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Il patto dei gentiluomini: Le indagini dell'intendente Navarra
Il patto dei gentiluomini: Le indagini dell'intendente Navarra
Il patto dei gentiluomini: Le indagini dell'intendente Navarra
E-book360 pagine4 ore

Il patto dei gentiluomini: Le indagini dell'intendente Navarra

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Info su questo ebook

All’intendente Rodrigo Navarra hanno sparato, proprio fuori dal commissariato di Managua. Sa chi è stato, non sa perché. Navarra trascorre la convalescenza nella tenuta di Llano Grande, in Costa Rica, dove la madre vive con il secondo marito, Osvaldo Letencourt, un tempo responsabile della DIS, il servizio segreto costaricano, continuandovi però ad avere un ruolo di primo piano. Sarà proprio Letencourt a coinvolgere l’intendente in quello che all’apparenza sembra un “ordinario” caso di omicidio, quello di un guardaboschi.
Letencourt mette al corrente Navarra di appartenere, unico civile, a un gruppo di ufficiali centroamericani che, in maniera clandestina, in tempo di guerra ha aiutato gli oppositori alle dittature a fuggire, in tempo di pace combatte le nuove minacce alla democrazia, soprattutto il narcotraffico. Il gruppo si è autodefinito “El Pacto de los Caballeros”.
Ci sono però dissidi tra i “gentiluomini”. E c’è una talpa… E il servizio segreto americano…
La prima indagine dell'intendente Navarra è "Il segreto di Julia", pubblicato da VandA.ePublishing nel 2013.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2014
ISBN9788868990541
Il patto dei gentiluomini: Le indagini dell'intendente Navarra
Autore

Maurizio Campisi

Maurizio Campisi (Rivoli, 1962) è stato collaboratore e corrispondente di varie riviste italiane ed estere (Diario, Narcomafie, D di Repubblica, Peacereporter, La Juventud di Montevideo, Liberación e altre). Free lance, attualmente è corrispondente dall’America Centrale per la Radio Televisione Svizzera e per la appzine L’Indro. Ha pubblicato due libri, Centroamerica. Reportages e Sandino. Il generale degli uomini liberi (entrambi per Fratelli Frilli Editori, Genova), e l’e-book Pelle di Serpente, lo sfruttamento infinito delle risorse dell’America Latina (Editorial Intangible, Valencia), pubblicato anche in spagnolo e in edizione cartacea per Marcovalerio, Torino. Vive in Costa Rica.

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    Anteprima del libro

    Il patto dei gentiluomini - Maurizio Campisi

    1

    La prima cosa che avvertì fu il freddo. Una folata fresca sul suo viso che si propagò come una scarica elettrica al resto del corpo. Poi, un profumo vagamente conosciuto, di cui cercò traccia, senza fortuna, nella memoria. Provò ad aprire gli occhi, ma riuscì solo a roteare le orbite, incapace di reagire. Consumato dallo sforzo, cadde di nuovo nel torpore, nel sonno buio e tormentato che lo teneva inchiodato in un limbo che gli procurava angoscia e sofferenza.

    La donna nella stanza non si rese conto di quella repentina e breve presa di coscienza del malato e continuò a osservare oltre la finestra la linea della cordigliera che si stagliava precisa nel cielo terso. Stava albeggiando e si sentiva stanca. Aveva voglia di scendere al pianterreno a prendere un caffè nel bar dell’ospedale, vedere gente, ascoltare suoni e parole, uscire da quella camera ovattata che le procurava solo tristezza e apprensione. Era la sesta notte di fila che passava al capezzale del malato.

    L’infermiera entrò senza bussare e sobbalzò quando vide la donna.

    «Mi scusi, sono del nuovo turno. Non sapevo della sua presenza» balbettò. Si avvicinò al letto e controllò tubi e cateteri.

    «La soluzione salina sta terminando. Adesso gliela cambio. Come ha trascorso la notte?»

    La donna fece un gesto lieve nell’aria.

    «Come al solito.»

    «Vada a fare colazione. Intanto io penserò a cambiargli il siero e a mettere un poco di ordine nella stanza.»

