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La filosofia sociale del pragmatismo: Un’introduzione
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E-book259 pagine3 ore

La filosofia sociale del pragmatismo: Un’introduzione

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Negli ultimi anni il valore e l’originalità dei contributi di pensatori e pensatrici come Charles S. Peirce, William James, George Herbert Mead, John Dewey, Jane Addams e Mary Parker Follett sono stati riscoperti, suscitando una nuova ondata di studi e di interesse per il pragmatismo. Il volume ricostruisce l’apporto del pensiero pragmatista nell’ambito specifico della filosofia sociale, confrontandosi con altre discipline: la filosofia politica, la filosofia morale, la sociologia, la scienza politica e la psicologia. Vengono messe in luce e riorganizzate le discussioni interne a un movimento composito e plurale, animato da personalità complesse e impossibili da confinare in un ambito tematico o disciplinare ristretto. La ricostruzione della filosofia sociale pragmatista andrà così di pari passo con la riflessione sulla validità e l’originalità dei suoi risultati teorici.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2022
ISBN9788849140088
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    Anteprima del libro

    La filosofia sociale del pragmatismo - Mattia Santarelli

    Negli ultimi anni il valore e l’originalità dei contributi di pensatori e pensatrici come Charles S. Peirce, William James, George Herbert Mead, John Dewey, Jane Addams e Mary Parker Follett sono stati riscoperti, suscitando una nuova ondata di studi e di interesse per il pragmatismo. Il volume ricostruisce l’apporto del pensiero pragmatista nell’ambito specifico della filosofia sociale, confrontandosi con altre discipline: la filosofia politica, la filosofia morale, la sociologia, la scienza politica e la psicologia. Vengono messe in luce e riorganizzate le discussioni interne a un movimento composito e plurale, animato da personalità complesse e impossibili da confinare in un ambito tematico o disciplinare ristretto. La ricostruzione della filosofia sociale pragmatista andrà così di pari passo con la riflessione sulla validità e l’originalità dei suoi risultati teorici.

    Matteo Santarelli è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e comunicazione dell’Università di Bologna. Si occupa di filosofia sociale e filosofia delle scienze sociali. Ha pubblicato una monografia sul concetto di interesse in John Dewey.

    Syllabus

    Direzione di collana

    Roberto Brigati (Università di Bologna)

    Comitato scientifico

    Rosa Maria Calcaterra (Università di Roma Tre), Raffaella Campaner (Università di Bologna), Pia Campeggiani (Università di Bologna), Carlo Gentili (Università di Bologna), Giovanni Giorgini (Università di Bologna), Massimo Mazzotti (University of California at Berkeley), Stefano Oliverio (Università Federico II di Napoli)

    Questo volume è stato sottoposto a procedura di peer-review.

    Copyright © 2021, Biblioteca Clueb

    ISBN 978-88-491-4008-8

    Biblioteca Clueb

    via Marsala, 31 – 40126 Bologna

    info@bibliotecaclueb.it – www.bibliotecaclueb.it

    Matteo Santarelli

    La filosofia sociale del pragmatismo

    Un’introduzione

    Biblioteca-CLUEB_logoSN8_CMYK.jpg

    Introduzione

    Il pragmatismo e le sue origini

    Il pragmatismo è una corrente di pensiero nata nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti. Il momento iniziale di questo movimento teorico va identificato con le riunioni del Metaphysical Club, un gruppo di discussione e conversazione filosofica. Il gruppo si riuniva a Cambridge, Massachusetts, e alle sue attività partecipavano tra gli altri Charles Sanders Peirce, William James, Chauncey Wright e Oliver Wendell Holmes Jr. In senso stretto, il club ebbe vita breve – nacque nel gennaio del 1872, e le sue attività si conclusero nel dicembre dello stesso anno. Tuttavia, le conversazioni ospitate nel gruppo di discussione di Cambridge ebbero delle conseguenze decisive nella nascita e nello sviluppo del pragmatismo.

