Leadership, carisma e personalizzazione della politica nelle sinistre europee in età contemporanea
Di Katia Massara e Paolo Perri
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Anteprima del libro
Leadership, carisma e personalizzazione della politica nelle sinistre europee in età contemporanea - Katia Massara
Paesi.
Note dei curatori
L’idea di organizzare un convegno internazionale sul tema della leadership, del carisma e della personalizzazione della politica nelle sinistre europee in età contemporanea, poi svoltosi nell’aprile del 2019 presso l’Università della Calabria, è nata da una riflessione comune con i colleghi Emanuela Minuto e Marco Manfredi dell’Università di Pisa, e dalla condivisa convinzione della necessità di una riflessione collettiva su alcuni temi sempre visti e percepiti a sinistra quasi come un tabù per il contrasto che implicavano con la dimensione di classe o con il principio di uguaglianza. Un approccio, ancora viziato da numerosi pregiudizi, che è ritornato al centro del dibattito scientifico dopo la comparsa di nuovi movimenti e partiti populisti negli ultimi decenni[1]. In tanti, infatti, specialmente a sinistra, continuano a guardare con sospetto o aperta ostilità alla leadership carismatica, associata e identificata con l’autoritarismo[2]. Gli studi condotti su partiti e movimenti legati alle classi subalterne, in realtà, indicano come tale aspetto sia sempre stato ben presente nella storia delle sinistre europee, marxiste e non, ma il persistere di quello che potremmo definire un endemico scetticismo verso il ruolo storico delle grandi individualità ha portato ad ascrivere questa categoria soprattutto ai movimenti di estrema destra.
Un legame sicuramente innegabile quello tra la figura del capo carismatico e la destra radicale, che trova conferma anche in molti dei nuovi fenomeni populisti di destra, e che concepisce la relazione tra leader e popolo in maniera decisamente autoritaria e verticistica. Al tempo stesso però, come emerso in alcuni dei saggi che compongono questo volume, un leader può essere concepito anche come un primus inter pares, o addirittura può diventarlo quasi inconsapevolmente, dimostrandosi capace di stabilire una relazione meno verticale, e/o autoritaria, tra lui e il popolo. Le tensioni populistiche
e i fenomeni di personalizzazione della politica, considerati ormai caratteristici del nostro tempo, sembrano avere però radici più antiche e trasversali, che si riflettono nelle diverse pratiche, linguaggi, modalità di comunicazione, teorie e ruolo della ricezione da parte dei militanti, e che una riflessione a più voci come questa ambisce a mettere in luce.
Il campo che ci siamo proposti di indagare non si è limitato ai soli mutamenti teorici e pratici all’interno delle organizzazioni votate alla difesa dei diritti dei lavoratori e delle minoranze, ma si è esteso anche – anzi, soprattutto – alle diverse tipologie e modalità di leadership all’interno di movimenti e partiti della sinistra, spesso molto diversi tra loro, e al ruolo guida interpretato da singole personalità, percepite come leader in alcuni casi anche al di là delle loro stesse intenzioni. Ci auguriamo pertanto di riuscire a contribuire e rilanciare il dibattito, interdisciplinare ma anche intergenerazionale, su temi probabilmente controversi e ancora poco dibattuti soprattutto in ambito storiografico, che metta a confronto esperienze, sensibilità e approcci metodologici differenti.
Un confronto di cui il convegno e questo volume rappresentano un primo piccolo passo che non sarebbe stato possibile senza il prezioso contributo di tutti i partecipanti, delle loro relazioni e della grande disponibilità al confronto dimostrata. Il nostro ringraziamento va inoltre, per il loro contributo, alla Regione Calabria, al Comune di Rende e di Cosenza e soprattutto al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, che ci hanno permesso di organizzare il Convegno e dare il via a questo (speriamo) fruttuoso confronto.