    La donna assentì. Gli ospedali privati saranno stati costosi, ma almeno offrivano comodità che erano sconosciute a quelli pubblici. La riservatezza del dolore, per esempio, la sofferenza relegata a un fatto personale, da condividere solo con gli affetti e le persone care in una propria camera. Il resto del mondo restava fuori, escluso. Non c’era paragone con l’essere abbandonati in una corsia ad alimentare la curiosità degli altri, a soddisfare la morbosità di sconosciuti passanti. Tutto si svolgeva secondo un rito privato, che non lasciava spiragli all’indiscrezione altrui, nella difesa della propria intimità.

    «Vado a fare colazione» annunciò all’infermiera.

    «Vada pure. Se succede qualcosa, l’avviso.»

    Prese l’ascensore e, una volta nell’atrio, si diresse verso la caffetteria e chiamò casa.

    Osvaldo Letencourt rispose con la voce ancora impastata di sonno.

    «Come va?» le chiese.

    «Niente di nuovo. Tu?»

    «Mi sto appena alzando.»

    «Vai in ufficio?»

    «Sì, oggi è giorno di riunioni. Tu fra quanto arrivi?»

    «Pensavo di fermarmi ancora un paio d’ore. Non mi aspettare.»

    Osvaldo si lasciò scappare un grugnito di disapprovazione.

    «Mi piacerebbe ogni tanto fare colazione insieme.»

    «Conosci la situazione.»

    «Sì, hai ragione. Scusami. So che il momento è difficile.»

    «Dobbiamo avere pazienza.»

    «Non pensare a me. Piuttosto, riguardati.»

    La donna riattaccò dopo aver salutato con un filo di voce.

    Osservò il viavai della caffetteria. Un paio di tavolini erano occupati da alcuni medici dall’aria assonnata, che avevano smesso il turno di notte. Parlavano tra di loro senza entusiasmo, come aspettando che il caffè si raffreddasse abbastanza per andarsene finalmente a casa.

    Ordinò un caffelatte, una brioche e un succo di arancia. Si sentiva a pezzi. Aveva dormicchiato un paio di ore quella notte, incapace di prendere sonno, sempre attenta ai movimenti del malato. Quel dormiveglia le aveva dato il tempo di ripensare agli avvenimenti degli ultimi giorni.

    Tutto era cominciato una settimana prima, quando aveva ricevuto una telefonata dall’ex marito Carlos, una chiamata che le aveva fatto accapponare la pelle. Le aveva dato la notizia con il suo solito tono distaccato e imperturbabile, come se il fatto non lo riguardasse. Poi, per il resto della telefonata avevano solo litigato: nonostante la gravità in cui versava il loro figlio, l’ex marito insisteva che l’ospedale di Managua dove era ricoverato rispondesse a tutti i requisiti per affrontare l’emergenza. Dopo venti minuti di accesa discussione, lei aveva interrotto la comunicazione. Inutile perdere tempo in chiacchiere. Aveva chiamato immediatamente Osvaldo e gli aveva spiegato la situazione. In meno di un’ora un piccolo jet-ambulanza decollava dall’aeroporto Juan Santamaría con destinazione Managua. Niente e nessuno le avrebbe impedito di seguire il suo proposito. Alla fine di quella giornata burrascosa suo figlio, intubato e privo di conoscenza, era giunto in Costa Rica e trasportato in un ospedale privato, dove aveva subito ricevuto le cure necessarie. Alla prima valutazione delle ferite i medici l’avevano rassicurata: le pallottole non avevano leso punti vitali. Anche così, però, avevano dovuto indurre nel paziente un coma farmacologico per poter intervenire chirurgicamente. L’operazione era riuscita, ma nonostante la riduzione delle dosi dei barbiturici, suo figlio non si era ancora risvegliato.

    Stava pensando se sarebbero sorte delle complicazioni, quando un’infermiera le si avvicinò e le toccò con riguardo la spalla.

    «Doña Milena?»

    Al sentire il suo nome si riscosse bruscamente dai pensieri.

    «È meglio che venga. C’è bisogno di lei sopra.»