    Un ruolo centrale fu svolto da Chauncey Wright. Nonostante la sua figura sia stata spesso oscurata dagli altri membri del gruppo, Wright lasciò in eredità al pragmatismo una delle sue caratteristiche più significative: un’interpretazione nuova e originale della rivoluzione darwinista, che in quegli anni sbarcava negli Stati Uniti. Wright fu un interprete sottile dell’evoluzionismo. Le sue letture della nuova rivoluzione teorica furono apprezzate e sostenute dallo stesso Darwin. Eppure, la figura di Wright non è riducibile a quella di un semplice esegeta di Darwin. Le sue intuizioni teoriche svilupparono alcune idee che erano presenti solo in nuce nei testi darwiniani. Se proprio in quegli anni i darwinisti sociali enfatizzavano la centralità della lotta per la sopravvivenza e della selezione naturale del più adatto, la lettura di Wright seguiva ben altre priorità: la centralità della dimensione pratica e abituale nell’interazione tra organismo e ambiente; la comprensione della capacità riflessiva umana come prodotto dell’evoluzione naturale; la continuità evolutiva tra esseri umani e animali non umani; l’impossibilità di separare nettamente dimensione interna dell’esperienza umana, e dimensione esterna del comportamento (Parravicini, 2012). I darwinisti sociali, come nota Menand (2004), affermavano che la società di mercato funzionava come la natura, solo perché avevano deciso preliminarmente che la natura funzionava secondo la loro idea di società di mercato – spietata, individualista, improntata al più sfrenato laissez-faire. Al contrario, nelle mani di Wright la rivoluzione darwiniana mette in luce la natura dinamica, pratica e incerta della condizione umana.

    Se Wright si interessava principalmente di biologia e psicologia, le predilezioni di un altro esponente centrale del Metaphysical Club andavano in direzione della logica. Charles Sanders Peirce può essere considerato per certi versi il fondatore del pragmatismo, o quantomeno l’inventore del nome del movimento, con il quale intratterrà delle relazioni talvolta ambivalenti. Nonostante la sua lettura dell’evoluzionismo fosse più vicina a Lamarck piuttosto che a Darwin, Peirce introdusse due contributi fondamentali al pragmatismo, affini quantomeno nello spirito con la lettura del darwinismo sviluppata da Wright. Il primo contributo è il fallibilismo, ossia l’idea per cui in linea di principio tutte le nostre credenze possono essere riviste e migliorate. Il secondo contributo consiste nella massima pragmatica, ossia nell’idea secondo la quale la nostra concezione di un oggetto consiste nei suoi potenziali effetti pratici. I due principi sono profondamente connessi: è proprio in quanto il significato di una concezione non è nella nostra testa, ma nei possibili effetti pratici, che lo sviluppo della realtà ci può spingere a una revisione dei nostri significati e delle nostre credenze. Questo non significa che ogni conoscenza valga l’altra, oppure che sia impossibile parlare di oggettività o verità. Al contrario, lo scopo del metodo pragmatista è esattamente quello di costruire una nuova logica e una nuova teoria del ragionamento e della conoscenza che accettino sia il fallibilismo, sia l’idea per cui il significato di un oggetto è per certi versi ancora di là da venire, senza con ciò abbracciare lo scetticismo. Questo nuovo metodo tiene insieme una profonda e sottile ricostruzione degli strumenti logici classici, e un’attitudine sperimentalista, in cui la comunità dei ricercatori prende sul serio le richieste di revisione teorica e concettuale che emergono dall’irritazione del dubbio (Peirce, 2005, 185-203).

    Né Wright né Peirce erano molto interessati alle questioni sociali – quantomeno, non a livello scientifico e filosofico. Eppure, i loro contributi fondamentali alla nascita e allo sviluppo del pragmatismo sono legati profondamente alla dimensione sociale, sia a livello di input che di output. A livello di input, le attività teoriche del Metaphysical Club non possono essere slegate dal contesto storico-sociale americano dell’epoca. Un contesto profondamente segnato dal massacro della guerra di secessione americana del 1861-1865, il conflitto più sanguinoso nella storia degli Stati Uniti. Come argomenta Louis Menand nel suo bestseller dedicato al Club metafisico, è difficile pensare che i contributi teorici principali del gruppo di discussione – l’enfasi sulla continuità, il fallibilismo, il riconoscimento della dimensione dinamica e incerta della realtà, lo sperimentalismo – non fossero influenzati dall’orrore prodotto dalla guerra civile. In un tale contesto, segnato a livello storico dalle recentissime memorie dello scontro armato, e a livello culturale dall’arrivo sulle sponde atlantiche della rivoluzione darwiniana, emerge così un tratto epistemologico fondamentale del pragmatismo: la critica delle dicotomie.

