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Scent of Rainbow
Scent of Rainbow
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E-book352 pagine5 ore

Scent of Rainbow

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Info su questo ebook

Quando nel 1901 arriva con la sua famiglia sull’isola caraibica della Martinica, il governatore Louis Mouttet, abituato agli agi della sofisticata vita coloniale, si aspetta di inaugurare la tappa più bella della sua carriera. Grazie a questo incarico, la prosperità, la felicità domestica e la considerazione sociale, raggiunte con il duro lavoro in quanto figlio di un calzolaio, dovrebbero raggiungere il loro temporaneo culmine. Eppure, appena giunto, il nuovo governatore si scontra con un muro impenetrabile di freddo rifiuto, e solo a stento riesce a preservare la propria autorità. Quando poi il vulcano del monte Pelée scuote la terra, seppellendo la città di Saint-Pierre, la ‘perla delle Antille’, sotto una coltre di cenere sempre più spessa, l’atmosfera politica che circonda Louis Mouttet incomincia a ribollire. Abbandonato sempre più a se stesso da Parigi, intrappolato nell’intrigo di fili politici della Terza Repubblica, tremante di malaria, il governatore si trova di fronte a una scelta che nessun politico francese era mai stato costretto a compiere prima di allora. Affidandosi a un lieto fine, trascura il potere del destino; poiché nulla può scongiurare il pericolo infernale dell’isola, un tempo doppiamente maledetta, né salvare la città, considerata empia. Una catastrofe di proporzioni inaudite si avvicina.

Il contesto storico: L’otto maggio del 1902, quasi tutti i 30.000 abitanti di Saint-Pierre perirono a causa dell’eruzione del monte Pelée. Per quasi un secolo ne fu attribuita la colpa a Louis Mouttet, il governatore dell’isola. Questa è la sua riabilitazione.

LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2021
ISBN9798201812201
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    Anteprima del libro

    Scent of Rainbow - Katharina Emilie Sachs

    Katharina Emilie Sachs

    Traduzione di Giulia Giani 

    Scent of Rainbow - E ti renderò oggetto di spavento

    ––––––––

    Autore Katharina Emilie Sachs

    ––––––––

    Copyright © 2009 Katharina Emilie Sachs

    ––––––––

    Copyright © 2021 Vibrant Books Verlag, Freiburg im Breisgau, Germany

    ––––––––

    Tutti i diritti riservati

    ––––––––

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    ––––––––

    www.babelcube.com

    ––––––––

    Traduzione di Giulia Giani

    ––––––––

    Progetto di copertina © 2021 Victoria Davies, England (GB)

    ––––––––

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    ––––––––

    A Louis Mouttet,

    che avrebbe meritato

    una sorte più misericordiosa

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    ––––––––

    Madinina, molto prima di Colombo

    Per la ragazza, ancora molto giovane, non c'era più scampo. Era nascosta da tre giorni nella foresta, da quando la terra si era messa a tremare, vagabondando alla vana ricerca di qualcosa di commestibile adatto a un bambino di poche lune. Il bambino, che ogni tanto aveva cercato disperatamente un po’ di latte dal suo seno, era sempre più affamato. Non c'era da stupirsi, neanche la loro madre infatti aveva avuto latte per il figlio: si era prosciugata proprio quando una nuvoletta sfuggita alla terra aveva risalito un pendio della montagna, cosa di cui lei non si era nemmeno accorta. Da allora neppure il guaritore era riuscito a far fluire nuovamente il latte, e per lui era stato chiaro che la dea del fuoco aveva inviato un segno che non poteva essere ignorato! Voleva il piccolo, altrimenti tutti loro avrebbero dovuto aspettarsi tempi funesti!

    Alla fine, le urla del bimbo avevano tradito la giovane donna, permettendo ai guerrieri di trovarla. Dagli archi tesi dei giovani uomini, freschi dei rituali di virilità, sporgevano ora da ogni lato tre frecce avvelenate, pronte per essere scagliate contro di lei. Sapeva che le avrebbero portato via il bambino, nonostante fossero suoi fratelli tribali. Uno dei giovani era in piedi proprio davanti a lei: era il suo fratello più anziano. Lo guardò negli occhi sperando di scorgervi un po’ di compassione e comprensione, ma ciò che vide le diede i brividi. Occhi neri, freddi e malvagi, angoli della bocca obliqui e colmi di disprezzo. Il suo tentativo di salvataggio era fallito.

