si era limitato ad assegnare le indagini ai suoi subalterni e a chiederne gli sviluppi durante le riunioni settimanali. Per il resto, aveva avuto tutto il tempo di eleggere suo quartier generale un baretto di Calle El Caimito e di fare lunghe passeggiate per il centro della città, dove si trovavano l’animata piazza della Cattedrale e la Calzada, l’arteria pedonale che scendeva pigra verso il lago. Aveva imparato dove cercare l’ombra e a trovare ricovero nelle vie prospicienti, fuori dagli itinerari turistici, che gli avevano dato modo di conoscere la città, i suoi anfratti e i suoi personaggi.

    La vita a Granada si era da subito rivelata lenta e placida. Il sole batteva inesorabile sulle strade polverose e sulle tegole rosse dei tetti delle case coloniali. Dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio non c’era tregua, e per affrontare il calore, spesso insopportabile, Navarra doveva ricorrere a forti dosi di gin tonic all’ombra degli alberi di guava e di limone nel cortile del bar del Mocho Pizarro. Era quello il suo quartiere generale, un giardino nascosto ai più che combinava due pregi: la riservatezza e la qualità dei prodotti che si servivano.

    Il Mocho era un uomo dalla carnagione scura e folti baffi che, giunto alla soglia della cinquantina, tendeva alla pinguedine, complici: epiche mangiate di chicharrones di maiale innaffiate da colossali dosi di birra Toña. Privo dell’indice della mano sinistra, doveva il soprannome proprio alla mancanza di quel dito, un’amputazione che nascondeva una storia peculiare. Si narrava infatti che il Mocho se lo fosse reciso lui stesso con un preciso colpo di machete una sera, al culmine di una discussione con alcuni avventori del bar. Era stata la maniera di riappropriarsi del suo onore, infangato dalla moglie che lo aveva prima tradito e poi abbandonato per un altro uomo, con il quale era fuggita all’estero per rifarsi una vita. L’amputazione era stata una maniera di gridare la frustrazione per non poter vendicare l’affronto, ma anche un castigo per la dabbenaggine di non aver saputo controllare la propria donna. Infine, quel gesto estremo era servito a riabilitarlo agli occhi della comunità, che da allora si era ben guardata dal dargli del cornuto o dal fare commenti salaci al riguardo. Il Mocho Pizarro era un macho a tutti gli effetti, che aveva dovuto affrontare una disavventura coniugale e che l’aveva risolta come fanno i veri uomini.

    Navarra era stato ammesso nel ristretto gruppo di avventori – il Mocho Pizarro riservava l’ingresso solo a una compagnia selezionata, tanto che la porta del bar rimaneva permanentemente chiusa e i clienti venivano prima scrutati da una finestrella intagliata nel legno dell’uscio – grazie alla raccomandazione del comisionado del posto, il maggiore Pinilla, che aveva visto nel nuovo arrivato dalla capitale un perfetto compagno di pláticas, le imbelli chiacchierate pomeridiane forbite di chincaglierie verbali dalla poca essenza, con cui affrontare i lunghi pomeriggi sotto l’ombra dei limoni. Il maggiore, prossimo alla pensione, era costantemente alla ricerca di persone a cui raccontare aneddoti della sua vita, un’esistenza che era stata piena in gioventù e che si era svuotata di contenuti con il passare degli anni e l’incremento dell’adipe. Estroverso, con la camicia sempre aperta a esibire il petto villoso, le mani adorne di pesanti anelli con pietre preziose, il maggiore Pinilla era sandinista da tutta la vita. Nemmeno gli ultimi, discussi avvenimenti che di rivoluzionario avevano ben poco ne avevano scalfito la fede politica.

    «Meglio Daniel che un porco qualsiasi della feccia di Somoza» era solito ripetere a chi gli chiedesse spiegazioni sulle decisioni poco radicali e dal sapore conservatore adottate dal suo partito. Navarra era scettico sugli inutili favori alla chiesa cattolica o sulle fortune ammassate da chi si dichiarava figlio del popolo. Pinilla non si inalberava dinanzi alle analisi dell’intendente, ne rispettava la posizione critica e, un brindisi dopo l’altro, lo invitava a bere ai successi della rivoluzione guidata con oculatezza dal comandante Ortega. In definitiva, era stato il suo non schierarsi a costargli il posto a Managua e il trasferimento nella tranquilla Granada e Pinilla, a conoscenza del fatto, non se la sentiva di infierire.

    «Lei e io andremo d’accordo» gli aveva detto sin dal primo giorno. «L’importante è non parlare di politica sul lavoro. So che lei è un buon poliziotto e mi aspetto che agisca di conseguenza.»