    Il problema ovviamente non sta nelle dicotomie in se stesse, in quanto sicuramente in alcuni contesti ha senso pensare e interpretare la realtà nei termini di opposizioni concettuali. L’approccio dicotomico diventa problematico nel momento in cui pensiamo che una determinata coppia concettuale sia esaustiva rispetto alla ricchezza e alla molteplicità della realtà, finendo così per credere che i due opposti esistano in maniera sostanziale. Prendiamo l’esempio di una delle dicotomie più duramente contestate dai pragmatisti, ossia l’opposizione teoria-pratica. Sarebbe ovviamente errato negare che abbia spesso senso riferirsi alla dimensione più strettamente teorica di un problema– ad esempio, in una discussione tra scienziati che progettano di scrivere un articolo insieme. Analogamente, ha senso richiedere un maggiore impegno pratico a dei rappresentanti politici troppo presi dalle loro elucubrazioni teoriche. È invece dannoso a livello teorico pensare che teoria e pratiche siano cose diverse, che si oppongono mutualmente, e che quindi l’una cosa escluda l’altra. Al contrario, la massima pragmatica ci ricorda che il significato è allo stesso tempo qualcosa che pensiamo – una concezione dell’oggetto – e che esperiamo praticamente – una concezione dei possibili effetti pratici di tale concezione.

    Questo approccio anti-dicotomico, apparentemente puramente metodologico ed epistemologico, troverà degli output decisivi nell’attività scientifica di una seconda generazione di pragmatisti. Questi autori e autrici faranno un uso creativo di alcuni dei principi fondamentali elaborati dai protagonisti del Metaphysical Club – il fallibilismo, lo sperimentalismo, e la critica delle dicotomie – nell’elaborare una filosofia sociale del pragmatismo. I lavori di Jane Addams, John Dewey, Mary Parker Follett, George Herbert Mead, William Du Bois offrono degli strumenti teorici di comprensione della società che rifuggono alcune tra le dicotomie più diffuse del pensiero filosofico moderno e contemporaneo: individuo/società, ragione/affetti, conflitto/cooperazione. Questi strumenti inoltre sono finalizzati non solo a una migliore comprensione delle dinamiche sociali, ma anche alla possibile costruzione di una società migliore. I contributi di questi autori e autrici hanno vissuto per lungo termine delle fortune alterne: per lungo tempo dimenticati, a volte accantonati, recentemente oggetto di un’importante riscoperta, e tuttavia ancora oggi spesso limitati ad ambiti disciplinari molto specifici – Mead alla sociologia, e in particolare all’interazionismo simbolico; Dewey alla pedagogia; Follett alla sociologia del management; Du Bois ai cultural studies.

    Il presente saggio intende partecipare a questa nouvelle vague di interesse verso il pragmatismo, tentando di riannodare le fila del discorso. Il principale obiettivo del lavoro consiste in una ricostruzione per quanto possibile unitaria della filosofia sociale pragmatista. A tale scopo, risulta necessario chiarire preliminarmente che cosa si intende in questa sede per filosofia sociale, e che cosa si intende per pragmatismo.

    Quale filosofia sociale?

    Che cosa significa esattamente «filosofia sociale»? Chiunque abbia una minima familiarità con le dinamiche accademiche, può facilmente immaginare come il significato esatto di tale concetto vari in parte a seconda delle diverse posizioni teoriche. La pagina Wikipedia dedicata al lemma social philosophy riporta la seguente definizione, a sua volta ripresa dal dizionario online della lingua inglese Merriam-Webster: «la filosofia sociale è lo studio delle questioni riguardanti il comportamento sociale e le interpretazioni della società e delle istituzioni sociali nei termini di valori etici, piuttosto che di relazioni empiriche»¹. In fondo alla pagina, troviamo una lista piuttosto variegata di filosofi sociali, che include grandi classici come Nietzsche, Marx, Arendt, Rousseau, Locke, attorno ad autori più recenti come Taylor, Butler, Illich e figure più inaspettate, come Carl Gustav Jung, Giovanni Gentile e persino Socrate.

    Tanto la definizione del concetto, quanto la sua applicazione, presentano degli elementi condivisibili. Dal punto di vista della definizione, è innegabile che la filosofia sociale si interessi alle questioni che riguardano la società, e che lo faccia tenendo in considerazione la dimensione etica di tali fenomeni. Dal punto di vista dell’estensione, è altrettanto inevitabile un certo pluralismo. Se ciò che caratterizza la filosofia sociale è l’uso che facciamo di alcuni autori per analizzare dei fenomeni sociali rispetto alla loro portata etica, allora in linea di principio ogni pensatore antico, moderno e contemporaneo può essere usato potenzialmente come un filosofo sociale, o quantomeno come un autore rilevante per tale disciplina. Allo stesso tempo, tale versione da dizionario della filosofia sociale presenta qualche problema. Qual è ad esempio la differenza tra la filosofia sociale e la sociologia dei valori? Perché la filosofia sociale deve limitarsi alla dimensione dei valori etici, e non può occuparsi invece di questioni non strettamente etiche, come ad esempio il conflitto sociale e le dinamiche di potere? E infine, perché mai l’interesse verso la dimensione dei valori comporta il disinteresse verso le questioni empiriche? Viste tali lacune, e a costo di apparire come snob, siamo necessitati ad abbandonare per il momento le pagine Wikipedia e i dizionari, per concentrarci sulle definizioni di «filosofia sociale» attualmente disponibili nel mercato accademico.