    ––––––––

    Madinina, 1492

    Tamanaco si sentiva intontito. Il ricordo dell’incomprensibile gli offuscava la testa. All’inizio nessuno si era accorto dell’arrivo sulla spiaggia di innumerevoli piroghe, ciascuna con a bordo fino a cento uomini.

    La vicina, sua promessa sposa, stava sistemando ad arrostire sul fuoco una tarantola infilzata su uno spiedo, cantando; il nipote di tre anni aveva appena strillato per via del morso di qualche formica, e la sorella più piccola aveva portato in casa un millepiedi avvolto in una foglia di banano, con grande disappunto di sua madre. Alla ragazzina raggiante quasi non bastavano entrambe le mani per reggere la bestiaccia, tanto era grossa. La madre stava correndo dalla figlia per portar fuori di casa l’insetto, quando tutto a un tratto il canto della giovane innamorata si interruppe: una freccia l’aveva colpita a morte, e la terra rossa sotto di lei era diventata ancora più rossa.

    All’improvviso l’aria si era riempita di lance e frecce avvelenate; gli uomini avevano tentato di fuggire più in fretta possibile o di combattere con le armi da caccia. Ma entrambe le imprese si rivelarono disperate, poiché i guerrieri erano dappertutto e sbarrarono loro la strada con le frecce spianate. In vita sua, Tamanaco non aveva mai visto morire nessuno di morte violenta. Non fino all’incursione dei caribe. Suo nonno era morto in pace, di vecchiaia, dopo aver preso commiato da tutti. Alcuni fra i suoi fratelli piccoli inoltre erano stati posseduti dagli spiriti maligni e nemmeno lo sciamano, con le sue erbe, i canti e le fumigazioni, aveva potuto salvarli. Per loro la morte era giunta come una fiamma sempre più piccola su un rametto sottile, che a un certo punto semplicemente si spegne. E poi c'erano naturalmente i sacrifici rituali, lassù, sulla montagna di fuoco. Sacrifici che nulla poteva sostituire e dunque inevitabili, poiché il fiato bollente della collera degli dèi era spaventoso e in pochi minuti poteva cancellare un intero pendio ricoperto di vegetazione. Cosicché una volta all’anno tutti i membri della tribù si arrampicavano in processione sulla montagna, per uccidere su un grosso altare di pietra una giovane donna che non si adattava alla comunità del villaggio. Il corpo senza vita veniva quindi gettato nel portale per il mondo degli dei. Sebbene non piacesse a nessuno, nessuno avrebbe osato dubitare del rituale, se non altro perché la condanna della vittima avrebbe avuto comunque come conseguenza la sua espulsione dalla tribù. E poi, la montagna era da sempre un luogo sacro. Nessuno avrebbe potuto scalarla senza avvertire la sensazione di trovarsi vicino agli dèi.

    Ma per Tamanaco, anche a posteriori, ciò che gli era accaduto era al di là di ogni immaginazione. La crudeltà, la feroce determinazione con cui i caribe avevano massacrato tutti i maschi della tribù degli aruachi, senza prestare alcuna attenzione perfino alle proprie perdite!

    Gli anziani della tribù avevano sempre raccontato dei caribe come gli ‘uomini verme’. Gli anziani aruachi dicevano che molto tempo prima una donna aruaca fosse stata mandata via dalla sua famiglia. Così, per vivere, era fuggita nella boscaglia. Là aveva spontaneamente concepito due figli, a cui insegnò a odiare e combattere gli aruachi.

    E adesso erano tornati, con tutto il loro odio, per uccidere ogni uomo e ogni ragazzo che incontravano. Egli aveva sentito parlare della loro fama di impavida crudeltà, ma il vero significato sfuggiva alla sua immaginazione. Com'era possibile uccidere qualcosa che non fosse un animale e occuparsi di qualcosa che non fosse la raccolta quotidiana del cibo? Non bastava la lotta quotidiana per strappare alla natura la terra, e poi le piante utili come il mais nutriente, i bei pomodori o il sacro tobaco, per il resto della propria vita?