    2

    La natura gli era piaciuta sin da quando era bambino. Ricordava che era stato suo padre a portarlo per la prima volta a visitare un parco nazionale, quando lui aveva poco più di cinque anni. Il ricordo era sbiadito, appena un’eterea traccia nella sua memoria, eppure era sicuro che quegli odori, quei suoni, quelle sensazioni che provava all’entrare nel cuore dell’universo verde delle foreste pluviali e delle giungle tropicali gli si era stampato addosso da quel primo momento. La passione, poi, era cresciuta da ragazzino, quando aveva imparato ad accamparsi, a conoscere i sentieri, i nomi degli animali e delle piante, a distinguere orme, decifrare segnali. Aveva assimilato ogni conoscenza che avesse un riferimento con l’ambiente, obbligando suo padre, ad ogni vacanza da scuola, a portarlo a visitare le varie riserve naturali del Paese. Era stato un apprendistato giocoso, ricco di fatti insoliti e colpi di scena, come se la natura fosse lì solo per serbargli novità, dove i noiosi concetti spiegati sui libri di scuola trovavano immediato riscontro nella realtà. A tredici anni era già in grado di affrontare da solo le piste che partivano dai boschi per raggiungere i più alti picchi del Paese, di orientarsi tra gli intricati sistemi delle foreste pluviali.

    Una volta terminato il liceo si era iscritto a scienze forestali e, appena presa la laurea, aveva partecipato al primo concorso per guardaparchi istituito dal ministero dell’Ambiente, piazzandosi tra i primi tre classificati. Ora faceva capo alla stazione del Juan Castro Blanco, un parco di quattordicimila ettari di estensione che si trovava nel centro della cordigliera che tagliava in due la Costa Rica. Era un posto dimenticato da Dio e Ignacio Caliendo ci si sentiva a suo agio. Non che fosse un solitario, ma quell’isolamento lo trasportava in un emotivo e soprattutto costante viaggio interiore di cui sentiva un’enorme necessità in quel momento della sua giovane vita. Non aveva ancora ventisei anni e alla città o alle agitate serate nei locali della movida della capitale preferiva la tranquillità dei boschi. Ciononostante, non era un eremita, e quando terminava il suo turno settimanale gli piaceva tornare a San José, alla civiltà – come la chiamava lui –, e incontrarsi con gli amici. Erano notti brave quelle che trascorreva, che finivano davanti al bancone dell’ultimo bar aperto oppure nel letto di una compagna occasionale. Ignacio non si era mai fatto problemi. Credeva che la vita offrisse circostanze speciali e che bisognava approfittare delle opportunità quando si presentavano. Si sentiva libero e indipendente, fuori dagli schemi, e non si era mai sentito in colpa per le decisioni che prendeva. Le sue vicissitudini nella capitale erano solo una parentesi obbligata, che si intercalava con quella che riteneva la sua vera dimensione. Camminare nel parco, inoltrarsi nei sentieri, osservare gli animali lo innalzavano a un livello superiore di quello offerto agli altri mortali. Si sentiva un privilegiato, quasi un eletto per quella relazione speciale con la natura, e il parco era diventato il suo personale regno, di cui conosceva ogni anfratto e angolo occulto.

    Il Juan Castro Blanco era una delle riserve naturali più inaccessibili del Paese. L’interno era l’habitat naturale di centinaia di specie animali, dalle più innocue, come le rane, il basilisco, il quetzal, fino a quelle più pericolose, come il boa, il giaguaro o il letale terciopelo, il serpente velenoso che aveva decimato le spedizioni dei Conquistadores impegnati nella scoperta del Nuovo Mondo.

    Bisognava conoscerlo bene per non perdersi. Al visitatore offriva pochi punti di riferimento, come la base d’entrata sulla riva del fiume Toro. Era quello l’ultimo bastione dell’umanità, perché dopo pochi passi si veniva inghiottiti dalla foresta vergine, che appariva impenetrabile e insondabile, un labirinto per i neofiti.

    Ignacio aveva appreso a orientarsi con destrezza, al punto che ora era in grado di abbandonare il sentiero e addentrarsi nel folto della macchia senza per questo temere di perdersi. All’inizio, quando aveva cominciato a lavorare, si avvaleva della bussola, oltre che di un semplice sistema di tacche sui tronchi e di bastoncini spezzati che aveva ideato e che lo aveva aiutato a inoltrarsi nelle profondità del bosco. Poi, diventato più esperto, aveva usato come riferimenti ruscelli, alberi secolari, colonie di termiti, tane abbandonate e tutto quello che poteva assisterlo in quell’intrico. Aveva imparato a riconoscere il pericolo dal comportamento degli scoiattoli, imperturbabili nelle loro faccende quotidiane e che si agitavano solo quando fiutavano l’insidia. Erano più affidabili delle scimmie e dei pappagalli, animali litigiosi che amavano fare baccano per faccende minime e, quindi, completamente inattendibili.