Arcavacata di Rende, Marzo 2020
I Curatori
Bibliografia
Cavalli 1987
L. Cavalli, Charisma and Twentieth-Century Politics, in S. Lash – S. Whimster (eds.), Max Weber, Rationality, and Modernity, Allen and Unwin, London 1987.
Garzia 2014
D. Garzia, Personalization of Politics and Electoral Change, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2014.
Karvonen 2010
L. Karvonen, The Personalisation of Politics. A Study of Parliamentary Democracies, ECPR Press, Colchester 2010.
McAllister 2007
I. McAllister, The Personalization of Politics, in R.J. Dalton – H.-D. Klingemann (eds.), Oxford Handbook of Political Behavior, Oxford University Press, Oxford 2007.
Moffitt 2016
B. Moffitt, The Global Rise of Populism: Performance, Political Style, and Representation, Stanford University Press, Stanford 2016.
Mouffe 2018
C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Roma-Bari 2018.
Poguntke, Webb 2005
T. Poguntke, P. Webb, The Presidentialization of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford University Press, Oxford 2005.
Viviani 2017
L. Viviani, A Political Sociology of Populism and Leadership, in SocietàMutamentoPolitica
, (8) 15, 2017, pp. 279-304.
[1]
Cavalli 1987; McAllister 2007; Poguntke, Webb 2005; Karvonen 2010; Garzia 2014;
Moffitt 2016;
Viviani 2017.
[2] Sul tema si rimanda a
Mouffe 2018.
Prefazione
Non sono stati soltanto l’organicità dell’impianto scientifico complessivo disegnato dagli organizzatori e il rigore critico e metodologico dei singoli contributi che si sono imposti all’attenzione dei partecipanti nell’aprile del 2019 ai lavori del Convegno internazionale su Leadership, carisma e personalizzazione della politica nelle sinistre europee in età contemporanea, svoltosi presso l’Università della Calabria e del quale il presente volume ricomprende gli Atti. L’aspetto che ha maggiormente colpito è stata l’originalità della trattazione, nell’attuale panorama della storiografia contemporaneistica nel nostro Paese, di un tema storiografico rimasto sino ad oggi incomprensibilmente in ombra e che è merito non piccolo degli ideatori del Convegno aver finalmente adeguatamente focalizzato.
Eppure è difficile non rilevare sino a che punto il tema della leadership, del carisma e della personalizzazione della politica abbia avuto grande rilevanza nella storia della sinistra europea e mondiale nel XX secolo. E ciò su ambedue i principali versanti della sinistra: quello socialista/socialdemocratico e quello comunista.
Per quel che concerne il versante comunista, il problema va ben oltre quello del carisma e della personalizzazione della politica per integrare una dimensione diversa: la vocazione comune a tutte le grandi rivoluzioni comuniste vittoriose ad assumere la figura del leader a vero e proprio mito di fondazione della compagine statale che dall’evento rivoluzionario si è originata.
Così è per Lenin, capo rivoluzionario del quale ancora in vita si celebra il ruolo di fondatore dello Stato che ha preso origine dalla Rivoluzione d’Ottobre vittoriosa. E che dire di Stalin, il prosecutore dell’opera di Lenin che, sgominati i suoi avversari, si vede riconosciuta già sul finire degli anni Venti la valenza carismatica di, per come lo definisce la stampa comunista internazionale, «capo amato dei lavoratori di tutto il mondo», per poi assurgere, dopo la conclusione vittoriosa della Seconda guerra mondiale, alla dimensione planetaria di artefice sommo della sconfitta del nazifascismo.
Fuori dal continente europeo, culto della personalità è quello che, seppure senza pervenire ai livelli parossistici dell’esperienza staliniana, circonda, già ancor prima del lancio della Rivoluzione culturale, la figura del grande timoniere
Mao Tse-tung. Un mito destinato a sopravvivere al crollo fragoroso del comunismo in Europa, anche grazie al processo di rimodulazione
cui è stato negli anni sapientemente sottoposto dai vertici del Partito comunista cinese: oggi il ritratto che si erge sull’ingresso principale della Città proibita e la statua che troneggia nel dirimpettaio mausoleo collocato all’altro estremo di Piazza Tienanmen non celebrano tanto il capo comunista, il condottiero della Lunga marcia, quanto il Padre della Patria cinese.