    Quando all’alba fu condotto al fiume affinché si lavasse, e dopo essere stato dipinto di nero dalla testa ai piedi, Tamanaco si rese conto che quello sarebbe stato il giorno della sua morte. Ma prima di raggiungere il luogo della sua esecuzione, la paura era stata ancora sopportabile. La stessa paura che meno di sei lune innanzi aveva già conosciuto al suo arrivo, accompagnato da canti beffardi, al villaggio dei mahotoyana, la gente del fuoco. Allora gli avevano legato l’estremità di una robusta corda intorno al collo, e avevano fissato l’altro capo a un montante angolare della capanna. Nella notte gli avevano inoltre messo dei sonagli alle caviglie per impedire anche soltanto il pensiero della fuga. Da allora aveva atteso che un giorno lo portassero via per ucciderlo, arrostirlo e infine divorare la forza e il coraggio contenuti nel suo cuore e nel resto del suo corpo.

    Ma adesso era diverso. Il momento era giunto. Tamanaco sentì un peso nello stomaco, come se tutto il sangue del corpo gli fosse precipitato nei piedi. In qualche modo le sue gambe si muovevano sul terreno polveroso, e oltre alla pesantezza plumbea dei propri piedi sul pavimento di terra l’unica cosa che poteva ancora percepire era la massurana, la corda che gli circondava il ventre. A destra e a sinistra, ciascuna delle due estremità era impugnata saldamente da un uomo a due passi di distanza. Era come se fra lui e il mondo si fosse innalzato uno spesso muro di nebbia, che lo avvolgeva mozzandogli il respiro, proprio come le nebbie sputate ogni tanto dalla grande montagna di fuoco. Fu sopraffatto da una sensazione di intorpidimento.

    Tamanaco afferrò un dardo che gli veniva porto da un guerriero per difendersi. Gli costò tutto lo sforzo di cui era capace per tenerlo in mano, sebbene in precedenza avesse sollevato oggetti molto più pesanti con grande agilità. Dov’erano finite la sua forza e la sua energia? Lo avevano abbandonato quando mesi prima lo avevano portato sul mare, sulle scogliere, lo avevano evirato e avevano gettato la sua virilità in mare? Ora non gli restava che il torpore. Tamanaco udì le grida delle donne anziane, e gli fu concesso di vedere il sole per l’ultima volta, da lontano, come da un altro mondo. All’improvviso dalla nebbia emerse un uomo giovanissimo dipinto di bianco. Teneva in mano una grossa mazza affilata. Doveva trattarsi del giovane che, uccidendo Tamanaco, sarebbe diventato uomo. Sarebbe stato l’unico a cui fosse vietato cibarsi della sua carne.

    Il giovane gli girò più volte intorno, cercando di provocarlo con la mazza. Tamanaco non reagì. Non percepiva più nulla intorno a sé al di fuori della sensazione di offuscamento, nebbia e irrealtà. Gli era tutto indifferente. La sua mente aveva cessato di pensare, così come il suo corpo aveva cessato di provare alcunché. Aveva cessato di vivere molto tempo prima che tre rapidi colpi di mazza gli percuotessero la nuca con mortale violenza e le tenebre della morte gli oscurassero la vista.

    ––––––––

    Martinica, Morne Rouge, inizio dicembre 1901

    Lo spiedo girava sul fuoco. Pauline, una mulatta sui venticinque anni, si avvicinò al focolare e tagliò ripetutamente dei pezzi di maiale per sé e i due figli. Lo aveva preparato con il metodo tradizionale barbacoa, cuocendolo per molte ore nel fumo sulla brace ardente. Si era goduta la tranquilla serata, in occasione della quale si erano riuniti i pochi parenti rimasti in seguito a un’epidemia di vaiolo. I cugini avevano abbattuto un maiale selvatico nella foresta, e così quella sera festeggiavano. Per tutta la sera e buona parte della notte avevano cantato, percosso i ka e suonato la coui, una chitarra con quattro lati. E naturalmente avevano danzato. Ma poi si era fatto tardi, e uno degli uomini voleva rimettersi in viaggio.

    «Aspetta ancora un istante e vengo con te», disse uno degli altri.

    «Non mi accadrà nulla!» rispose il primo.

    «Lo sai cos’è successo a missié Dillon!» L’uomo tamburellò dolcemente.

    Il primo uomo gemette. «Forse è successo, forse no. Qualunque cosa sia accaduta, nessuno oggi lascerà più una festa né scomparirà senza lasciare traccia! A meno che non sia stato chiamato via da qualcuno!»

    «Lo puoi ben dire! Il diavolo si porta via chi gli pare, quando gli pare!» intervenne un anziano zio di Pauline.

