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I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse
I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse
I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse
E-book522 pagine7 ore

I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse

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Info su questo ebook

Nel 1870 Marcelo Desnoyers, per sfuggire alla guerra franco-prussiana, fugge da Parigi in Sudamerica, dove fa fortuna e mette su famiglia.
Ritorna in patria appena in tempo per assistere allo scoppio della Prima Guerra Mondiale e suo figlio Julio, con un passato da viveur e artista da strapazzo, per amore si arruola e parte per il fronte. Così i Desnoyers, padre e figlio, da punti di vista diversi assistono alla barbarie della guerra, contrapposti alle truppe tedesche in cui militano i loro cugini.
Pubblicato per la prima volta nel 1916, a guerra ancora in corso, I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse sorprende ancora oggi per la lucidità di analisi del conflitto e per la denuncia della brutalità della guerra.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2022
ISBN9791222025186
I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse
Autore

Vicente Blasco Ibáñez

Vicente Blasco Ibáñez (1867-1928) was a Spanish novelist, journalist, and political activist. Born in Valencia, he studied law at university, graduating in 1888. As a young man, he founded the newspaper El Pueblo and gained a reputation as a militant Republican. After a series of court cases over his controversial publication, he was arrested in 1896 and spent several months in prison. A staunch opponent of the Spanish monarchy, he worked as a proofreader for Filipino nationalist José Rizal’s groundbreaking novel Noli Me Tangere (1887). Blasco Ibáñez’s first novel, The Black Spider (1892), was a pointed critique of the Jesuit order and its influence on Spanish life, but his first major work, Airs and Graces (1894), came two years later. For the next decade, his novels showed the influence of Émile Zola and other leading naturalist writers, whose attention to environment and social conditions produced work that explored the struggles of working-class individuals. His late career, characterized by romance and adventure, proved more successful by far. Blood and Sand (1908), The Four Horsemen of the Apocalypse (1916), and Mare Nostrum (1918) were all adapted into successful feature length films by such directors as Fred Niblo and Rex Ingram.

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    Anteprima del libro

    I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse - Vicente Blasco Ibáñez

    Copertina

    73

    Dello stesso autore nella collana Aurora

    Sangue e Arena

    Vicente Blasco Ibañez, I quattro cavalieri dell'Apocalisse

    1a edizione Landscape Books, novembre 2022

    Collana Aurora n° 73

    © Landscape Books 2022

    Titolo originale: Los cuatro jinetes del Apocalipsis

    Traduzione di Ida Mango, riveduta e aggiornata. L'editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di traduzione senza trovarli. Rimane ovviamente a disposizione per l'assolvimento di quanto dovuto.

    www.landscape-books.com

    In copertina: rielaborazione da Victor Vasnecov

    Edizione digitale a cura di WAY TO ePUB

    Vicente Blasco Ibañez

    I quattro cavalieri

    dell'Apocalisse

    PARTE PRIMA

    I.

    Nel giardino della Cappella Espiatoria

    Dovevano incontrarsi alle cinque del pomeriggio nel piccolo giardino della Cappella Espiatoria; però Julio Desnoyers arrivò mezz’ora prima, con l’impazienza dell’innamorato, che vorrebbe avvicinare il sospirato appuntamento, e vi si reca in anticipo. Nell’attraversare il cancello dalla parte del boulevard Haussmann, si rese subito conto che a Parigi il mese di luglio appartiene all’estate. Il corso delle stagioni era per lui in quel momento qualche cosa di confuso, che esigeva dei calcoli.

    Erano trascorsi cinque mesi dalle ultime interviste in quello square, che offre alle coppie erranti il rifugio di una calma funebre fra la tetraggine e l’umido, accanto a un boulevard in movimento continuo e nelle vicinanze di una rumorosa stazione ferroviaria.

    L’ora dell’appuntamento era sempre le cinque; Julio vedeva arrivare la sua amata alla luce dei fanali accesi da poco, col busto avvolto in pellicce e il manicotto portato al viso a mo’ di maschera. La voce dolce al salutarlo spargeva il suo alito, congelato dal freddo, in un nembo di vapore bianco e tenue. Dopo diversi colloqui preparatori e titubanti, abbandonarono definitivamente il giardino. Il suo amore aveva acquistato la maestosa importanza del fatto compiuto, e andò a rifugiarsi, dalle cinque alle sette, in un quinto piano di rue de la Pompe, dove Julio aveva il suo studio di pittore. Le cortine ben pesanti sui cristalli della finestra, il caminetto rosseggiante e spargente tremolii di porpora, come unica luce dell’abitazione, il monotono gorgoglio del samovar bollente accanto alle tazze da tè, tutto il raccoglimento di una vita isolata in dolce egoismo non gli permisero di accorgersi che i pomeriggi si facevano sempre più lunghi, che al di fuori ancora brillava a tratti il sole nel fondo dei profondi squarci di madreperla aperti nelle nubi, e che una stagione nuova, una primavera timida e pallida, cominciava a mostrare le sue dita verdi fra i bottoni dei rami, soffrendo gli ultimi morsi dell’inverno, nera bestia che ritornava sui suoi passi.

    Dopo, Julio aveva fatto un viaggio a Buenos Aires, incontrando nell’altro emisfero gli ultimi sorrisi dell’autunno ed i primi venti gelidi della pampa. E mentre gli pareva che l’inverno fosse per lui una stagione eterna, giacché avanzava il passo nel suo cambiare domicilio da un estremo all’altro del pianeta, fu là, in quel giardino del sobborgo, che gli apparve insperatamente l’estate.