Analogo, seppure in un contesto territorialmente più limitato, si colloca il caso vietnamita, dove la figura del mitico leader comunista Ho Chi Minh ha assunto progressivamente il ruolo di Padre fondatore del riunificato Vietnam.
Diverso il caso di Cuba, dove dalla guerriglia vittoriosa si originerà un duplice mito: quello del lider máximo
Fidel Castro e quello, se vogliamo ancora più coinvolgente a livello mondiale, di Ernesto Che Guevara, il combattente per la liberazione degli oppressi entrato con la sua morte in battaglia nella leggenda dei Libertadores del continente sudamericano e la cui celeberrima foto col basco nero calato sulla fronte, lo sguardo triste e fiero, sarebbe diventata una delle più famose icone politiche del Novecento.
Sia pure in un contesto radicalmente diverso, quale quello di sistemi politici di pretta marca liberaldemocratica, il cui ordinamento pluripartitico non impedisce però né un sostanziale bipartitismo di forze politiche che si alternano alla guida dei rispettivi paesi (Gran Bretagna ma anche Germania), né la formazione, favorita dai sistemi elettorali a doppio turno, di due rassemblement che si contendono la guida della nazione (Francia), il fenomeno del carisma e della personalizzazione della politica interessa appieno la storia della sinistra nell’Europa occidentale dalla fine del secondo conflitto mondiale ai nostri giorni.
Non c’è chi non veda quanto l’esperienza e il prestigio di un politico di lungo corso quale François Mitterrand abbiano concorso a rendere possibile la rinascita del socialismo francese a lungo frammentato e diviso sino alla ricomposizione unitaria sancita nel Congresso di Épinay del 1971 che eleggerà Mitterrand segretario del rinnovato Partito socialista. Così come è evidente quanto la spiccata personalità di un leader carismatico come Mitterrand abbia favorito la non facile costituzione di un’alleanza elettorale poggiante sui socialisti e sui comunisti ma aperta ad altre forze laiche di sinistra, che, se sarà soccombente nelle elezioni presidenziali del 1974 in cui Mitterrand sarà al secondo turno battuto da Giscard d’Estaing, trionferà sia nelle presidenziali del 1981 che nelle successive del 1988, col risultato che Mitterrand ricoprirà la carica di Presidente della Repubblica più a lungo di ogni altro uomo politico della V Repubblica. Secondo solo a De Gaulle tra i grandi della politica francese del secondo dopoguerra, Mitterrand opererà all’insegna di una leadership poggiante su un forte carisma personale ed esercitata sul filo dell’equilibrio tra la gestione monocratica del potere da parte del Presidente di una repubblica semipresidenziale e il rispetto degli assetti costituzionali della Repubblica francese.
Più breve ma di straordinaria intensità la parabola politica di Willy Brandt, Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca dal 1969 al 1974 e ancora prima Sindaco di Berlino Ovest e Ministro degli Esteri. Un protagonista, Brandt, non solo della storia tedesca ma di quella dell’intero continente nel secondo dopoguerra. Ciò grazie alla straordinaria, geniale intuizione di quella Ostpolitik che stabilizzando il quadro geopolitico dell’Europa centrorientale e stemperando le tensioni della Guerra Fredda attraverso il superamento dei blocchi contrapposti, avrebbe nell’immediato garantito la sicurezza europea e meritato al suo ideatore il Nobel per la pace nel 1971, ma avrebbe altresì posto una delle premesse per la dissoluzione di un blocco comunista in cui l’Unione sovietica aveva perso la funzione di baluardo contro il revanscismo
tedesco e l’imperialismo
statunitense.