    Spesso, e quel giorno non era un’eccezione, si avvaleva di quelle sue conoscenze per fare colpo sulle turiste straniere che accompagnava nel bosco. Penetrare nel profondo della foresta era un’esperienza ineguagliabile per chi veniva dalla città. Al vedersi fuori del sentiero, circondato da una natura rigogliosa e asfissiante, il turista provava immediatamente l’ineluttabilità della propria fragilità come essere umano, era sopraffatto da quell’ambiente sconosciuto che, dopo pochi passi, da maestoso e affascinante risultava improvvisamente inquietante. Ignacio, volutamente, assumeva l’aria dell’esperto accondiscendente che guidava gli ignari turisti alla scoperta di quel mondo, rassicurandoli e dimostrando con la sua perizia e conoscenza che potevano e dovevano fidarsi di lui.

    Quel giorno stava ripetendo quell’esperienza con Jane e Margaret, due studentesse inglesi di zoologia che avevano deciso di compiere il giro dei parchi principali della Costa Rica per osservare il comportamento degli uccelli migratori. Erano stati abbastanza fortunati. Il Paese possedeva almeno 845 specie differenti, una vera delizia per gli osservatori stranieri e solo quella mattina erano riusciti ad avvistare almeno dieci esemplari rari che risultavano nella lista delle due studentesse. Si erano inoltrati nel parco dall’ingresso di Bajos del Toro e avevano camminato per ore compiendo un completo circolo, salendo fino alle pendici del vulcano Poás per poi ridiscendere nella stretta valle del fiume Toro. Ignacio le aveva convinte ad abbandonare il sentiero e, nonostante le proteste delle due studentesse, era riuscito a trascinarle fuori dalla pista, fino al letto del ruscello che scorreva impetuoso tra le due rive fitte di vegetazione. Ne era valsa la pena. La vista di una cascata di acqua cristallina che cadeva nel cratere di un vulcano spento aveva zittito in particolare Margaret, che non aveva fatto altro che lamentarsi durante tutto il tragitto.

    Ignacio le aveva ripagate con quella scena meravigliosa. Sapeva che le ragazze rimanevano sempre sorprese ed estasiate da quello spettacolo e, soprattutto, diventavano più accessibili. Per Ignacio era la maniera migliore per preparare il terreno. Jane era carina: appena sarebbero tornati a Bajos del Toro, prima di salutarsi, le avrebbe chiesto il numero di telefono per rivedersi quel fine settimana a San José.

    «Possiamo pranzare qui» le avvisò.

    Presero i panini dagli zaini e si sistemarono sulla piattaforma di una roccia che guardava verso la cascata e il cratere del vulcano.

    Ignacio parlava perfettamente l’inglese, che aveva appreso sin dalle elementari e perfezionato con un soggiorno nel parco di Lassen, nel nord della California. Con dettagli, prese a spiegare la storia di quelle formazioni vulcaniche che spuntavano un poco ovunque sulla cordigliera. Indicò le vette del Platanar a nord e del Poás a est, chiarendo come quasi tutte le montagne di quel luogo, in realtà, non fossero altro che vulcani, alcuni dei quali ancora in attività nonostante le cime ricoperte dalla vegetazione. Esaurito il discorso, iniziarono a parlare della vita delle studentesse in Inghilterra. Mentre Jane e Margaret spiegavano e illustravano le bellezze di Londra e della campagna inglese, Ignacio pensò che prima o poi avrebbe dovuto visitare il Vecchio Continente. Ne aveva sentito parlare tanto che ormai era venuto il momento di soddisfare la sua curiosità. Anche se preferiva la natura, lo attirava un viaggio per le capitali europee: Londra, Parigi, Roma, Madrid erano luoghi che avrebbe voluto vedere almeno una volta nella vita. Da come gli andavano le cose, non sarebbe stata una brutta idea sparire per alcuni mesi dalla circolazione. Aveva messo via un buon gruzzoletto e l’Europa poteva essere una destinazione perfetta per far perdere le proprie tracce.