    Uno sciame di fanciulli correva e gridava nelle viuzze, intorno al monumento espiatorio. Ciò che Julio vide a tutta prima nell’entrare fu un cerchio che veniva girando verso le sue gambe, spinto da una mano infantile. Dopo inciampò in una palla. Sotto i castagni si agglomerava il pubblico abituale delle giornate calde, cercando l’ombra azzurra, crivellata da punti e raggi di luce. Erano cameriere delle case vicine, che lavoravano o chiacchieravano, seguendo con sguardo indifferente i giochi violenti dei bambini affidati alla loro vigilanza; borghesi del sobborgo, che scendevano nel giardino per leggere il loro giornale, creandosi l’illusione che li circondasse la pace dei boschi. Tutti i sedili erano occupati; alcune donne sedevano su sgabelli pieghevoli di tela, con quell’aria che conferisce il diritto di proprietà. Le sedie di ferro, che costituivano i posti a pagamento, servivano da rifugio a diverse signore cariche di pacchetti, borghesi dei dintorni di Parigi, che aspettavano altri familiari, per prendere il treno nella Gare Saint-Lazare… Eppure Julio, con lettera della posta pneumatica, aveva proposto l’incontro, come in altri tempi, in quel luogo, considerandolo ancora poco frequentato. E lei, con non minore dimenticanza della realtà, fissava nella sua risposta l’ora solita, le cinque, credendo che, dopo aver passato diversi minuti nel Printemps o nelle Galeries col pretesto di fare degli acquisti, potesse sgattaiolare fino al giardino solitario, senza il rischio di essere vista da nessuna delle sue numerose conoscenze…

    Desnoyers godette una voluttà della quale quasi non aveva più il ricordo: di potersi muovere in un vasto spazio, e andava su e giù facendo scricchiolare sotto i suoi piedi i granellini di ghiaia. Durante venti giorni le sue passeggiate erano state sopra tavole, e aveva seguito con l’automatismo di un cavallo da maneggio la pista ovoidale della coperta del bastimento. Le piante dei suoi piedi, abituate a un suolo mal sicuro, conservavano ancora sulla terra ferma una certa sensazione di movimento elastico. I suoi andirivieni non risvegliavano la curiosità delle persone sedute nel giardino; una preoccupazione comune sembrava riguardare tutti, uomini e donne. I gruppi incrociavano ad alta voce le loro impressioni; coloro che avevano un giornale in mano vedevano accostarsi i vicini con sorrisi interrogativi. Erano scomparsi a un tratto la diffidenza e il timore, che inducono gli abitanti delle grandi città a restar sconosciuti gli uni agli altri, rivolgendosi lo sguardo diffidente.

    Parlano della guerra disse tra sé Desnoyers tutta Parigi parla in queste ore solo della possibilità della guerra.

    Fuori del giardino si notava ugualmente la stessa ansietà, che rendeva la gente fraterna e uguale. I venditori di giornali passavano per il boulevard gridando le pubblicazioni del pomeriggio; la loro corsa furiosa era arrestata dalle mani avide dei passanti, che si disputavano i fogli. Ogni lettore si vedeva circondato da un gruppo che gli chiedeva notizie, o tentava di decifrare da sopra le sue spalle i grossi e sensazionali titoli, che smaltavano il foglio.

    Nella rue des Mathurins, all’altro lato dello square, un capannello di operai, sotto la tenda di un’osteria, ascoltava i commenti di un amico, che accompagnava le sue parole agitando il giornale con gesti oratori. Il transito nelle vie, il movimento generale della città erano gli stessi che negli altri giorni; però a Julio sembrò che i veicoli andassero più in fretta, che vi fosse nell’aria un fremito di febbre, che le persone parlassero e sorridessero in un modo diverso. Tutti sembravano conoscersi, ed egli stesso era guardato dalle donne del giardino come se lo avessero visto nei giorni precedenti; poteva avvicinarsi a loro e intavolare conversazioni, senza che ne provassero sorpresa.

    Parlano della guerra ritornò a ripetersi; però con quella commiserazione che provano le intelligenze superiori, le quali conoscono il futuro, e non si abbassano alle impressioni del popolino.

    Sapeva di che si trattasse; era sbarcato alle 10 della sera precedente; da nemmeno ventiquattro ore calpestava la terra ferma, e la sua neutralità era quella di un uomo che viene da lontano, attraverso le immensità oceaniche, dagli orizzonti senza ostacoli, e si sorprende vedendosi assaltato dalle preoccupazioni che colpiscono le agglomerazioni umane. Nello sbarcare era stato due ore in un caffè di Boulogne, contemplando come le famiglie borghesi trascorrevano la serata nella monotona tranquillità di una vita senza pericoli. Dopo, il treno speciale dei viaggiatori provenienti dall’America lo aveva condotto a Parigi, lasciandolo, alle 4 del mattino, sopra un marciapiede della Gare du Nord, fra le braccia di Pepe Argensola, giovane spagnolo, che egli chiamava alcune volte il mio segretario e altre il mio scudiero, poiché non sapeva con certezza quale funzione svolgesse meglio presso la sua persona. In realtà, era qualche via di mezzo fra l’amico e il parassita, il compagno povero, compiacente e attivo, che accompagnava il giovin signore di famiglia ricca in non buon accordo coi suoi genitori, partecipando all’alterna sua fortuna, raccogliendo le briciole dei giorni prosperi, e inventando espedienti per conservare le apparenze nelle ore di povertà.

    «Cosa sai della guerra?» gli aveva detto Argensola, prima di domandargli il risultato del suo viaggio. «Tu vieni dall’estero, e devi saperne molto».