    «Sciocchezze», grugnì fra sé Althea, bis-prozia di Pauline e sacerdotessa vudù. «Sarebbe bastato fare un sacrificio a Papa Legba e lanciare un incantesimo sulla casa!»

    Pauline ascoltò la conversazione con sentimenti contrastanti, come per tutte le conversazioni di questo genere. Credeva a queste storie tanto quanto credeva in Gesù. Questo non le semplificava le cose.

    «Sì, certo», si intromise il suonatore di coui posando il suo strumento. «Come Thomasseau de Perinnelle!» A questo punto, anche gli ultimi smisero di cantare e danzare. Il gruppo fu percorso da un brivido. Il ricordo della vecchia storia era ancora vivido: il diavolo aveva preso dalla bara il cadavere di Perinnelle e lo aveva trascinato via attraverso una finestra della sua casa colonica.

    «Ancora oggi, la finestra non può essere chiusa da mani umane e nessuno è in grado di ripararla!»

    «Ma no!», esclamò Pauline. «Il diavolo può andare solo dove non c’è Dio! E tutti noi crediamo in lui, non è vero?»

    Si alzò un diligente mormorio.

    «E allora perché il diavolo ha preso missié Bon? Andava in chiesa, era credente?» indagò uno dei più giovani.

    «Missié Bon era un uomo crudele», rispose l’anziano zio. «Trattava i suoi schiavi in modo talmente orribile che il Bon-Dié un giorno mandò un gran vento per spazzare via missié Bon, la sua casa e tutto ciò che vi si trovava!»

    «E da allora nessuno ha mai più sentito parlare di lui», concluse il suonatore di coui.

    «Come fanno a saperlo, qualcuno l’ha visto?» Nella voce dell’uomo che voleva partire c’era una nota di scherno.

    Gli anziani annuirono con aria assorta.

    «E poi porterà via un’intera città», proseguì l’uomo in tono ironico, «e vedremo tutti anche quello!»

    ––––––––

    Fort-de-France, lunedì 9 dicembre 1901

    La Labrador entrò nel porto di Fort-de-France e il suo equipaggio si affaccendò alle ultime manovre necessarie allo sbarco dei passeggeri.

    Louis Mouttet, il nuovo governatore della Martinica, sapeva di non poter mostrare alcuna debolezza. Oltre a una gran folla, a terra lo attendevano Victor Sévère, sindaco di Fort-de-France, e i più alti funzionari amministrativi. Poteva già scorgerli, nonostante la Labrador, per via della sua mole, avesse gettato l’ancora parecchio distante nella rada.

    «Sei abbastanza in forze per andare?» Sua moglie Hélène lo guardò preoccupata, reggendo con il braccio sinistro Félix, il figlioletto di appena cinque mesi. Gli posò la mano libera sulla fronte, quindi accarezzò le onde dei suoi fitti capelli bruni. Lui non rispose.

    «Guardami!» la sua voce suonò ancora più preoccupata. Louis Mouttet volse gli occhi su di lei. Cosa gli aveva detto una volta Hélène, in un momento d’affetto? Occhi che parevano un lago di montagna osservato da una grande altezza, sul cui fondo luccicasse il granito, e dal colore cangiante secondo il gioco della luce. Inspirò profondamente l’aria tiepida e dolce. Lì ai Caraibi la luce era davvero estrema, ciò malgrado si sentì come se i suoi occhi fossero tutt’al più azzurro mare.

    Louis Mouttet annuì in silenzio e guardò la scialuppa decorata con un padiglione che li aspettava.

    «Sto bene.» Non gli era rimasta altra scelta se non voleva assumere la carica di governatore in modo inosservato, ancora prima di iniziare ufficialmente. Un tremito attraversò il suo corpo. Era sufficiente che solo lui ed Hélène sapessero come si sentiva quel giorno. Estrasse un fazzoletto dalla tasca della sua elegante divisa blu da governatore per tergersi il sudore dal viso. Si sudava parecchio da quelle parti, non significava nulla. Dopo due settimane in mare, nessuno avrebbe trovato insolito nemmeno il pallore cadaverico sotto la pelle abbronzata. Chi non ha mai sofferto il mal di mare? Ripose il fazzoletto nella tasca della giacca e ne estrasse un secondo dai pantaloni, che strofinò sulle scarpe con un gesto abitudinario, per poi mettere via anch’esso.