    Quando finirono di conversare, Ignacio invitò le ragazze a fare come lui, stendersi sulla roccia e riposare, lasciarsi abbacinare dal sole che splendeva su un cielo azzurro intatto, che si elevava come un soffitto sopra la cima degli alberi. Più tardi, magari, avrebbero anche fatto il bagno nella pozza d’acqua sotto la cascata.

    Non c’era nulla che avrebbe potuto rovinare quella giornata.

    3

    Osvaldo Letencourt cominciava seriamente a sentire gli acciacchi dell’età. Quella mattina, quando era arrivato in ufficio, era quasi rimasto bloccato con la schiena. La sciatica, pensò. Era uscito appena albeggiava per correre tra i boschi che circondavano la sua proprietà a Llano Grande de Cartago. A quell’ora faceva sempre freddo, complice la vicinanza del vulcano Irazú, che attirava sulle sue pendici dai contorni lunari le nubi che provenivano dall’oceano e che si fissavano sulla sommità della cordigliera. Fare jogging lo aveva aiutato per anni a mantenersi in forma, ma ora, alla soglia della settantina, il suo corpo riusciva sempre meno ad assimilare la stanchezza di quella corsa mattutina. Il freddo si posava sulle sue ossa come un ospite indesiderato e nemmeno il caffè bollente che era solito bere di ritorno dai boschi riusciva a riscaldarlo. Doveva così ricorrere alla doccia, sotto il cui getto di acqua calda stava per lunghi e confortanti minuti. Anche così, però, le articolazioni avevano a preso a dolergli. Era un fastidio che era apparso qualche mese prima e che Letencourt addebitava a un’artrite incipiente. Si trattava però di una sua supposizione, perché, nonostante l’insistenza di Milena, non ne aveva voluto sapere di rivolgersi a un medico.

    Quella mattina il dolore sembrava non volerlo abbandonare. Con disappunto, prese l’ascensore e scese al primo piano, per dirigersi in infermeria. Lucrecia, l’infermiera, stava compilando dei moduli quando lui entrò nell’ambulatorio.

    «Don Osvaldo!» lo salutò con enfasi. «A che si deve la visita?»

    Letencourt spiegò la causa del suo dolore e Lucrecia gli iniettò una dose di Buscopan che lo fece immediatamente sentire meglio.

    «Questa storia dell’età mi fa perdere la ragione.»

    «Non si preoccupi: lei ha una salute di ferro.»

    Lucrecia lo diceva con cognizione. Da quando era lì, non ricordava di aver visto don Osvaldo ammalato.

    Letencourt borbottò una serie di espressioni formali e uscì dall’infermeria, non prima di aver promesso a Lucrecia di portarle, uno di quei giorni, una sporta dei fichi che crescevano nella sua finca di Llano Grande.

    Erano quasi tre decadi che lavorava alla DIS, la Dirección de Inteligencia y Seguridad. Ne era stato anche il direttore per cinque anni, gli ultimi prima di pensionarsi. Un ritiro, però, che era stato solo un diversivo. Letencourt, infatti, aveva continuato non solo a collaborare con la DIS, ma a mantenere un ruolo attivo, affiancando Diego Salas, il nuovo direttore. Solo lui, infatti, possedeva l’esperienza sufficiente per affrontare le situazioni di crisi che, periodicamente, ricadevano sul dipartimento. Salas era un funzionario abile, ma relativamente giovane, che aveva bisogno della presenza e dei suggerimenti di un vecchio esperto dei problemi della regione come era Letencourt. Per quasi tre anni, prima di ottenere la direzione del Servicio, era stato suo vice e fin dai primi momenti i due avevano subito legato: Salas sapeva che aveva solo da imparare dall’esperienza del collega più anziano e accettava di buon grado i consigli che gli venivano suggeriti.

    Letencourt era già sul campo ai tempi delle guerre centroamericane e aveva trattato in prima persona le peggiori crisi che aveva vissuto il Paese, dall’attentato della Penca al sequestro dei magistrati della Corte Suprema di Giustizia. La sua presenza nell’agenzia era sinonimo di continuità tra il passato e il futuro e ne assicurava il prestigio.