    Poi aveva dormito nel suo vecchio letto, custode di grati ricordi, mentre il segretario passeggiava per lo studio, parlando della Serbia, della Russia e del Kaiser. Anche questo ragazzo, noncurante per tutto ciò che non fosse in relazione col suo egoismo, sembrava contagiato dalla preoccupazione generale. Al suo destarsi, Julio rilesse la lettera di lei, che gli dava l’appuntamento per le 5 del pomeriggio, e che conteneva anche alcune parole sul temuto pericolo. Attraverso il suo stile da innamorata traspariva la preoccupazione generale di Parigi. Nell’uscire, per andare a colazione, la portiera, col pretesto di dargli il benvenuto, gli aveva domandato notizie; e nel restaurant, nel caffè, sulla via, sempre la guerra... la possibilità di una guerra con la Germania.

    Desnoyers era ottimista; che importanza potevano avere queste inquietudini per un uomo come lui, che proprio allora aveva finito di trascorrere venti giorni fra gente tedesca, attraversando l’Atlantico sotto la bandiera imperiale?

    Erano partiti da Buenos Aires con un vapore di Amburgo, il König Friedrich August. Il mondo viveva in santa pace quando il piroscafo si allontanò dalla terra. Soltanto nel Messico i bianchi e i meticci, in continua rivoluzione, si sterminavano, perché nessuno potesse credere che l’uomo fosse un animale degenerato negli ozi della pace. I popoli nel resto del pianeta dimostravano una fratellanza straordinaria. Persino il transatlantico, il piccolo mondo di passeggeri delle più diverse nazionalità, sembrava un frammento della società futura, piantato come saggio nei tempi presenti: un bozzetto del mondo futuro, senza frontiere né antagonismi di razza.

    Un mattino la musica di bordo, che faceva sentire tutte le domeniche il Coral di Lutero, destò i dormienti delle cabine di prima classe con la più inaudita delle sveglie. Desnoyers si stropicciò gli occhi, credendo di vivere ancora nelle allucinazioni del sogno. Gli ottoni tedeschi raucamente suonavano la Marsigliese lungo i corridoi e la coperta.

    Il cameriere, sorridendo di fronte al suo stupore, finì per spiegare l’avvenimento: «Quattordici luglio». Sui vapori tedeschi si celebravano come proprie le grandi feste di tutte le nazionalità, che forniscono carichi e passeggeri; i loro capitani curano scrupolosamente di compiere i riti di questa religione della bandiera e dei ricordi della storia. La più meschina repubblica vede pavesato il piroscafo in suo onore. È una diversione, oltre che un mezzo efficace per combattere la monotonia del viaggio, e serve agli alti fini della propaganda germanica. Per la prima volta la famosa data francese era festeggiata su un piroscafo tedesco, e mentre i musicanti eseguivano, percorrendo i diversi piani, una Marsigliese galoppante, tutta in sudore e con i capelli disordinati, gruppi mattinieri commentavano questo singolare caso

    «Che gentilezza!» dicevano le signore sudamericane. «Questi tedeschi non sono poi così volgari come sembrano. È una cortesia... è una cosa molto fine. E vi sarà ancora chi crede che essi vorranno battersi con la Francia!»

    Gli scarsissimi francesi che viaggiavano col piroscafo si sentivano ammirati, quasi fossero cresciuti smisuratamente di fronte alla pubblica considerazione. Erano non più di tre: un vecchio gioielliere, che ritornava dopo aver visitato le sue succursali in America, e due giovani commesse viaggiatrici di rue de la Paix: le persone più a modo e timide di bordo, vestali dagli occhi allegri e dal nasino all’insù, le quali si tenevano in disparte, senza permettersi la minima confidenza, in questo ambiente poco cortese. La sera vi fu un banchetto di gala; nel fondo della sala da pranzo la bandiera francese e quella imperiale formavano un enorme e vistoso drappeggio. Tutti i passeggieri tedeschi indossavano la marsina, e le signore esibivano la bianchezza delle loro scollature; le livree dei camerieri brillavano come in un giorno di grande rivista.

    Alla fine del pranzo risuonò il tintinnio di un cucchiaio su di un bicchiere, e si fece silenzio: il comandante doveva parlare. E il bravo marinaio, che univa alle sue funzioni nautiche l’obbligo di arringare nei banchetti e aprire i balli con la dama di maggior rispetto, cominciò a svolgere un rosario di parole simili allo sfregamento di tavolette, con lunghi intervalli di esitante silenzio. Desnoyers conosceva un po’ di tedesco, ricordo delle sue relazioni con i parenti che aveva a Berlino, e poté afferrare qualche parola; il comandante ripeteva a ogni momento pace e amici. Un vicino di mensa, commesso di commercio, si offrì quale interprete, con la cortesia di colui che vive di propaganda.

    «Il comandante chiede a Dio che mantenga la pace fra la Germania e la Francia, e si augura che i due popoli siano sempre più amici».

    Un altro oratore si alzò dalla stessa mensa occupata dal marinaio; era il più rispettato dei passeggeri tedeschi, un ricco industriale di Düsseldorf, che ritornava dall’aver visitato i suoi corrispondenti in America. Nessuno lo indicava col suo nome. Aveva il titolo di consigliere di commercio, e per i suoi compatrioti era Herr Comerzienrath, così come sua moglie si faceva dare il titolo di Frau Rath. La signora consigliera, molto più giovane del suo importante sposo, aveva attratto, fin dal principio del viaggio, l’attenzione di Desnoyers. Essa, da parte sua, fece un’eccezione in favore di questo giovane argentino, abdicando al suo titolo fin dalla prima conversazione.

    «Mi chiamo Berta» disse dignitosamente, come una duchessa di Versailles a un grazioso abate seduto ai suoi piedi.

    Il marito anche protestò nell’udire che Desnoyers lo chiamava consigliere come i suoi compatrioti,

    «I miei amici mi chiamano capitano. Io comando una compagnia della landsturm».

    Ed il gesto col quale l’industriale accompagnò queste parole rivelava la malinconia di un uomo incompreso, che disprezza gli onori che gode, per pensare unicamente a quelli che non possiede.

