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DilexIt Ecclesiam: Servitore della comunione
DilexIt Ecclesiam: Servitore della comunione
DilexIt Ecclesiam: Servitore della comunione
E-book604 pagine8 ore

DilexIt Ecclesiam: Servitore della comunione

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Info su questo ebook

Pensiamo che il lavoro e l’insegnamento di “don Massimo” a servizio della Chiesa, prima come fondatore e superiore della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo e poi come Vescovo, il suo insegnamento e la sua passione per ogni espressione dell’animo umano, la sua apertura al dialogo e il suo amore per la Verità, costituiscano una preziosa eredità da custodire e alimentare. Gli autori, che impreziosiscono questo testo con i loro scritti e i loro ricordi, sono solo alcuni rappresentanti di una schiera innumerevole di persone la cui vita si è incrociata con quella di Mons. Camisasca e idealmente interpretano anche l’affetto e la vicinanza dei tanti che, per ragioni diverse, non sono potuti entrare nell’elenco.

«Non potremo mai restituire nulla di proporzionato rispetto a quanto abbiamo ricevuto da Dio».
M. Camisasca
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2021
ISBN9788865128251
DilexIt Ecclesiam: Servitore della comunione

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    Anteprima del libro

    DilexIt Ecclesiam - AA. VV.

    Nota dell’Editore

    Il presente volume nasce dall’operosa iniziativa della segreteria particolare di Mons. Massimo Camisasca in collaborazione con la Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, come segno di affetto e di stima per la sua paternità e il suo ministero.

    Pensiamo che il lavoro e l’insegnamento di don Massimo a servizio della Chiesa, prima come fondatore e superiore della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo e poi come Vescovo, il suo insegnamento e la sua passione per ogni espressione dell’animo umano, la sua apertura al dialogo e il suo amore per la Verità, costituiscano una preziosa eredità da custodire e alimentare.

    Gli autori, che impreziosiscono questo testo con i loro scritti e i loro ricordi, sono solo alcuni rappresentanti di una schiera innumerevole di persone la cui vita si è incrociata con quella di Mons. Camisasca e idealmente interpretano anche l’affetto e la vicinanza dei tanti che, per ragioni diverse, non sono potuti entrare nell’elenco e ai quali chiediamo venia.

    La grande differenza di stili, la varietà dei contenuti e l’eterogeneità dei contributi presenti in questo volume – provenienti non solo dal mondo ecclesiastico, ma anche accademico, giornalistico, artistico, politico e sportivo – contribuiscono a evocare la poliedricità della figura e degli interessi del vescovo Camisasca.

    Il suo amore alla Chiesa, la sua sensibilità per la bellezza, per l’arte, per la letteratura, il suo intelligente lavoro di educazione dei giovani e delle famiglie, l’opera di evangelizzazione e di tessitura di rapporti di comunione all’interno e all’esterno dell’ambito strettamente ecclesiale, ci ha fatto pensare di intitolare la raccolta con una espressione di san Paolo, da don Massimo particolarmente amata: Dilexit Ecclesiam (Ef 5,25).

    Amante della Chiesa e servitore della comunione. Queste parole ci sembrano costituire la cifra sintetica del suo spirito ecclesiale, della sua ampia produzione letteraria e della sua vita donata agli uomini per la gloria di Cristo.

    Una selezione di fotografie arricchisce questa pubblicazione. Non potendo risalire alla paternità di ognuna di esse, rimaniamo a disposizione degli aventi diritto.

    Questo volume, frutto di un lungo e non sempre facile lavoro, vede finalmente la luce all’insaputa di Mons. Camisasca, che non è quindi responsabile né dei contenuti né delle scelte degli autori e della redazione. Il progetto avrebbe richiesto ancora una lunga lavorazione, ma la mole di lavoro della segreteria del vescovo, le esigenze editoriali e il desiderio di offrire a don Massimo questa raccolta per il giorno del suo giubileo, ci hanno costretti ad affrettare i tempi.

    Ci auguriamo che questi contributi possano portare a Sua Eccellenza un po’ dell’affetto, della gratitudine e della stima del suo popolo e onorare la sua vita a maggior gloria di Dio.

    immagine 1

    Davvero dilexit Ecclesiam

    Pietro Card. Parolin

    Segretario di Stato di Sua Santità

    Ho accolto con piacere l’invito a offrire un breve contributo al volume Dilexit Ecclesiam. Servitore della comunione, che la Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla intende offrire al suo Vescovo, S.E. Mons. Massimo Camisasca, in occasione del 75° compleanno.

    Più che un saggio sul pensiero e sul ministero episcopale di Mons. Camisasca, che non mi vedrebbe adeguatamente preparato, il mio intende essere soprattutto un segno di amicizia e vicinanza e un messaggio augurale verso un confratello nell’episcopato, per il quale nutro sentimenti di stima e che ho avuto modo di conoscere meglio negli ultimi anni.