    Come nota Martin Saar (2019), la filosofia sociale è un ambito della filosofia di recente costituzione, e ancora non ben definito. Dal punto di vista di Saar, ciò che connota tale disciplina è un modo di trattare concetti, oggetti e questioni a partire dal sociale, piuttosto che un insieme predefinito di oggetti di ricerca specifici. In questa prospettiva, emergono tre diversi livelli del sociale: il livello macro dell’ordine – ossia la società nel senso di qualcosa che ha un potere di determinazione sulle nostre vite; il livello intermedio (meso) delle pratiche; il livello micro del soggetto. In particolare, la filosofia sociale ha il compito di analizzare i tre diversi ambiti di potere che corrispondono a questi livelli, ossia rispettivamente la dominazione (macro), la normalizzazione (meso) e la soggettivazione (micro). Nella prospettiva di Saar, la filosofia sociale svolge un compito normativo oltre che descrittivo, che consiste nella critica di queste forme di potere, e nell’aprire forme di contro-potere, contro-azione e determinazione collettiva. A loro volta, queste contro-azioni avverranno ai tre livelli, sotto forma di democrazia radicale (mostrare che l’ordine imposto dalla dominazione è in realtà flessibile e malleabile), resistenza (contestare la normalizzazione delle pratiche) e trasformazione di sé (in risposta a ciò che il potere vuole che noi siamo).

    La proposta di Saar presenta varie affinità con quella di Jaeggi e Celikates (2018) – con ogni probabilità, il tentativo più sistematico di definizione della filosofia sociale dal punto di vista della teoria critica. Nella ricostruzione proposta dai due autori, la filosofia sociale presenta quattro caratteristiche specifiche. In primo luogo, un approccio anti-dicotomico nei confronti di alcune coppie oppositive fondamentali del pensiero politico, sociologico e filosofico moderno e contemporaneo. La filosofia sociale non è né soggettivista, né oggettivista: riconosce la legittimità di analisi strutturali dei fenomeni sociali, ma non esclude la rilevanza dei punti di vista soggettivi nella determinazione e nella comprensione di tali fenomeni. In secondo luogo, la filosofia sociale punta a un’integrazione tra analisi sociologiche empiriche e interpretazioni di natura filosofica. In terzo luogo, il suo approccio è descrittivo e allo stesso tempo normativo: l’osservazione e la descrizione di ciò che accade nella società va di pari passo con una postura critica nei confronti delle patologie sociali, in vista della costituzione di relazioni sociali più giuste e più libere. La filosofia sociale propone delle diagnosi, seguendo il fine valoriale/normativo dell’umanità. Ciò che permette il collegamento tra le due dimensioni, è l’idea che la normatività sia interna al sociale, e non uno standard esterno a partire dal quale il filosofo sociale critica ciò che non va nella società. Pertanto, la filosofia sociale dal punto di vista di Jaeggi e Celikates si occupa di distorsioni, disturbi e patologie, piuttosto che della semplice denuncia dell’immoralità o della malvagità di alcuni processi sociali. Infine, il quadro metodologico della disciplina prevede una forma – magari anche minima e non riduzionista – di olismo: i fenomeni sociali sono provvisti di una loro consistenza e autonomia, e pertanto non possono essere intesi nei termini di semplici e illusori ologrammi delle azioni degli individui. Pertanto, gli approcci individualisti non fanno parte della famiglia disciplinare delle filosofie sociali.