    Mentre pronunciava il discorso, Julio esaminò la sua piccola testa e la sua nuca robusta, che gli davano una certa somiglianza con un cane di guardia. Nella sua immaginazione vedeva l’alto e opprimente colletto dell’uniforme, dai cui bordi sorgeva un doppio ornamento di grasso rosso; i baffi diritti e ingommati assumevano un’aria aggressiva; La sua voce era tagliente e secca, come se scagliasse le parole... Così doveva lanciare l’imperatore le sue arringhe. E il borghese bellicoso, con istintiva simulazione, contrasse il braccio sinistro, appoggiando la mano sull’impugnatura di una spada immaginaria.

    Malgrado il suo gesto fiero e la sua oratoria da comando, tutti gli ascoltatori tedeschi risero strepitosamente alle prime parole, come uomini che sanno apprezzare il sacrificio di un Herr Commerzienrath allorché si degna di divertire una riunione.

    «Dice delle cose molto divertenti dei francesi», notò l’interprete a bassa voce. «Però non sono offensive».

    Julio aveva intuito qualcosa, nell’udire ripetute volte la parola Franzosen: fanciulli allegri, graziosi, imprevidenti. Quante cose potrebbero fare insieme loro e i tedeschi, se dimenticassero i rancori del passato. Gli ascoltatori germanici ora non ridevano più; il consigliere rinunciava al suo tono ironico; un’ironia imponente, schiacciante, di molte tonnellate di peso, enorme come la nave. Ora svolgeva la parte seria della sua arringa, e ne sembrava commosso lo stesso commissario.

    «Dice, signore», continuò l’interprete «che desidera che la Francia sia molto grande, e che un giorno marci insieme contro altri nemici... contro altri!»

    E ammiccava un occhio sorridendo maliziosamente, con lo stesso sorriso di comune intelligenza, che risvegliava in tutti quest’allusione al misterioso nemico.

    Alla fine il capitano-consigliere alzò la sua coppa per la Francia.

    «Hoch», gridò come se comandasse un’evoluzione ai suoi soldati della riserva. Per tre volte diede il grido, e tutta la massa germanica, levandosi in piedi, rispose con un Hoch! simile a un ruggito, mentre l'orchestra, collocata nell’antisala, prorompeva a suonare la Marsigliese.

    Desnoyers si commosse, un brivido di entusiasmo gli saliva per le spalle; gli s’inumidirono gli occhi, e nel bere lo champagne gli parve trangugiare alcune lacrime. Egli portava un nome francese, aveva sangue francese, e ciò che facevano quei gringos – i quali il più delle volte gli sembravano ridicoli e volgari – era degno di gratitudine. I sudditi del Kaiser festeggiare la data della Rivoluzione!... Credette di assistere a un grande avvenimento storico.

    «Benissimo!» disse ad altri sud-americani, che occupavano le mense vicine. «Bisogna riconoscere che sono stati molto gentili».

    Dopo, con la veemenza dei suoi ventisette anni, aggredì, nell’antisala, il gioielliere, scagliandogli sul muso il suo mutismo. Era l’unico di nazionalità francese che si trovava a bordo; avrebbe dovuto dire quattro parole di ringraziamento. La festa così finiva male per colpa sua.

    «E perché non ha parlato lei, che è figlio di un francese?» disse l’altro.

    «Ma io sono cittadino argentino», rispose Julio.

    E si allontanò dal gioielliere, mentre questi, considerando che avrebbe potuto parlare, dava spiegazione a quelli che lo circondavano. Era molto pericoloso immischiarsi negli affari diplomatici; inoltre egli non aveva istruzioni dal suo governo. E per alcune ore si credette un uomo che era stato sul punto di disimpegnare una gran parte nella storia.

    Desnoyers passò il resto della serata nel fumoir, attratto dalla presenza della signora consigliera. Il capitano della landsturm, sporgendo un enorme sigaro dai suoi baffi, giocava al poker con altri compatrioti, che lo seguivano in ordine di dignità e ricchezza. La sua compagna restava al suo fianco gran parte della serata, presenziando all’andirivieni dei camerieri carichi di bocks, e non si azzardava a prendere parte a questo enorme consumo di birra. La sua preoccupazione era quella di conservare un posto vuoto presso di sé, perché lo occupasse Desnoyers. Lo conservava per l’uomo più distinto di bordo, perché beveva champagne in tutti i pranzi. Egli era di media statura, bruno, con piccolo piede – che l’obbligava a raccogliere i suoi sotto le gonne – e la sua fronte appariva come un triangolo sotto due fila di peli lisci, neri, lucidi come lamine di lacca; era il tipo opposto degli uomini che la circondavano. Inoltre viveva a Parigi, nella città che ella non aveva mai visto, malgrado i numerosi viaggi in entrambi gli emisferi.

    «Oh, Parigi! Parigi!» diceva spalancando gli occhi e increspando le labbra, per esprimere la sua ammirazione allorché parlava da sola con l’argentino, «come mi piacerebbe andarci!»

    E perché le raccontasse le cose di Parigi, si permetteva alcune confidenze sui divertimenti di Berlino, però con verecondo pudore, ammettendo innanzi tutto che nel mondo vi è di più, molto di più, e che desiderava conoscerlo.