    Osvaldo Letencourt, però, nonostante amasse il suo lavoro, sapeva che il tempo lo stava avvicinando al capolinea di quella lunga e autorevole carriera. Aveva ormai quasi settant’anni e si aspettava che da un momento all’altro gli chiedessero di lasciare definitivamente il servizio attivo. Se fosse accaduto avrebbe avuto infine il tempo di dedicarsi appieno alla finca di Llano Grande, dove allevava cavalli e dove aveva sviluppato una fiorente attività di piante ornamentali per l’esportazione. Milena insisteva perché prendesse una volta per tutte quella decisione, ma lui aveva sempre trovato una scusa per rimandarla. Riteneva che gli affari di Stato fossero una parte prominente della sua vita. Aveva provato ad andare in pensione qualche anno prima, ma era intervenuto il presidente in persona a persuaderlo dal fare quella scelta. Ora, però, forse quegli acciacchi erano un segnale, un avvertimento che gli suggeriva di prendere in seria considerazione il ritiro.

    Milena Del Valle era la sua seconda moglie. Si erano sposati venti anni prima, quando lui aveva appena compiuto il mezzo secolo di vita. Era stato un amore maturo il loro, sbocciato senza fare rumore, e che avevano coltivato nella quieta tranquillità della finca di Llano Grande. Milena era giunta dal Nicaragua sprofondato nella guerra civile, riprendendo possesso di una cascina che era stata della madre, poco fuori Cartago. Era divorziata da poco, situazione simile a quella che stava vivendo lui, reduce dalla separazione dalla prima moglie. Conosciutisi a un ricevimento e conversando per tutta la serata, avevano così scoperto di avere non solo il divorzio in comune, ma anche tante altre cose e molto più gradevoli. La passione per i cavalli, per esempio, o per i bolero di Armando Manzanero, la cucina tradizionale messicana e le passeggiate in montagna. Dopo tanti anni trascorsi insieme, Letencourt non si immaginava una vita senza quella compagna che, discreta e tenace, era diventata una parte imprescindibile del suo essere. Avrebbe dovuto lasciare quel lavoro solo per lei, per dedicarle il tempo che meritava.

    Diede una scorsa ai quotidiani mentre sorseggiava il secondo caffè della giornata. Era ovviamente preoccupato per le condizioni del figlio di Milena. L’aveva appoggiata in tutto quello che aveva potuto dal momento in cui avevano ricevuto la notizia del ferimento, ma aveva anche mantenuto una distanza discreta, rispettando il suo dolore e la sua apprensione. La conosceva ormai bene e sapeva che, in quella relazione madre-figlio, il suo posto era quello di una presenza a distanza in cui il suo compito era unicamente quello di farsi trovare pronto quando fosse necessario. Lo aveva fatto quando lei gli aveva chiesto di inviare un aereo privato a Managua e poi quando era riuscito, in poche ore, a mettere insieme la migliore équipe chirurgica del Paese. Di più, non avrebbe potuto fare. Ora, non gli rimaneva che attendere.

    Aveva appena cominciato a leggere l’editoriale del direttore della Nación, che fustigava l’ennesimo caso di corruzione nel partito di governo, quando Cecilia, la segretaria di Salas, fece capolino alla porta.

    «Don Osvaldo?»

    «Sì?» rispose distrattamente quasi senza alzare lo sguardo dal giornale.

    «Don Diego la sta aspettando in sala riunioni.»

    «Bene, bene. Vado subito.»

    4

    Quella mattina, il sonno che l’aveva tenuto prigioniero era improvvisamente svanito. A risvegliarlo era stato quel profumo conosciuto, un profumo di donna che si perdeva nel profondo della sua memoria e che l’aveva tirato fuori dal buco dove era caduto. Aveva aperto gli occhi cercandone l’origine, ma si era sorpreso di vedere sopra di sé il soffitto di una stanza che non conosceva. Quel che era peggio, era che si trattava della stanza di un ospedale e lui si trovava in un letto, intubato e attaccato a delle macchine. Cercò di tirarsi su, ma si rese conto di non avere assolutamente la forza per compiere quel semplice movimento. Cercò di concentrarsi e stava per fare un altro tentativo quando entrò un’infermiera.

    «Non si muova» gli ingiunse quando lo vide sveglio. «Aspetti che vado a chiamare un medico.»