    Con uno scossone, la nave raggiunse la posizione definitiva.

    Offrì il braccio alla moglie. Hélène lo prese dopo aver consegnato il bebè a Lina, la balia. Louis Mouttet sapeva che lo faceva solo per il suo bene, dato che di solito insisteva per tenere i bambini quanto più possibile con sé finché erano piccoli. Dieci anni prima aveva perfino scritto al sottosegretario di stato per sincerarsi che Lucy, la primogenita allora di appena dieci mesi, fosse alloggiata a bordo nella sua stessa cabina.

    Ora invece indicò a Lucy di prendere per mano la sorella Hélène di cinque anni da una parte e Lina dall’altra.

    Louis Mouttet sentì un tremito alle ginocchia e un lieve annebbiamento, e afferrò il braccio di Hélène anche con l’altra mano. Lei la premette per un breve istante, con forza, calore e discrezione. Amava la sua consorte, la moglie perfetta di un governatore, sempre consapevole del momento giusto per essere forte e di quando invece fosse meglio cedergli il campo. Assunsero un atteggiamento più ufficiale possibile con l’intenzione di abbandonare la nave, proprio mentre il pavimento sotto di lui si sollevava sensibilmente per poi precipitare di nuovo verso il basso.

    Louis Mouttet incominciò a innervosirsi. «Credo di avere un attacco di febbre. Sento vacillare il pavimento sotto i piedi!» sussurrò alla moglie. Si avviò a cercare le pillole nella tasca della sua giacca.

    «Il pavimento ha vacillato anche sotto i miei! E poi sei guarito, lo sai!» La voce di Hélène era bassa e rassicurante. «Hai visto, no? Il livello del mare è cresciuto molto e poi è tornato giù, non è singolare?»

    Louis Mouttet non diede alcuna risposta. Era vero, i medici gli avevano detto che era completamente guarito e non doveva temere che la malaria si ripresentasse. Per il momento, una nuova infezione era da escludere, fortunatamente: in mare non c’erano sono zanzare. Eppure in quel momento si sentiva come se non potesse vivere né morire. Che gli importava a che gioco giocasse la natura quel giorno. La cosa importante era che avrebbe superato bene la serata. Così inspirò profondamente, e abbandonarono la nave.

    ––––––––

    Saint-Pierre, giovedì 19 dicembre 1901

    A bordo del Topaz, Louis Mouttet scrutò con grande interesse la baia di Saint-Pierre. Quel giorno il colore dei suoi occhi tendeva al turchese, anche se, in una gara fra loro per il colore più splendido, avrebbe vinto l’acqua. Nei momenti felici come quello era consapevole della ragione per cui sedici anni innanzi era entrato nel servizio per gli esteri. E pensò che dopo lo spiacevole inizio dell’incarico su quell’isola lui ed Hélène meritassero un po’ di tranquillità.

    L’accoglienza al loro arrivo era stata dignitosa, adatta a un governatore di seconda classe. Sul molo del porto di Fort-de-France era stato perfino innalzato un arco di trionfo in suo onore. La banda aveva suonato la Marsigliese, il sindaco aveva pronunciato un breve discorso, era stato esploso un colpo di cannone e alcuni soldati avevano salutato presentando le armi. Poi, dopo un breve viaggio in un carrozzino chiuso trainato da due cavalli, Mouttet e la moglie erano stati accompagnati all’Hôtel du Gouverneur, poco distante dal porto. Ma dopo aver immediatamente inviato un telegramma al ministro delle colonie Décrais per informarlo dell’assunzione del governatorato, per il momento le sue funzioni ufficiali si erano già concluse, dato che, dopo il cognac con cui si era conclusa la dîner serale di cinque portate, l’affaticamento cronico lo aveva completamente prostrato. Così era stato necessario rimandare a una data da destinarsi gli appuntamenti pianificati con i pezzi grossi dell’isola, il senatore Amédée Knight e un altro politico, Fernand Clerc. Louis Mouttet si sentiva in imbarazzo per aver posticipato quegli incontri di ben dieci giorni. Incominciò a fantasticare.