    Julio, passeggiando ora attorno alla Cappella Espiatoria, si ricordava, con un certo rimorso, della sposa del consigliere Erckmann. Egli che aveva fatto il viaggio in America per una donna; per riunire il denaro e sposarsi con lei... Ma immediatamente trovava di che scusare la sua condotta. Nessuno poteva sapere ciò che era avvenuto; inoltre egli non era un asceta, e Berta Erckmann rappresentava un’amicizia tentatrice in mezzo al mare. Nel ricordarla vedeva nella sua immaginazione un cavallo da corsa, grande, magro, biondo e dalle lunghe zampe. Era una tedesca moderna, la quale non riconosceva altro difetto al suo paese che la pesantezza delle sue donne, combattendo sulla sua persona questo pericolo nazionale con ogni specie di metodi alimentari. Il pranzo era per essa un tormento, e la sfilata dei bocks nel fumoir un supplizio di Tantalo. La sveltezza conseguita e mantenuta per questa tensione di volontà, lasciava più risibile la robustezza delle sue forme, il forte scheletro con poderose mandibole, e dei denti grandi, sani, abbaglianti, che alle volte davano origine alla considerazione irriverente di Desnoyers. È snella, e al tempo stesso enorme, si diceva nell’esaminarla. Però, pensandoci bene, finiva col trovarla la donna più distinta di bordo; distinta per un viaggio sull’oceano, elegante alla maniera di Monaco, con vestiti dai colori indefinibili, che facevano ricordare l’arte persiana, e le illustrazioni sui manoscritti medioevali. Il marito ammirava l’eleganza di Berta, lamentando in segreto la sua sterilità, quasi come un delitto di alto tradimento. La patria tedesca doveva la sua grandezza alla fecondità delle sue donne. Il Kaiser, con le sue iperbole da artista, aveva fatto constatare che la vera bellezza tedesca deve avere una statura minima di un metro e cinquanta.

    Quando Desnoyers entrò nel fumoir per occupare il posto che gli conservava la consigliera, il marito e i suoi opulenti compari tenevano inattivo il mazzo di carte sul tappeto verde. Herr Rath continuava con gli amici il suo discorso, e gli uditori si toglievano il sigaro dalle labbra, per lanciare dei grugniti di approvazione. La presenza di Julio determinò un sorriso di generale amabilità; era la Francia che veniva a fraternizzare con loro. Sapevano che suo padre era francese, e ciò bastava perché lo accogliessero come se arrivasse in linea retta dal palazzo del Quai d'Orsay, rappresentante la più alta diplomazia della Repubblica. La tendenza al proselitismo fece sì che tutti gli concedessero subito un’importanza smisurata.

    «Noi», continuò il consigliere, guardando fissamente Desnoyers, come se aspettasse da lui una dichiarazione solenne «desideriamo vivere in buona amicizia con la Francia».

    Il giovane Julio approvò con la testa, per non mostrarsi scortese; gli sembrava molto bello che la gente non fosse nemica. Per conto suo potevano affermare quest’amicizia quanto volevano; l’unica cosa che lo interessava in quel momento era un certo ginocchio, che cercava il suo sotto la tavola, trasmettendogli un dolce calore attraverso il pesante sipario di seta.

    «Però la Francia», proseguì lamentosamente l’industriale «si mostra burbera con noi. Sono anni che il nostro imperatore le tende la mano, con nobile lealtà, ed essa finge di non vederla.... Lei riconoscerà che questo non è corretto».

    A questo punto Desnoyers credette opportuno dire qualche cosa, perché l’interlocutore non indovinasse le sue vere occupazioni.

    «Forse non fate abbastanza. Se restituiste innanzi tutto ciò che le toglieste!...»

    Si fece un silenzio di stupore, come se fosse risuonato sulla nave il segnale d’allarme; alcuni che in quel momento si portavano il sigaro alle labbra, restavano con la mano immobile, alla distanza di due dita dalla bocca, aprendo gli occhi smisuratamente. Mentre lì c’era il capitano della landsturm, per dare forma alla loro muta protesta.

    «Restituire!» disse, con una voce che sembrava roca, per il repentino gonfiamento del suo collo. «Noi non dobbiamo restituire nulla, poiché nulla abbiamo tolto. Ciò che abbiamo lo guadagnammo col nostro eroismo».

    Il nascosto ginocchio si fece più insinuante, come se consigliasse prudenza al giovane con i suoi dolci sfregamenti.

    «Non dica di queste cose» sospirò Berta; «questo lo dicono i repubblicani corrotti di Parigi. Un giovane così distinto, che è stato a Berlino e che ha i parenti in Germania!…»

    Ma Desnoyers, di fronte a qualsiasi affermazione fatta con tono altero, sentiva un impulso ereditario di aggressività, per cui disse freddamente:

    «È lo stesso – come se io prendessi a lei l’orologio, e dopo le proponessi che fossimo amici, dimenticando ciò che è successo. Per quanto lei possa dimenticare la prima cosa, pure sarebbe bene che io le restituissi l’orologio».

    Il consigliere Erckmann volle rispondere tante cose in una volta, non riuscendo però che a balbettare, e saltando da un’idea all’altra. Comparare la conquista dell’Alsazia a un furto!... Una terra tedesca!... La razza... la lingua... la storia...

    «Ma dove sta la sua volontà di essere tedesca?» domandò il giovane senza perdere la calma. «Quando mai hanno consultato l’opinione degli Alsaziani?...»

    Restò perplesso il consigliere, come se fosse indeciso fra lo scagliarsi sull’insolente, o schiacciarlo col suo disprezzo.

    «Giovanotto, lei non sa quello che dice», affermò infine con maestà. «Lei è argentino, e non s’intende delle cose d’Europa».

    E i più assentirono, spogliandolo repentinamente della cittadinanza che gli avevano attribuito poco prima.

    Il consigliere con una rudezza militare gli aveva voltato le spalle e, preso il mazzo di carte, le distribuiva. Ricominciò la partita. Desnoyers, vedendosi isolato per questo sprezzante silenzio, sentì l’impulso d’interrompere il gioco con una violenza. Però l’occulto ginocchio continuava a consigliarlo alla calma, e una mano non meno invisibile cercò la sua destra, stringendola dolcemente. Ciò bastò perché egli recuperasse la serenità. La signora consigliera seguiva con sguardo fisso lo svolgersi del gioco. Egli guardava pure, e un sorriso malizioso gli contrasse lievemente gli angoli della bocca, nello stesso tempo che egli si diceva mentalmente, come conforto: Capitano, capitano!... Tu non sai ciò che ti aspetta.