    Fu quando si aprì nuovamente la porta e aspirò ancora una volta l’essenza di quel profumo che ricordò. Quel profumo era l’Anais Anais che usava sua madre.

    Doña Milena non poté trattenere le lacrime. Avrebbe voluto abbracciare il figlio, ma l’infermiera che era andata a chiamarla la trattenne, chiedendole di attendere l’arrivo del dottore.

    «Bisogna evitargli forti emozioni» disse, mentre annotava sulla cartellina il progresso del paziente.

    Rodrigo Navarra aveva aperto per la prima volta gli occhi da quando era stato ferito dai colpi d’arma da fuoco sparati da uno squilibrato.

    L’intendente aveva ricevuto tre pallottole: una l’aveva ferito al braccio sinistro, un’altra gli aveva perforato la spalla e l’ultima, quella che lo aveva tenuto tra la vita e la morte, si era depositata proprio sotto il cuore, al lato della vena cava. A Managua era stato operato d’urgenza, dove gli avevano suturato le ferite al braccio e alla spalla. Non c’era però stato verso di poter intervenire al cuore. L’équipe non era preparata. Carlos Navarra, che era stato chiamato al capezzale del figlio, si era sentito improvvisamente impotente di fronte alle spiegazioni del primario del reparto. Abituato a comandare, ad affrontare la vita sempre da una posizione di potere, aveva dovuto ammettere a sé stesso che quella situazione gli scappava dalle mani. Aveva così telefonato alla ex moglie, fingendo la solita, infinita sicurezza e una fiducia sul corpo medico nicaraguense che non aveva. Non sarebbe stato da lui riconoscere il fallimento. Doña Milena era andata su tutte le furie per il ritardo con il quale le stava dando la drammatica notizia del ferimento del figlio; quindi non si era risparmiata in epiteti e l’aveva minacciato, da donna energica e risoluta quale era sempre stata. Non solo lo aveva sollevato da ogni responsabilità, ma aveva noleggiato un aereo privato e aveva fatto trasportare il figlio in un ospedale di San José, dove era stato immediatamente operato. Carlos Navarra aveva ottenuto così quello che inconsciamente si era prefisso, aiutare suo figlio, senza per questo venire meno alla sua natura sciovinista e misogina.

    Quando l’intendente Rodrigo Navarra era stato operato, un esame più accurato aveva rivelato che la pallottola aveva appena sfiorato incredibilmente il cuore senza ledere funzioni vitali. I medici ci misero cinque ore, ma alla fine riuscirono a estrarre il proiettile e a ricucire. Navarra aveva sopportato bene l’operazione e per giorni era rimasto incosciente, mantenuto nel limbo dai barbiturici.

    Ora, stordito e frastornato nel ritrovarsi in un letto d’ospedale, provava solo una grande sete. Sua madre capì quella elementare necessità e gli diede da sorseggiare dell’acqua da una bottiglietta. Il dottore, giunto nel frattempo, lo visitava e, nel silenzio della stanza, annuiva con soddisfazione. Si soffermava in particolare sui segni vitali e sulle reazioni di Navarra agli stimoli. Era un esame a cui l’intendente rispondeva istintivamente, proprio come si aspettava il medico.

    Quando questi terminò, diresse la parola a doña Milena. «Il recupero, per quanto riguarda il risveglio di un paziente da un coma farmacologico, è accettabile. Ci sarà però bisogno del parere del cardiologo e degli specialisti che hanno partecipato all’operazione. Ora mi raccomando: riposo assoluto e niente emozioni.»

    Doña Milena assentì. Le fu concesso di accompagnare il figlio durante l’ora seguente. Navarra non parlò, si limitò a osservare l’ambiente intorno e, con rapidi e interrogativi sguardi, i tubi che lo mantenevano attaccato alle macchine. Sua madre cercò di spiegargli la situazione, senza però entrare nei particolari.

    «Sei rimasto ferito» gli sussurrava. «Va tutto bene. Devi solo stare tranquillo e pensare a recuperare le forze.»

    Navarra ascoltava e, dal posto lontano in cui era andata a adagiarsi la sua memoria, presero forma i primi ricordi. Lo sforzo, però, lo costrinse presto a chiudere gli occhi e a cercare rifugio nel sonno.

    Doña Milena gli si avvicinò e gli rimboccò le lenzuola, proprio come

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