    Avevo già sporadicamente incontrato Mons. Camisasca al tempo in cui ero Sotto-Segretario per i Rapporti con gli Stati. Il rapporto si è però intensificato dopo la mia nomina a Segretario di Stato. Don Massimo era divenuto nel frattempo Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla e, in ragione del suo nuovo ministero, ha iniziato a prendere più regolari contatti anche con il sottoscritto, invitandomi pure a visitare la sua Diocesi e a presiedere, nel 2019, la celebrazione eucaristica in occasione del IV centenario della Basilica della Beata Vergine della Ghiara a Reggio Emilia.

    Nel corso di questi anni ho così avuto modo di apprezzare alcune caratteristiche della persona di Mons. Camisasca, che vorrei qui brevemente tratteggiare.

    La prima è la lucidità e la chiarezza del pensiero, che è a un tempo speculativo e pratico. Esso attinge ad un’intensa vita di preghiera, che ha nel Signore Gesù il suo cuore pulsante. Da lì scaturiscono le riflessioni che Mons. Camisasca ha condiviso nella sua vasta opera editoriale che spazia dalla filosofia alla teologia, dall’omiletica alla liturgia, dalla letteratura alla poesia.

    In questa ampiezza, possiamo cogliere pure il respiro umano e cristiano di Mons. Luigi Giussani, che di don Massimo è stato maestro nella vita e nella fede, gli ha insegnato a leggere i segni dei tempi e a comprenderne le problematiche e i risvolti, cercando di rispondervi in maniera efficace. Si tratta di un’importante qualità per il servizio di un vescovo, il quale si trova assai spesso a dover fronteggiare tante questioni diverse, con il rischio di essere spesso più reattivo che propositivo. In Mons. Camisasca si può cogliere una progettualità che, attingendo alla ricchezza del pensiero teologico, specialmente quello di Sant’Agostino, di cui è profondo conoscitore, sa elaborare idee sagge e soluzioni concrete che condivide cordialmente con tutta la comunità ecclesiale.

    Al nocciolo della riflessione di Mons. Camisasca vi è Cristo, nuovo Adamo, centro del cosmo e della storia, dal quale scaturisce l’umanità rinnovata. È questo il cardine dell’antropologia cristiana che egli ha approfondito nei suoi studi e nel corso dei suoi anni di docenza. Per diverso tempo, infatti, ha insegnato nell’allora Pontificio Istituto di Studi sul Matrimonio e sulla Famiglia, voluto nel 1982 da San Giovanni Paolo II per promuovere la conoscenza della proposta cristiana sulla famiglia, negli anni in cui incominciavano a diffondersi nuovi modelli antropologici, i cui effetti divisivi e laceranti sulla società sono oggi ben noti, ma forse ancora non adeguatamente compresi, considerata la forza – talvolta quasi violenza – con cui sono promossi. Di fronte ad una concezione di essere umano assolutizzato, per il quale la virtù suprema è la libertà intesa come assenza di ogni limite e che finisce per vivere schiavo delle proprie passioni, Mons. Camisasca ripropone costantemente e senza timore l’insegnamento della Chiesa, che vede nel legame fra creatura e Creatore la sorgente della libertà e della vera gioia.

    La seconda caratteristica che vorrei sottolineare è la semplicità del linguaggio. Non è facile saper parlare a tutti ed esprimere la profondità di un pensiero con poche comprensibili parole. In don Massimo ho trovato questa capacità e ne è prova l’attenzione, la disponibilità e l’entusiasmo con cui tanti giovani lo ascoltano e lo seguono. I giovani – si sa – sono sempre un pubblico molto esigente. Una conferma ulteriore la si riscontra anche nella positiva accoglienza ricevuta dalle storie di Tullio, il ragazzo di undici anni che ama la vita, le avventure, lo sport, protagonista di due volumetti, attraverso i quali don Massimo propone un percorso semplice e chiaro, adatto a bambini e ragazzi, per entrare nella comprensione dei dieci comandamenti e delle parabole evangeliche.

    Tale facilità di espressione gli consente pure di rivolgersi ad interlocutori extra-ecclesiali e a persone con sensibilità spesso lontane da un’esperienza di fede e dal cristianesimo in generale. Ritengo che molti suoi articoli e interventi sulla stampa abbiano contribuito a illuminare l’opinione pubblica su rilevanti e delicate tematiche, vincendo spesso i pregiudizi degli interlocutori e posizioni ideologiche preconcette. Ciò è dovuto anche al suo modo di argomentare, che parte sempre dalla ragione e dall’esperienza ed è dunque scevro di dogmatismo.