    In terra ferma non si sarebbe più avvicinato a questi uomini; ma la vita su di un transatlantico, con la sua inevitabile promiscuità, obbliga alla dimenticanza. Il giorno dopo il consigliere e i suoi amici andarono in cerca di lui, ponendo in opera tutta la loro amabilità, per cancellare ogni ricordo fastidioso. Era un giovane distinto, apparteneva a una famiglia ricca, e tutti loro possedevano nel suo paese dei magazzini e altre industrie. L’unica cosa di cui ebbero cura fu di non menzionare più la sua origine francese. Era argentino, e tutti unanimi s’interessavano per la grandezza della sua patria e delle altre nazioni dell’America del Sud – dove avevano corrispondenti e imprese – esagerandone la loro importanza, come se fossero delle grandi potenze, commentando con gravità i fatti e le parole dei loro personaggi politici, dando a intendere che in Germania non vi era alcuno che non si preoccupasse del loro avvenire, predicendo a tutte loro una gloria futura, riflesso di quella imperiale, sempre che si fossero mantenute sotto l’influenza germanica. Malgrado queste gentilezze, Desnoyers non si presentò più, con la stessa assiduità di prima, all’ora del poker. La consigliera si ritirava nella sua cabina più presto del solito; la prossimità della linea equinoziale le procurava un sonno irresistibile, e abbandonava suo marito, che continuava il gioco. Julio da parte sua aveva delle misteriose occupazioni, che gli permettevano di salire sopra coperta soltanto dopo la mezzanotte. Con la precipitazione di chi desidera essere visto, per evitare sospetti, entrava nella sala da fumo parlando ad alta voce, e si sedeva vicino al marito di lei ed ai suoi amici. La partita era terminata, e un consumo di birra e grossi sigari di Amburgo servivano per festeggiare l’esito dei vincitori. Era l’ora delle espansività germaniche, dell’intimità fra uomini, degli scherzi insulsi e pesanti, dei racconti privi d’interesse. Il consigliere presiedeva con tutta la sua grandezza queste diavolerie degli amici, assennati negozianti dei porti anseatici, che godevano di grande credito nella Deutsche Bank, o bottegai installati nelle repubbliche della Plata, con una famiglia innumerevole. Egli era un guerriero, un capitano, e nell’esaltare ogni facezia insulsa con un riso che gonfiava la sua robusta nuca, credeva di stare nel bivacco con i suoi compagni d’armi.

    In onore dei sudamericani, che stanchi di passeggiare per la coperta entravano per udire ciò che dicevano i gringos, i narratori traducevano in spagnolo le amenità e i racconti licenziosi, risvegliati nella loro memoria dall’abbondante birra. Julio ammirava il riso facile, di cui erano dotati tutti quegli uomini; mentre gli estranei rimanevano indifferenti, essi ridevano con sonore risate, tirandosi indietro nei loro posti. E quando l’uditorio tedesco rimaneva freddo, il narratore ricorreva a un mezzo infallibile per rimediare all’esito mancato:

    «Al Kaiser raccontarono questo fatto, e quando il Kaiser l’udì, il Kaiser rise molto».

    Non c’era bisogno di dire di più; tutti ridevano: ja, ja, ja! con una risata spontanea ma breve; un riso in tre colpi; poiché il prolungarla si poteva interpretare come mancanza di rispetto a quella maestà.

    Nell’avvicinarsi all’Europa un’ondata di notizie venne incontro alla nave. Gli impiegati del telegrafo senza fili lavoravano incessantemente. Una sera Desnoyers, entrando nella sala fumatori, vide i notabili tedeschi gesticolare con i volti animati. Non bevevano birra: avevano fatto aprire bottiglie di champagne tedesco, e la Frau consigliera, senza dubbio impressionata dagli avvenimenti, si asteneva dallo scendere nella sua cabina. Il capitano Erckmann, nel vedere il giovane argentino gli offrì una coppa.

    «È la guerra», disse con entusiasmo «la guerra che arriva... Era ora!»

    Desnoyers fece un gesto di stupore. La guerra!... Che guerra era questa?... Aveva letto come tutti, sulla bacheca degli annunci, un radio-telegramma in cui si informava che il Governo austriaco mandava allora un ultimatum alla Serbia, senza che ciò gli avesse prodotto la minima emozione. Disprezzava le questioni dei Balcani; erano querimonie di popoli miserrimi, che accaparravano l’attenzione del mondo, distraendolo da imprese serie. Come poteva interessare tanto questo avvenimento al bellicoso consigliere? Le due nazioni avrebbero finito con l’intendersi; la diplomazia serve pure, a volte, a qualche cosa.

    «No», insisté burberamente il tedesco; «è la guerra, la guerra benedetta. La Russia sosterrà la Serbia, e noi appoggeremo la nostra alleata... Che farà la Francia?»

    Julio scrollò le spalle con malumore, come chiedendo che lo lasciasse in pace.

    «È la guerra», continuò il consigliere «la guerra preventiva di cui abbiamo bisogno. La Russia cresce troppo rapidamente, e si prepara contro di noi. Ancora quattro anni di pace e avrà finito le sue ferrovie strategiche, e la sua forza militare, unita a quella dei suoi alleati, varrà quanto la nostra. È meglio darle ora un buon colpo. Bisogna approfittare delle occasioni... La guerra!... la guerra preventiva!...»

    Tutto il suo circolo lo ascoltava in silenzio. Pareva che alcuni non sentissero il contagio del suo entusiasmo.