    Qual è il rapporto tra la filosofia sociale pragmatista e la proposta di Celikates e Jaeggi? A un primo sguardo, sembra esserci un accordo quasi totale sui quattro punti appena esposti. Abbiamo già visto come il pragmatismo suggerisca un approccio anti-dicotomico (primo punto) e sperimentale, capace quindi di dialogare con i risultati empirici delle scienze (secondo punto). Inoltre, la compresenza di piano descrittivo e normativo (terzo punto) è di certo compatibile con il superamento della dicotomia fatti-valori auspicato dal pragmatismo, e che discuteremo nel capitolo primo del volume. Lo stesso discorso vale infine per l’olismo non riduzionista, se quest’ultimo significa la possibilità di parlare del sociale come di qualcosa non riducibile alla semplice interazione di individui preformati e precostituiti. Viste tali convergenze, si potrebbe dunque pensare al pragmatismo come un contributo specifico alla disciplina della filosofia sociale nella definizione di Jaeggi e Celikates, che difatti fanno uso di autori pragmatisti come Dewey e Mead all’interno della loro discussione.

    Accanto a tali innegabili affinità, come dimostrato da Frega (2014) non mancano tuttavia i punti di divergenza tra le due prospettive. In primo luogo, vi è una divergenza di tipo storico, che comporta delle importanti conseguenze teoriche. La filosofia sociale pragmatista attinge principalmente da due fonti: una fonte critica, che si basa principalmente su Hegel e sulle varie ricezioni ottocentesche del suo pensiero; una fonte liberale e analitica, che trova la sua ispirazione nei lavori di Jeremy Bentham, Adam Smith e John Stuart Mill (Frega, 2017, 262). La proposta di Jaeggi e Celikates sulla scorta del lavoro di Axel Honneth si propone di rivitalizzare e sviluppare in forma originale l’eredità critica, e in tale sviluppo originale entra in contatto con numerosi temi e concetti pragmatisti. Eppure, a differenza del pragmatismo manca un tentativo di integrare questa tradizione con la tradizione liberale ed analitica. Quella che dal punto di vista del pragmatismo appare come una eredità incompleta, insufficiente, che va ripensata e integrata con altri approcci, dal punto di vista di una filosofia sociale critica diventa talvolta un contributo esterno al suo ambito. Da quest’ultima prospettiva, l’individualismo metodologico che connota gran parte della tradizione analitico-liberale è incompatibile con i minimi assunti olistici presupposti dalla filosofia sociale

    In secondo luogo, la filosofia sociale pragmatista non si occupa tanto o soltanto di critica delle patologie, quanto soprattutto della valutazione dei fenomeni sociali. La filosofia sociale, afferma Dewey, è una tecnica volta a migliorare le nostre valutazioni riflessive e i nostri giudizi sui fenomeni, gli abiti e le istituzioni sociali attuali e possibili (MW15, 231-232²). Questa tecnica include ovviamente l’attività critica, ma non si riduce ad essa. La filosofia sociale include per Dewey una dimensione proiettiva, ossia la capacità di immaginare potenziali sviluppi a partire dalle possibilità offerte dalle dinamiche sociali concrete. Questi sviluppi saranno poi a loro volta l’oggetto di una valutazione sperimentale, basata sul modo in cui tali sviluppi toccano gli interessi, i valori, i bisogni degli individui e dei gruppi sociali.

    Emerge dunque qui chiaramente la doppia matrice della filosofia pragmatista messa in luce da Frega. Analogamente alla tradizione critica, soprattutto a quella più recente esemplificata dal lavoro di Jaeggi e Celikates, la filosofia sociale pragmatista è interessata al piano normativo non in quanto astratto ed esterno rispetto alle dinamiche e alle situazioni sociali, ma al contrario nel senso delle potenzialità normative e valoriali presenti nella società stessa. Come vedremo nel capitolo sesto, per Dewey e Follett l’integrazione ad esempio non è né un ideale astratto, né qualcosa che esiste sempre in forma pienamente compiuta e che può essere semplicemente descritto, ma è al contrario una possibilità reale, la cui realizzazione è contingente. La tecnica della filosofia sociale pragmatista è dunque non-neutrale, ossia non è priva di preferenze normative e valoriali, senza con ciò essere meramente idealista. E allo stesso tempo, analogamente alla tradizione liberale e analitica di matrice utilitarista, la filosofia sociale pragmatista mantiene e rielabora in modo radicale la dimensione delle conseguenze. In ottemperanza alla massima pragmatica, il significato di un evento, di un fenomeno, di un concetto è inseparabile dalle sue potenziali conseguenze. Di conseguenza, lo sperimentalismo della filosofia sociale pragmatista non è certo incompatibile con la critica, e allo stesso tempo non può essere ridotto ad essa.

    In questa introduzione non ci occuperemo di casi studio specifici, se non a fini illustrativi. L’obiettivo del volume è piuttosto quello di ricostruire il contributo del pragmatismo a un livello più generale, che consiste nella costruzione e ricostruzione di concetti che possano essere utili strumenti della

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