Più recente e per ciò maggiormente bisognosa di una pacata riflessione l’esperienza di Tony Blair, il brillante e, se ci è consentito il termine, fascinoso leader laburista a Capo del Governo britannico dal 1997 al 2007; artefice di un ambizioso quanto controverso progetto di riclassificazione politica del Labour party all’insegna dell’abbandono delle residuali scorie classiste e dell’adozione di una politica in cui il tradizionale obiettivo della giustizia sociale si contemperi con la possibilità offerta a tutti e a ciascuno di esprimere le proprie potenzialità competendo sul piano delle pari opportunità.
Forti personalità hanno altresì fortemente caratterizzato la storia del socialismo europeo nella penisola iberica nel secondo dopoguerra.
Segretario generale del rinnovato Partito socialista spagnolo dal 1974 al 1997, Felipe González ha segnato un’epoca nella storia della Spagna contemporanea ricoprendo ininterrottamente per quasi quattordici anni, dal 1982 al 1996, in assoluto il periodo più lungo nella storia della Spagna tornata alla democrazia, la funzione di Capo del Governo.
Tra i maggiori esponenti del Partito socialista portoghese in esilio negli anni di Salazar e suo leader indiscusso all’indomani della Rivoluzione dei garofani del 1974, Mario Soares fu a lungo protagonista di assoluto rilievo della scena politica portoghese imprimendo ad essa il segno della sua forte personalità dapprima come Capo del Governo e quindi come Presidente della Repubblica.
Passando alla considerazione della socialdemocrazia scandinava, un posto tutto particolare occupa la figura di Olof Palme, presidente per un quindicennio del Partito socialdemocratico svedese e ripetutamente Capo del Governo sino al suo assassinio nel 1986 ad opera, con ogni probabilità, di elementi d’estrema destra. Un leader, Palme, d’indiscusso prestigio che pur senza mai venir meno a una dichiarata avversione al totalitarismo comunista, riuscì a tenere aperto il dialogo con i paesi dell’Est e a intrattenere buoni rapporti con la Cuba di Fidel Castro e con il Cile di Salvador Allende; mentre sul piano interno il nome di Palme rimane indissolubilmente legato al consolidamento del cosiddetto modello svedese imperniato sul contemperamento di economia pianificata ed economia di mercato e su un modello di organizzazione sociale compendiato nel termine welfare state.
E in Italia? L’anomalia italiana rappresentata da un Partito socialista largamente minoritario in termini elettorali rispetto al Partito comunista, impossibilitato per sua stessa debolezza a dar vita a un rassemblement di sinistra a guida socialista e costretto a subire nelle coalizioni di centrosinistra la preponderante forza elettorale dell’alleato democristiano, ha fatto sì che ci sia stato in Italia con Bettino Craxi dal 1983 al 1987 un Governo a guida socialista ma che esso non abbia avuto una capacità d’incidenza sulle dinamiche economiche e sociali dell’Italia paragonabile a quanto realizzato nel resto dell’Europa occidentale dai governi a guida socialista, socialdemocratica, laburista.
Per quanto concerne specificamente l’Italia, molto opportunamente gli ideatori del Convegno nell’analizzare il fenomeno della leadership, del carisma e della personalizzazione della politica nelle sinistre europee in età contemporanea, hanno scelto di prendere le mosse da quella fase delle origini del movimento operaio e socialista italiano che certa storiografia marxista, a lungo egemone nel nostro Paese, ha inteso relegare al rango di preistoria
rispetto all’epifania dell’autentica sinistra rivoluzionaria rappresentata dal marxismo-leninismo. Tale è stato per l’appunto a lungo il prevalente approccio storiografico ai personaggi più rappresentativi della sinistra non comunista nel primo cinquantennio dopo l’Unità e sino alla cesura della Grande Guerra rappresentata da anarchici, socialisti riformisti, radicali.