    La guerra!... E con l’immaginazione vedevano gli affari paralizzati, i corrispondenti in fallimento, le banche sospendere le operazioni di credito... una catastrofe ancora più paurosa per loro che il macello umano delle battaglie. Però approvavano con grugniti e movimenti di testa le feroci dichiarazioni di Erckmann. Era un Herr Rath e più ancora un ufficiale. Doveva essere addentro al segreto dei destini della sua patria, e ciò bastava perché brindassero in silenzio per il successo della guerra.

    Il giovane credette che il consigliere e i suoi ammiratori fossero ubriachi:

    «Ma, capitano», disse in tono conciliatorio «mi pare quello che lei dice panni manchi di logica».

    Come mai poteva convenire la guerra alla industriale Germania? Ogni momento cresceva la sua forza, ogni mese conquistava un mercato nuovo; tutti gli anni il suo mercato commerciale si vedeva aumentare con proporzioni inaudite. Sessant’anni prima doveva equipaggiare le sue scarse navi con i cocchieri di Berlino, ammoniti dalla Polizia. Ora le sue flotte commerciali e di guerra solcavano tutti gli oceani, e non vi era porto in cui la merce germanica non occupasse la parte più considerevole delle banchine. Bisognava soltanto continuare su questa strada e mantenersi lontana dalle avventure guerresche. Ancora altri venti anni di pace e i tedeschi sarebbero diventati i padroni dei mercati del mondo, superando l’Inghilterra, la loro maestra di ieri in questa bella lotta incruenta. E tutto ciò lo avrebbero compromesso – come colui che gioca la sua intera fortuna su una carta – in una lotta, che poteva esser loro sfavorevole?...

    «No, la guerra», insisté il consigliere rabbiosamente; «la guerra preventiva. Viviamo circondati da nemici, e ciò non può continuare; è meglio finirla una buona volta. O loro o noi. La Germania si sente forte da sfidare il mondo; dobbiamo porre fine alla minaccia russa; e se la Francia non si mantiene tranquilla, peggio per lei! E se anche qualche altra... qualche altra, si azzardasse a venire contro di noi, peggio per lei! Quando io ricompongo nelle mie officine una macchina nuova, lo faccio per farla produrre, non perché riposi. Noi possediamo il primo esercito del mondo, e bisogna pure porlo in movimento, perché non si arrugginisca».

    Poi aggiunse con grave ironia:

    «Hanno formato un cerchio di ferro attorno a noi per affogarci. Ma la Germania ha il petto robusto, e le basta gonfiarlo perché si rompa il corsetto. Bisogna svegliarsi prima che ci vediamo ammanettare mentre dormiamo. Povero colui che se la prende con noi!»

    Desnoyers sentì la necessità di rispondere a queste spavalderie. Egli non aveva mai visto il cerchio di ferro di cui si lamentavano i tedeschi. L’unica cosa che facevano le nazioni era il non continuare a vivere spensierate e inerti, davanti alla smisurata ambizione germanica; si preparavano per difendersi da un'aggressione quasi sicura; volevano sostenere la loro dignità, calpestata ogni momento dalle più assurde pretese.

    «Ma non sono forse gli altri popoli», domandò «che sono obbligati a difendersi contro di voi che rappresentate un pericolo per il mondo?...»

    Una mano invisibile cercò la sua sotto la tavola, come alcune sere prima, per raccomandargli la prudenza. Però ora stringeva forte, con l’autorità che dà il dritto acquisito.

    «Oh, signore!» sospirò la dolce Berta. «Sentire queste cose da un giovane così distinto e che ha!....»

    Ma non poté continuare, poiché il suo sposo le troncò la parola. Ora non erano sui mari d’America, e il consigliere si espresse con la rudezza del padrone di casa.

    «Ebbi già l’onore, giovanotto, di manifestarle» disse, imitando la tagliente freddezza diplomatica «che lei non è altro che un suddito americano, e ignora le cose d’Europa».

    Non lo chiamò indio, ma Julio udì internamente lo stesso la parola, come se il tedesco l’avesse proferita.

    Ahimè! se l’artiglio celato e soave non lo avesse soggiogato con le sue emozionanti contrazioni!... Ma questo contatto gli mantenne la calma, facendolo persino sorridere.

    Caro capitano, disse mentalmente, è il meno che tu possa dirmi per risarcirti.

    E qui finirono le sue relazioni con il consigliere e il suo gruppo.

    I commercianti, vedendosi sempre più vicini alla loro patria, si andavano spogliando del servile desiderio di essere compiacenti con coloro con i quali si accompagnavano nei loro viaggi nel nuovo mondo; dovevano inoltre occuparsi di gravi cose. Il servizio telegrafico funzionava senza sosta; il comandante della nave conferiva nella sua cabina col consigliere, essendo egli il compatriota di maggiore importanza; i loro amici cercavano i luoghi più reconditi per parlare fra di loro. Persino Berta cominciò a sfuggire a Desnoyers. Gli sorrideva da lontano, ma il suo sorriso era diretto più ai ricordi che alla realtà presente.

    Fra Lisbona e le coste dell’Inghilterra Julio parlò col marito per l’ultima volta. Tutte le mattine apparivano sulla bacheca dell’antisala notizie allarmanti, trasmesse dal radiotelegrafo. L’impero si stava armando contro i suoi nemici; Iddio avrebbe castigato costoro facendo cadere su di essi ogni specie di disgrazie. Desnoyers restò stupito di meraviglia di fronte all’ultima notizia:

    Vi sarebbero a Parigi in questo momento trecentomila rivoluzionari; i sobborghi esterni comincerebbero a bruciare; si riprodurrebbero gli orrori della Comune.

    «Ma questi tedeschi sono diventati matti!» gridò il giovane davanti al radiotelegramma, circondato da un gruppo di curiosi stupiti al pari di lui.