    L’intendente aveva risposto con un’alzata di spalle.

    «Non parlo mai di politica.»

    Il maggiore Pinilla gli aveva dato una franca stretta di mano e lo aveva invitato subito al bar del Mocho Pizarro. Qui, davanti ai loro cocktail preferiti, il fresco e innocuo macuá per sé e l’immancabile gin tonic per l’intendente, gli aveva spiegato per filo e per segno cosa doveva aspettarsi da quel suo nuovo incarico. Nel corso di un pomeriggio bagnato dal gin e dal rum, intervallato da antipasti e stuzzichini, Pinilla aveva rivoltato la città come un guanto, presentandogli vizi e virtù, descrivendogli personaggi e luoghi, suggerendogli come comportarsi e cosa dire. Il comisionado era un uomo che conferiva a ogni frase un tocco di segretezza, avvicinandosi all’orecchio dell’intendente per sussurrargli dettagli e particolari che riteneva disdicevoli, un gesto che condiva alla fine con una sana risata e una pacca sulla spalla che altro non era che un ennesimo invito a bere. Pinilla era un uomo pingue, calvo e loquace che aveva il merito, nonostante il suo ruolo di capo della polizia, di riuscire simpatico a tutti, non solo a quelli che stavano dalla sua parte, ma anche a ladri, truffatori, evasori, delinquenti in generale. Riuscì simpatico anche a Navarra, che sopportava appena i tipi ciarlieri.

    «Mi rimane poco tempo ormai come comisionado, ma sono sicuro che andremo d’accordo.»

    Navarra sottoscrisse e brindò per l’ennesima volta.

    Quegli incontri diventarono la normalità. Si protraevano per più di un’ora, almeno finché Pinilla, guardando l’orologio, proferiva la solita frase: «Si è fatto tardi. Mia moglie mi aspetta», allora gli prendeva la mano e gliela stringeva forte, al punto da lasciargliela segnata con quel grosso anello di rubini che portava al mignolo.

    Dopo quattro mesi in provincia, l’intendente si era perfettamente ambientato. Si svegliava presto, faceva una camminata sul Malecón – correre gli riusciva maledettamente difficile – e andava in ufficio a piedi. Dopo una mattinata tra le scartoffie, pranzava leggero in uno dei locali tra la Calle Corrales e la Calzada. Si era messo in testa di seguire una dieta salutista, a base di insalate e di pietanze insulse, spesso prive di sapore ma che, si era convinto, lo aiutavano a mantenere un peso ideale e a reprimere l’accenno di pancetta che aveva acquisito durante la convalescenza.

    Era perfettamente guarito dalle ferite nell’attentato davanti al Palacio e aveva riacquistato del tutto l’uso del braccio sinistro. L’inattività forzata in ospedale prima e la fisioterapia dopo, una fisioterapia volta quasi esclusivamente all’arto ferito, l’avevano un poco imbolsito. Ciononostante riteneva troppo impegnativo fare dell’esercizio fisico che non fosse la molle passeggiata sul lungolago. Così cercava di mantenersi in forma con insalate greche e filetti di guapotes bolliti con verdure, un tentativo che si infrangeva contro le leccornie e i liquori che ingollava nel tardo pomeriggio dal Mocho Pizarro. Era un circolo vizioso. Dopo pranzo, e un forte caffè nero, tornava alla Centrale per un paio d’ore e poi aspettava l’imbrunire nel profumo di limoni e di guava, tra conversazioni, gin tonic e antipasti di patacones con chimichurri o di quesillo nell’ospitale patio del Mocho Pizarro. Quello che perdeva durante il pranzo lo riguadagnava immancabilmente nell’indolenza degli apatici pomeriggi. La sera, infine, si sedeva in terrazza a guardare le acque di quel lago placido che sembrava un mare in attesa di eventi. Navarra, che era sempre stato severo con se stesso, adesso era diventato indulgente. Dopo tanto tempo aveva ripreso in mano un libro e, senza rimorsi, lasciava che le ore scorressero fino a notte fonda nella lettura, circondato solo dal vento che proveniva dal Cocibolca, dalla semioscurità e dai suoi pensieri.

    Prenditela con calma, si diceva. Prima o poi qualcosa succederà.