Per quanto attiene all’universo libertario, un posto di assoluto rilievo occupa Errico Malatesta, l’esponente del movimento operaio e socialista italiano del periodo prefascista la cui notorietà internazionale in ambito anarchico può essere comparata solo a quella di Filippo Turati sul versante socialriformista. Una notorietà, ben antecedente a quella Settimana rossa che lo vide tra i protagonisti, della quale la grande mobilitazione di massa attuata il 9 giugno 1912 per protestare contro la sua paventata espulsione dal Regno Unito con manifestazioni che si svolsero a Londra, Parigi e altre città europee rappresenta una testimonianza significativa. Come nota opportunamente Pietro Di Paola, la personificazione di Malatesta, «l’anarchico più pericoloso al mondo», come prototipo dell’anarchia si era andata infatti già da tempo definita a livello transnazionale sull’onda delle peregrinazioni di Malatesta nei vari continenti. Da qui le reazioni di allarme negli ambienti governativi e d’irrefrenabile entusiasmo in tutti i settori dell’italico sovversivismo che si producono al ritorno di Malatesta in Italia negli ultimi giorni del 1919. In un momento in cui la conflittualità sociale del biennio rosso
sta toccando uno dei suoi punti culminanti, i militanti di sinistra sono galvanizzati dal trionfo delle liste socialiste nelle recenti elezioni politiche di novembre e il motto «fare come in Russia» suggestiona grandi masse di lavoratori, ben si comprende come Malatesta venga acclamato non solo dagli anarchici ma da vasti settori dell’intero proletariato organizzato come il Lenin d’Italia
che lo avrebbe guidato alla rivoluzione vittoriosa.
Ancor più di Malatesta il cui stile oratorio, basato sul metodo del dialogo socratico, puntava più sulla convinzione razionale che sulla suggestione emotiva, fu Piero Gori, se non il più influente sicuramente il più amato leader del panorama sovversivo italiano a cavallo fra i due secoli, ad incarnare meglio e più di ogni altro un anarchismo dalle forti connotazioni sentimentali ed emotive. Connotato spesso con soprannomi a sfondo religioso quali l’apostolo
o il Cristo
dell’anarchia, o con appellativi di derivazione spiccatamente letteraria come il poeta dell’anarchismo
o ancora d’intonazione decisamente romantica come il cavaliere errante dell’anarchia
, Gori fu fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento oggetto di un vero e proprio culto popolare. Una devozione in virtù della quale, come giustamente rileva Marco Manfredi, la sua immagine fu circondata da marcati richiami profetico-evangelici e contraddistinta da un notevole investimento sentimentale alimentato dal costante richiamo a motivi artistico-letterari.
Una forte connotazione religiosa con accenti financo decisamente messianici contraddistingue altresì la figura di uno dei precursori del movimento operaio e socialista: Camillo Prampolini, l’apostolo del socialismo
, il campione di un socialismo evangelico che del linguaggio cristiano e della figura di Cristo stesso, iniziatore di una grande rivoluzione non ancora conclusa, si avvale per inculcare la solidarietà fra gli oppressi, per risvegliare il sentimento della giustizia e della dignità morale fra le classi contadine. Fuorviante sarebbe tuttavia l’ingabbiamento della figura di Prampolini nello stereotipo riduttivo del socialista cristiano
, del mite apostolo del socialismo
. Perché trattasi invero di un dirigente socialista, forse il più amato tra quelle masse di diseredati tra i quali si esercitò la sua infaticabile opera di educatore, la cui presenza contraddistingue e scandisce, come giustamente sottolinea Silvia Bianciardi, tutti i momenti decisivi della parabola socialista: dal superamento dell’insurrezionalismo anarchico e dei limiti dell’esclusivismo operaistico all’affermazione di un modello di organizzazione sindacale, cooperativa e quindi politico-parlamentare destinato a celebrare i suoi trionfi nell’immediato dopoguerra per poi entrare in crisi a fronte del progressivo imporsi di quel leninismo che Prampolini, nella fedeltà alla sua concezione del socialismo democratico e gradualista, tenacemente avversò.