    La terza qualità che vorrei evidenziare è la paternità, a cui è strettamente connessa la consapevolezza dell’importanza dell’educazione. Mons. Camisasca è un educatore entusiasta, che ha dedicato quasi tutta la vita a tale scopo. Anche in quest’ambito si vede la grande consonanza con don Giussani. Per il fondatore di Comunione e Liberazione, educare significava introdurre i giovani al significato più vero e profondo della realtà e così – ebbe a dire l’allora Cardinal Ratzinger – don Giussani, «avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo» [1] , è potuto diventare «padre di molti» [2] . Lo stesso spirito ho potuto riscontrare in Mons. Camisasca, che è divenuto realmente padre di molti, specialmente dei tanti giovani che a lui hanno affidato la propria vocazione entrando a far parte della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, da lui fondata nel 1985. Oggi, i preti della Fraternità sono presenti in numerose comunità sparse in tutto il mondo, obbedendo con entusiasmo all’invito che San Giovanni Paolo II rivolse al Movimento di CL nel 1984: «Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la pace che si incontrano in Cristo Redentore» [3] .

    La cura per le vocazioni non è ovviamente venuta meno quando, lasciata la Fraternità, Mons. Camisasca è divenuto Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla. In un tempo in cui le vocazioni sacerdotali sono piuttosto scarse, è certamente un fattore di gioia poter vedere che ci sono pastori che dedicano con entusiasmo tempo ai giovani e alla cura delle vocazioni, poiché ci sono ancora giovani sinceramente pronti ad offrire la vita al Signore con disponibilità di cuore e letizia d’animo, pur avendo tuttavia bisogno di adulti che li stimolino, li sostengano e li accompagnino.

    La paternità non riguarda solo i giovani. Essa è l’atteggiamento per eccellenza del vescovo, chiamato ad accompagnare e a sostenere quanti si rivolgono a lui, specialmente coloro che attraversano momenti di prova e difficoltà. Nell’affanno dei tempi moderni è tuttavia facile abdicare a tale responsabilità perché assorbiti da molte incombenze. Nelle conversazioni che ho avuto con don Massimo, ho potuto constatare un’autentica preoccupazione per le persone, in particolare per le famiglie e per i confratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Talvolta, non ci sono molte parole che si possono dire a una persona che vive un momento di travaglio, ma la sola nostra vicinanza, di padri e di pastori, è un segno eloquente della presenza di Dio e della cura che il Signore ha per ognuna delle sue creature. In tal senso sono state particolarmente significative le parole di fede e di speranza che Mons. Camisasca ha rivolto alla sua Diocesi nel tempo della pandemia.

    Infine, seguire e testimoniare Cristo significa necessariamente amare anche la sua Sposa, la Chiesa. In Mons. Camisasca ho potuto constatare la sincerità di tale amore. Davvero dilexit Ecclesiam, come suggerisce il titolo del presente volume. Amare la Chiesa significa servire la comunione ecclesiale cum Petro et sub Petro, perché in essa non prevalgano i nostri pensieri, ma rifulga la luce di Cristo. In don Massimo ho potuto constatare un profondo equilibrio fra l’amore alla verità e il servizio alla comunione, che deve necessariamente tenere conto di sensibilità tra loro diverse e talvolta lontane.

    Per un pastore, l’amore per la Chiesa è poi nello specifico l’amore per quella porzione di Popolo di Dio che è stato chiamato a guidare. Come ogni vescovo, con il compimento del 75° anno, anche Mons. Camisasca rimetterà nelle mani del Santo Padre il proprio ministero, preparandosi a iniziare una nuova tappa della sua vita. Il suo legame con la Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla non verrà comunque meno, pur essendo destinato a mutare forma.

    Nell’approssimarsi di questo delicato momento di passaggio nella vita di ogni persona, quando l’azione è chiamata a cedere sempre più il passo alla contemplazione, desidero formulare a Mons. Camisasca il mio cordiale augurio assicurandolo della mia preghiera e ringraziandolo per il suo ministero, sapendo che continuerà, sino alla fine, ad amare e a servire la Chiesa con la stessa letizia d’animo e intelligenza della fede che hanno caratterizzato tutta la Sua vita sacerdotale e il Suo ministero episcopale, fino ad oggi.

    Città del Vaticano, 31 maggio 2021

    Festa della Visitazione della B. V. Maria


    [1] J. Ratzinger, Omelia in occasione delle esequie di Mons. Luigi Giussani, Duomo di Milano, 24 febbraio 2005.

    [2] Ibid.

    [3] S. Giovanni Paolo II, Discorso al movimento di «Comunione e liberazione» nel XXX anniversario di fondazione, Aula Paolo VI, 29 settembre 1984.

    PRIMA PARTE

    «La vita del vescovo è una continua scoperta:

    corre tra una conoscenza sempre nuova di Gesù

    e una conoscenza sempre più profonda dell’animo umano».