    2

    Quella mattina era arrivato tardi in ufficio. Si era soffermato più di mezzora a conversare con il proprietario di un supermercato che asseriva di aver visto nei pressi del suo negozio un noto ladruncolo. Da un paio di giorni, raccontava don Romelio, il delinquente se ne stava in un angolo a osservare i movimenti dei clienti e delle cassiere. Sembrava prendere nota di tutto, proprio come fa un criminale prima di compiere un colpo. L’intendente aveva annuito, ascoltando a tratti quel discorso che si ripeteva uguale ormai da settimane. Navarra era convinto che la storia fosse inventata di sana pianta e che l’uomo non cercasse altro che una protezione gratuita per non accollarsi l’onere di un buttafuori o di una guardia privata davanti al negozio.

    «Don Romelio, dovrebbe farsi aiutare da un vigilante» azzardò Navarra.

    L’altro sembrò scandalizzato.

    «Ma signor intendente, per questo esiste la polizia. Noi paghiamo le tasse perché voi ci proteggiate.»

    «Senza offesa, don Romelio, ma con l’inezia di tasse che paga al Comune…»

    Lasciò la frase a metà, assaporando l’effetto della pausa.

    «Cosa vuole insinuare?»

    «Su, don Romelio. Non è un segreto che il suo negozio, che vende più di mille prodotti differenti, è tassato come una semplice rivendita di acque minerali e bibite ghiacciate.»

    L’uomo arrossì, accennò una reazione, agitò una mano verso l’intendente e infine scrollò la testa come chi è rimasto senza argomenti. Navarra sorrise, lo prese per una spalla e lo guidò fin dentro il negozio.

    «Non abbiamo abbastanza agenti. Posso mandarle una pattuglia all’ora di maggior affluenza, di più non posso fare. Ai taccheggiatori all’interno del supermercato deve pensarci lei.»

    Don Romelio si diresse di malumore verso il suo ufficio borbottando. Commentava tra sé, ma a voce sufficientemente alta perché tutti i clienti lo sentissero, del lassismo e del disinteresse della polizia locale nell’attendere ai bisogni della comunità.

    «Quando faranno qualcosa, sarà troppo tardi» diceva, mentre si agitava tra un pubblico più interessato agli acquisti che alle sue lamentele. Navarra non gli diede importanza. Uscì dal negozio e prese di nuovo la strada per la Centrale.

    Il suo ufficio non poteva avere vista migliore. Dava sulla suggestiva piazza dell’Indipendenza, centro vitale e turistico che raccoglieva in poche centinaia di metri le principali attrazioni della città: il Parco Centrale, la cattedrale, l’ingresso alla Calzada, gli hotel in stile coloniale, il complesso religioso del convento di San Francesco. Sul lato meridionale, che affacciava su alcuni edifici fatiscenti, c’erano gli uffici del Comune; sul marciapiede sostavano le carrozzelle trainate da cavalli che per pochi córdobas portavano gli stranieri a fare il giro turistico che dalla piazza fluiva verso il lago. Il luogo, dalle prime ore della giornata, traboccava di turisti, venditori ambulanti, passanti, questuanti. All’intendente, che andava al lavoro a piedi, non dispiaceva mischiarsi con quell’umanità così variopinta ed eterogenea, di differenti nazionalità e razze, che davano alla località un respiro di internazionalità.

    A Managua aveva odiato la folla che languiva fuori dal Palacio chiedendo favori. Le persone gli si appiccicavano addosso come mosche, insistenti e intriganti, e non lo mollavano finché non ottenevano ciò che volevano o finché lui non decideva di liberarsene in malo modo. A Granada era differente. La disperazione e l’ansietà che sembravano pervadere il questuante della capitale lasciavano qui posto a un’indole flemmatica verso ogni sfaccettatura della vita. Era parte del carattere dei granadini. La città conservava una propria anima che nemmeno la massa di turisti riusciva a scalfire. Granada possedeva quel grande pregio. Poteva essere città e cittadina insieme, perché poche vie più in là di quel fulcro pulsante di dinamica umanità, le silenziose vie che sciamavano verso il lago le restituivano il suo aspetto indolente e provinciale.

    Navarra si trovava a suo agio crogiolandosi in quelle due anime, alla prima dedicava la mattina e parte del pomeriggio, alla seconda il resto della giornata fino a notte.

    L’ufficio non era che una saletta di trenta metri quadrati scarsi, la scrivania dell’intendente era sistemata proprio a ridosso della finestra. I suoni e gli aromi della piazza – ma, nel giorno della raccolta dei rifiuti, anche i miasmi – volavano direttamente sotto al suo naso e Navarra aveva imparato presto ad apprezzare quel dettaglio, che lo faceva sentire tra la gente mentre se ne stava appresso alle proprie idee. La sua scrivania era davanti alla finestra e di fronte la porta, ai due lati c’erano quelle dei suoi collaboratori, Henao e Artimia.