    Auspicabilmente lì non sarebbe stato come in Costa d’Avorio, dove era stato ammalato per quasi tutto il tempo del suo incarico! E dopo appena due anni, nel 1898, era stato costretto a lasciare il governatorato a un incaricato provvisorio per poter tornare a casa. Chissà quanto tempo avrebbe governato a Grand-Bassam se fosse stato in salute! Con uno stipendio annuo di 30.000 franchi! In Martinica poteva anche scordarselo, dato che il supplemento di rappresentanza di 10.000 franchi era stato annullato, mentre il supplemento al suo stipendio europeo era stato dimezzato. Così andavano le cose: a paesi e luoghi estremamente vantaggiosi corrispondevano paghe peggiori. Così la mediocrità seguiva indifferente alle promozioni: la carriera diplomatica era così. In realtà, rifletté Mouttet, fino a poco tempo addietro si era sentito assai ottimista, essendosi appena ripreso da tre mesi di convalescenza a Vichy.

    Non poté fare a meno di pensare a un passaggio del libro che stava leggendo, Cinque anni della mia vita di Alfred Dreyfus, in cui il pover’uomo aveva descritto i cinque anni trascorsi sull’Isola del Diavolo, terminati poco dopo che Mouttet era diventato governatore della Guyana francese. Poche settimane dopo il suo arrivo, Louis Mouttet aveva ricevuto un telegramma con l’ordine di rimpatrio di Dreyfus. Avendo appreso solo marginalmente della sua condanna all’ergastolo sull’Isola del Diavolo mentre si accingeva a lasciare il Senegal nel 1894, l’aveva considerata assolutamente giusta. Ma allora non aveva la minima idea dell’immeritato martirio subito da quell’infelice! Né che il suo animo sembrasse avere tanti punti di somiglianza con il proprio se considerava la sua devozione alla famiglia e alla patria, oltre al forte interesse per «tutte le creazioni dello spirito umano». Tutto ci sorrideva nella vita. Ricordi quando ti dicevo che non avevamo nulla da invidiare a nessuno? Posizione, patrimonio, amore reciproco, bambini adorabili... Insomma, avevamo tutto. Non una nuvola all’orizzonte... E poi una folgore spaventosa, inattesa, e così incredibile che ancor oggi mi sembra a volte di essere in balìa di un orribile incubo.

    Già, comprendeva perfettamente la felicità di una vita di successo, pensò Mouttet. Quel giorno il governatore si sentiva di nuovo del tutto in sé e più forte che mai, come se nulla potesse scuoterlo. Louis Mouttet riprese consapevolezza della città che si avvicinava. Saint-Pierre, la perla delle Antille, dicevano che fosse la più bella città dei Caraibi! La piccola Parigi! Lui ed Hélène avevano atteso quello spettacolo da quando, il 16 luglio, il decreto di Emile Loubet lo aveva nominato governatore dell’isola.

    Il sole donava alla città un tale splendore da far sembrare che brillasse di luce propria. Un mare di case, per la maggior parte color zafferano, le cui tegole rosso carminio formavano un delizioso contrasto con il verde scuro dei rigogliosi pendii retrostanti. I suoi pensieri tornarono alla lettura e al giorno dell’arresto di Dreyfus. Era una bella mattina fresca; il sole si alzava sull’orizzonte dissipando una foschia tenue e leggera; tutto annunciava una splendida giornata. Una splendida giornata come questa, pensò Mouttet.

    «Cosa ne pensi di una passeggiatina su una delle colline?» Madame Mouttet gli prese il braccio con dolcezza, premendolo in segno di incoraggiamento.

    Louis Mouttet non era altrettanto entusiasta. «Fin lassù?» Guardò sconcertato le colline che circondavano la città con le loro pareti ripide, separandola di netto dal resto dell’isola.

    Hélène Mouttet sembrava sapere che, nel dubbio, non era troppo debole bensì soltanto indolente per sopportare lo sforzo di una breve camminata.

    «Dai, andiamo!» tentò di persuaderlo lei.

    «Prima però andiamo al nostro appuntamento!» La sua voce baritonale, forte e appassionata, aveva un suono autoritario. La sollevò fuori bordo. Anzitutto avrebbero incontrato il sindaco Fouché, che senza dubbio già li attendeva insieme alla consorte per mostrare loro la città.