Al pari del Cavaliere errante dell’anarchia
Pietro Gori e dell’Apostolo del socialismo
Camillo Prampolini, un’aureola leggendaria circonda la figura del bardo della democrazia
Felice Cavallotti. Nel contesto della politica, non solo italiana, di fine Ottocento, in cui, come nota Emanuela Minuto, diffusa era la tendenza a coltivare deliberatamente il modello eroico attribuendo alla grande personalità del leader carismatico la funzione di costruzione e di aggregazione del consenso, nessuno meglio di Cavallotti interpreta il ruolo di cavaliere della libertà e della giustizia capace di vendicare i torti della povera gente. Acclamato da Garibaldi quale vendicatore delle plebi
, figlio della libertà tradita e custode della verità, il leader radicale interpretò magistralmente, come nota l’autrice, la missione di cavaliere-giudice del vero, della libertà e dell’onestà catalizzando uno straordinario fervore popolare che lo accompagnò fino alla morte in duello avvenuta nel pieno della crisi di fine secolo. In un contesto fortemente dominato dalla spettacolarizzazione se non dalla teatralizzazione della politica, si inserisce per l’appunto il ricorso frequente di Cavallotti alla pratica del duello, incomprensibile se non alla luce di una sorta di neogaribaldinismo in una situazione in cui, esauritasi la fase eroica delle spedizioni garibaldine, a dare continuità all’ideale cavalleresco erano i duelli attraverso i quali trovavano espressione i caratteri necessari dell’eroe romantico: energia, virilità, coraggio, per come impersonati dal bardo della democrazia
.
Passando a una fase storica successiva, la concezione gramsciana della leadership dagli anni giovanili all’elaborazione teorica dei Quaderni è l’oggetto dell’attento studio di Salvatore Cingari. Se è pur vero che il tema della leadership in Gramsci si riconnette a quello dell’elitismo, va tuttavia considerata la precisa distinzione che il pensatore sardo opera tra capo carismatico e capo rivoluzionario, dove il primo si impone demagogicamente relazionandosi direttamente alla massa per il tramite della spettacolarizzazione della politica, mentre il secondo attinge la sua forza e la sua stessa legittimazione politica dalla classe che rappresenta in quanto ad essa organicamente legato. La leadership così gramscianamente intesa è un momento del processo attraverso il quale si perviene all’ordine nuovo
: dalla massa disorganizzata e impotente all’organizzazione di contadini e operai, al partito bolscevico, al leader che ne interpreta la linea, che è Lenin. Una gradazione gerarchica dalla classe al partito al leader basata sul «prestigio e sulla fiducia», formata «spontaneamente» per «libera elezione» e volta a garantire il «massimo di libertà». Una posizione che il Gramsci dei Quaderni riconfermerà sostanzialmente ma al contempo tenderà ad affinare collegando meno l’ordine nuovo ai grandi leader e più alla dimensione collettiva del potere e del comando quale può e deve essere esercitata dal Moderno Principe, vale a dire dal partito come intellettuale collettivo.
Al periodo repubblicano si ricollegano invece due lucide quanto stimolanti analisi comparative. La prima è quella alla quale Alexander Höbel sottopone i diversi modelli di leadership impersonati da due segretari generali del Pci: Palmiro Togliatti e Luigi Longo.
Per quanto concerne Togliatti, non può sussistere dubbio alcuno sulla forte connotazione carismatica della sua leadership fondata sul non comune spessore culturale del personaggio, sulla lucida capacità argomentativa, quasi pedagogica
, sulla notorietà e il prestigio di dirigente della Terza internazionale, qualità tutte che lo ponevano su un piano nettamente superiore rispetto a qualsiasi altro dirigente del Pci al punto da legittimare lo stesso soprannome il Migliore
che, coniato dagli avversari in chiave ironica, finirà, come nota giustamente Alexander Höbel, con l’essere fatto proprio dal senso comune
interno al partito.
Sicuramente diversi