    Il primo era un uomo rubicondo, con la tendenza a ingrassare, lento nei movimenti e nel pensiero, prossimo alla quarantina. Si occupava più che altro di raccogliere informazioni, per cui se la passava quasi tutto il tempo fuori dall’ufficio, a fare il giro degli informatori e delle taverne, qui più per bere che per reali necessità di servizio. Era nato e cresciuto a Granada, conosceva quasi tutti, e proprio la sua popolarità ne faceva un elemento imprescindibile del piccolo nucleo investigativo.

    Francisca Artimia, invece, di anni ne aveva trentacinque ed era una delle poche donne in forza alla polizia della città. Magra, dai folti capelli neri che raccoglieva in una crocchia, svolgeva quasi tutto il lavoro d’ufficio: pratiche, incartamenti, archiviazione. Non riusciva mai a stare seduta più di cinque minuti, scaduto quel termine si alzava con una scusa qualunque – servirsi un caffè, andare in bagno, aprire la finestra, chiudere la finestra, riaprire la finestra – per calmarsi e recuperare la concentrazione per poter riprendere il lavoro. A renderla irrequieta era il pensiero per i figli piccoli, che lasciava ogni giorno a scuola ma che la tenevano in costante apprensione. Navarra all’inizio era sconcertato da quel comportamento compulsivo, ma nel giro di un paio di settimane ci aveva fatto l’abitudine.

    Quando si ritrovava solo l’intendente poteva finalmente rilassarsi. Spegneva il condizionatore, che odiava, accendeva il ventilatore, apriva la finestra e, con i piedi sulla scrivania, si lasciava andare a voli pindarici. Aveva preso in seria considerazione l’ipotesi di acquistare una piccola casa al mare, dove poter andare a trascorrere i periodi di vacanza o i brevi permessi che il lavoro gli permetteva. Sognava una capanna su una spiaggia dell’Oceano Pacifico, con il respiro del mare addosso e una barca con cui pescare al largo pargos e macarelas che tanto gli piaceva cuocere alla griglia. Aveva cominciato a pensarci seriamente dopo il suo ferimento, dopo che ancora una volta il destino lo aveva messo di fronte alla morte e alla precarietà della sua condizione umana. Ormai era un uomo maturo e in tanti anni, nonostante i vari tentativi, non era mai riuscito a mettere radici. Non era mai stato una persona capace di raccogliere i frutti delle sue azioni. Preferiva lasciarsi trasportare dalla corrente e attendere gli eventi, attanagliato da una sorta di fatalismo che non riusciva a togliersi di dosso.

    L’ultimo attentato, però, lo aveva scosso. Si era già trovato altre volte di fronte alla morte, ma stavolta era stato diverso. Non era più giovane, da molto tempo non era più un rivoluzionario, un idealista capace di offrire il petto alle pallottole nemiche. Era solo un uomo tra i tanti, disilluso e pronto alla resa delle armi. Una casetta su una spiaggia avrebbe fatto al caso suo, un luogo dove ricordare, riposare e riconoscersi. Non chiedeva poi molto.

    3

    Maricruz Castro era sempre stata una ragazza devota. Sin da bambina la madre l’aveva allevata nel timore di Dio e nel rispetto della Bibbia. Fino all’età di otto anni aveva frequentato l’oratorio della chiesa di San Giovanni Bosco ed era cresciuta pregando davanti alla statuetta della Madonna e accendendo ceri agli altari dei santi. Poi, da un giorno all’altro, la madre aveva deciso di abbandonare la fede cattolica per abbracciare quella evangelica, e Maricruz si era trovata catapultata all’improvviso dal silenzio e dalla maestosità della chiesa dalle alte campate allo scarno salone di un’officina meccanica abbandonata. Ne era rimasta sconcertata, ma la madre le aveva spiegato che quella era solo un’altra maniera di pregare Dio, non c’era nulla di diverso: le sue preghiere sarebbero arrivate lo stesso al cielo. Maricruz aveva obbedito e presto si era abituata ai nuovi ritmi e alla nuova maniera di rivolgersi a Dio. Nella sua innocenza, la bambina quasi non percepì la metamorfosi della sua cristianità perché, nel fondo, la sostanza rimaneva la stessa: si pregava, ci si genufletteva per chiedere perdono e si ascoltavano le raccomandazioni di un ministro. Poco importava che non ci fosse più un sacerdote vestito di nero a officiare la messa ma un distinto signore in giacca e cravatta. I fedeli lo chiamavano pastore e a volte, in famiglia, predicatore. A Maricruz era risultato più disponibile

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1