    L’incontro non fu particolarmente interessante. Il sindaco Fouché si rivelò un uomo che aveva assai poco da raccontare al di là delle funzioni di servizio e dell’eccellenza di alcuni cuochi. Per di più incominciava o terminava quasi tutte le frasi con un monsieur le gouverneur. Non aveva ancora mai lasciato Saint-Pierre, nemmeno per recarsi in altri luoghi sulla stessa isola; malgrado le sue innate doti diplomatiche, durante le presentazioni Mouttet temette di essere costretto a conversare con quell’uomo per un intero pranzo, dall’aperitivo al dessert. In quel caso, era probabile che per la prima volta nella sua carriera diplomatica avrebbero detto che non era un buon interlocutore. Si sentì meglio soltanto quando il sindaco annunciò che erano invitati anche l’ambasciatore inglese James Japp e il console americano Thomas Prentiss con la signora, oltre al vicario generale Parel e al cognato di Fouchés, il dottor Fleurisson. L’orizzonte intellettuale di Fouché era comunque piuttosto limitato! Benché fosse coinvolta in una vivace conversazione con madame Fouché, Hélène Mouttet si accorse chiaramente del suo nervosismo, e ogni tanto gli indirizzava sguardi sempre più divertiti. Così a un certo punto, per accomiatarsi, approfittò delle vanterie di Fouché a proposito del giardino botanico, che avrebbe innalzato in tutto il mondo la fama e la gloria non soltanto dell’isola, ma nientemeno che della Francia, e che non si trovava chissà dove ma proprio lì, nella sua città. Fortunatamente il giardino botanico sarebbe stato una meta più accettabile di una semplice passeggiata.

    Di nuovo soli, Louis Mouttet ed Hélène risalirono la morne Abel per le scale che conducevano fuori città. Una volta in cima si voltarono per vedere la baia di Saint-Pierre dall’alto. Era il mare più bello che avessero mai visto in tutti i loro soggiorni all’estero: piatto e chiaro come un cristallo di acquamarina levigato, ma di un colore talmente intenso da far invidia perfino al mare di Marsiglia, la sua città natale.

    Dopo una breve pausa decisero di proseguire, e si imbatterono nella fromagerie locale. Louis Mouttet era entusiasta. Amava i caseifici, gli unici elementi positivi che aveva potuto rilevare nella semplice vita di campagna a cui era stato costretto insieme al padre in seguito al fallimento della calzoleria. Un fallimento che non si sarebbe verificato se la morte prematura della madre non avesse condotto alla perdita del suo dignitoso reddito di sarta e alle continue bevute del padre al porto di Marsiglia.

    Entrò senza esitazione, mentre Hélène aspettò fuori.

    A dispetto della porta spalancata, nella piccola stanza l’atmosfera era soffocante. Si mise in fila dietro alcune persone e attese. La commessa, di origini europee e dall’espressione del viso che si abbinava alla perfezione all’odore del piccolo negozio, lo osservò con goffa curiosità. Malgrado i numerosi turisti dall’America e dalla Francia, erano pochi gli stranieri che andassero a comprarsi da sé il formaggio. I grandi alberghi viziavano troppo i loro ospiti perché ciò accadesse.

    Poco dopo il suo ingresso, nel negozio entrò una donna che lui trovò abbigliata decentemente, ma senza stile o eleganza. I suoi capelli erano spenti, l’espressione del viso severa, le labbra una fessura senza gioia.

    Essa si mise in fila dietro a una signora, chiamandola con il nome di madame Palé, apparentemente una conoscente. Questa stava riponendo il resto nel borsellino, gli acquisti ancora sul bancone. La donna senza stile si precipitò in picchiata verso il banco, come un gracchio dei Caraibi che adocchia un granchietto, senza prestare alcuna attenzione alle altre persone in attesa.

    «Mezzo chilo di vacherin, grazie!»

    Madame Palé la guardò irritata.

    La donna si era spinta con tale destrezza fra lei e il banco, in uno spazio appena sufficiente per una persona, perfino per una magra come l’ultima arrivata, da dover spingere con un gomito madame Palé, di una testa più bassa, per infilarsi nel buco. Madame Palé, derubata così spiacevolmente del suo posto e ora troppo vicina alla porta, guardò esterrefatta l’assalitrice, che al principio non fece alcun caso a lei. Dopodiché voltò il capo nella direzione di madame Palé, facendo scivolare casualmente gli occhi su di lei.

    Madame Palé approfittò dell’occasione per rimproverare la donna alta: «Perché non si allarga un altro po’?» Al che le rispose, con lingua tagliente e un’occhiata di sdegno: «Bastava chiedermi gentilmente di farmi da parte!»

    Così, quando madame Palé ebbe abbandonato la fromagerie, la signora senza stile si ritrovò

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