    «Perderemo quel poco di senno che ci resta. Quali rivoluzionari sono mai diventati? Quale rivoluzione può scoppiare a Parigi, se gli uomini del governo non sono reazionari?»

    Una voce si levò dietro di lui, rude, autoritaria, come se pretendesse troncare i dubbi dell’uditorio. Era Herr consigliere colui che parlava.

    «Giovanotto, quelle notizie le mandano le prime agenzie di Germania... E la Germania non mente mai».

    Dopo quest’affermazione gli volse le spalle e non si videro più.

    All’alba seguente (ultimo giorno di viaggio) il cameriere di Desnoyers lo svegliò frettolosamente.

    «Herr, salga in coperta: un grazioso spettacolo».

    Il mare era velato dalla nebbia, però fra i fitti veli si notavano alcuni profili simili a isole dalle torri robuste e dagli acuti minareti. Le isole avanzavano sull’acqua torbida, lente e maestose, con tetra gravità. Julio ne contò fino a diciotto; sembravano riempire l’oceano. Era la squadra della Manica, che allora usciva dalle coste dell’Inghilterra per ordine di quel governo, senz’altro scopo che di far constatare la sua forza.

    Per la prima volta, vedendo fra la bruma quella sfilata di dreadnought, che evocavano l’immagine di un gregge di mostri marini della preistoria, Desnoyers si diede esatto conto della potenza britannica. Il piroscafo tedesco passò fra esse rimpicciolito, umiliato, affrettando il suo cammino.

    Si direbbe, pensò il giovane che ha la coscienza inquieta, e desidera mettersi in salvo.

    Presso di lui un passeggero sud-americano scherzava con un tedesco.

    «Se la guerra fosse stata già dichiarata fra loro e i tedeschi! Se ci facessero prigionieri!»

    Dopo mezzogiorno entrarono nella rada di Southampton. Il Friederich August mostrò fretta di uscirne prestissimo. Le operazioni si fecero con vertiginosa rapidità.

    Il carico fu enorme; carico di persone e di equipaggi. Due vapori pieni abbordarono il transatlantico. Una valanga di tedeschi residenti in Inghilterra invase le coperte con l’allegria di chi calpesta il suolo amico, desiderando di vedersi al più presto in Amburgo. Poi la nave avanzò per il canale con una rapidità insolita in quei luoghi. La gente, raccolta lungo le rive, commentava gli incontri straordinari in questo boulevard marittimo, frequentato di solito da navi pacifiche. Vari pennacchi di fumo in fondo all’orizzonte erano quelli della squadra francese, con a bordo il Presidente Poincaré, che ritornava dalla Russia. L’allarme europeo aveva interrotto il suo viaggio. Dopo si videro altri piroscafi inglesi, che gironzavano innanzi a quelle coste, come mastini aggressivi e vigili.

    Due corazzate dell’America del Nord si fecero conoscere dalla forma dei loro alberi. Poi passò a tutto vapore, in rotta per il Baltico, una nave russa bianca e lucida dalla coffa fino alla linea di immersione.

    «Si mette male!» ripetevano i viaggiatori provenienti dall’America. «Molto male! Sembra che questa volta la cosa sia seria».

    E guardavano con inquietudine da un lato e dall’altro le coste vicine. Offrivano queste l’aspetto consueto, ma dietro di esse si stava forse preparando un altro periodo di storia.

    Il transatlantico doveva arrivare a Boulogne a mezzanotte, aspettando fino all’alba perché sbarcassero comodamente i viaggiatori. Senza ostacoli arrivò alle dieci, gettò l’ancora lontano dal porto, e il comandante diede ordine che lo sbarco si facesse in meno di un’ora. Per questo aveva accelerato il cammino, consumando carbone; bisognava allontanarsi quanto prima, cercando di rifugiarsi ad Amburgo; non per nulla avevano tanto funzionato gli apparecchi radiotelegrafici.

    Alla luce dei fanali azzurri, che spandevano sul mare un chiarore pallido, cominciò il trasbordo dei passeggeri ed equipaggi diretti a Parigi, dal transatlantico al rimorchiatore.

    «Presto! Presto!»

    I marinai spingevano le signore dal passo lento che ricontavano le loro valige, credendo di averne persa qualcuna. I camerieri caricavano i bambini come se fossero pacchi. La precipitazione generale faceva scomparire l’esagerata e untuosa amabilità germanica.

    Sono come degli staffieri, pensò Desnoyers; credono prossima l’ora del trionfo, e non credono sia necessario fingere...

    Si vide un rimorchiatore danzare sulle onde, di fronte alla murata nera e immobile del transatlantico, crivellato di dischi luminosi e con le terrazze coperte di gente, che salutava agitando i fazzoletti. Julio riconobbe Berta, che muoveva una mano ma senza vederlo, senza sapere in quale rimorchiatore egli si trovasse, per un bisogno di manifestare la sua gratitudine per i bei ricordi, che si andavano a perdere nel mistero del mare e della notte.

    «Addio, consigliera!»

    Cominciò ad aumentare la distanza fra il transatlantico, che ripartiva, e i rimorchiatori, che navigavano verso l’entrata del porto. Come se avesse aspettato questo momento d’impunità, una voce stentorea si levò dall’ultima coperta con un accompagnamento di rumorose risate.

    «A più tardi! Ci rivedremo a Parigi!»

    E la banda musicale, la stessa banda che tredici giorni prima aveva meravigliato Desnoyers con la sua inaspettata Marsigliese, intonò una marcia guerresca del tempo di Federico il Grande; una marcia dei granatieri con accompagnamento di trombe.

    Così andò a smarrirsi nell’ombra, con la precipitazione di una fuga e l’insolenza di una vendetta prossima, l’ultimo transatlantico tedesco a toccare le coste francesi.

    Tutto ciò era accaduto la notte prima; non ancora erano

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