    M. Camisasca

    Gli anni romani*

    Paul Josef Card. Cordes

    Presidente emerito del Pontificio Consiglio Cor Unum

    * Traduzione dall’originale tedesco.

    La vita di don Massimo, che questo testo desidera celebrare, è stata innegabilmente segnata dal carisma del movimento di Comunione e Liberazione. Già da studente, quattordicenne, ne incontrò il fondatore – Mons. Luigi Giussani – che insegnava al liceo Berchet di Milano. Ben presto iniziò a seguirlo, entrando a far parte di Gioventù Studentesca, un’opera educativa appena fondata da don Giussani e dalla quale nacque, successivamente, il movimento di Comunione e Liberazione. Dopo gli studi e alterne vicende, nel 1975 venne ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Bergamo, Clemente Gaddi. Nel 1978 don Giussani – che don Massimo definisce come «uno dei più importanti pedagoghi del XX secolo» – lo inviò a Roma dove ha vissuto fino alla sua nomina a vescovo di Reggio Emilia-Guastalla alla fine del 2012.

    In occasione del suo compleanno certamente molti testimoni contemporanei parleranno della sua missione nella Chiesa. Di seguito vorrei ripercorrere soprattutto la mia conoscenza romana di lui.

    1. Assieme a don Giussani: un impegno per i nuovi movimenti

    nella Chiesa

    Alla fine degli anni ’70, il Movimento di CL lottava per il proprio riconoscimento nelle diocesi italiane. Le difficoltà erano causate soprattutto da autorevoli membri della Conferenza Episcopale Italiana. Ancora una volta diveniva evidente ciò che si è sempre ripetuto nella storia della Chiesa: la struttura gerarchica resiste a dei nuovi inizi spirituali. Per liberarsi dalle morse della Chiesa locale, Giussani si rivolse – verso la metà del 1981 – al presidente del Pontificium Consilium pro Laicis, il cardinale Opilio Rossi. Io stesso ero a quel tempo vicepresidente di questo dicastero. D’altra parte CL aveva nel frattempo preso piede in molti altri Paesi oltre l’Italia, ed era dunque opportuno rivolgersi alla Sede Apostolica. Don Giussani non partecipava mai a questi colloqui senza il suo assistente, don Massimo. Il cardinale Rossi, da parte sua, di solito chiamava me a prendervi parte. Don Massimo e io ci siamo conosciuti in questo contesto. E lì iniziò la mia stima per lui.

    CL aveva di fronte a sé una strada irta di ostacoli di tipo teologico, canonico ed ecclesiastico, ma don Massimo si dimostrò esperto ed eloquente difensore del nuovo carisma. L’11 febbraio del 1982 fu pubblicato il decreto di riconoscimento pontificio. Comunione e Liberazione divenne uno dei protagonisti nel panorama dei nuovi movimenti ecclesiali che si stavano diffondendo sempre più nella Chiesa cattolica dopo il Concilio.

    Lo slancio di queste nuove realtà dopo il Vaticano II è davvero notevole. Questo, almeno, è il giudizio di Hans Urs von Balthasar, indiscutibilmente il miglior esperto delle moderne correnti teologiche e storico-salvifiche. Nel 1985, in uno studio richiesto dal nostro Consiglio, parlando dei fatti fondamentali e attuali a riguardo del risveglio spirituale provocato dai nuovi movimenti, ebbe a dire: «Bisognava aspettare la fine del nostro secolo per vedere una tale fioritura e varietà di movimenti laicali indipendenti diffondersi nella Chiesa, alcuni dei quali possono forse ancora riferirsi ai grandi carismi del passato, ma la maggior parte dei quali sono emersi spontaneamente da nuovi impulsi dello Spirito Santo» [1] .

    Impulsi di fede di questo tipo non sono preziosi soltanto perché rivitalizzano la fede di molti cristiani. Guardando ad essi come a un’espressione della fede cattolica, essi sono un vero e proprio gioiello ecclesiologico. La sociologia della religione sottolinea che, a differenza di tutte le altre confessioni cristiane, la Chiesa cattolica romana e la sua autocoscienza sono strutturalmente aperte all’accettazione e all’abbraccio di impulsi religiosi nuovi e di forme di pietà inedite.

    Werner Stark (†1985), eminente professore tedesco, ordinario alla Fordham University di New York, si è occupato di tutto ciò [2] . Nell’esaminare il decadimento e il rinnovamento dei diversi movimenti religiosi, egli ha studiato in particolare il fenomeno dell’emergere delle sette. Dapprima ha esplorato la questione del perché il numero di gruppi di devianza religiosa vari così tanto tra diversi Paesi e popoli. Poi, considerando i dati storici, ha notato che dal XVI secolo in poi l’Inghilterra ha prodotto più sette rispetto, per esempio, all’Austria, alla Russia o alla Spagna. Come esempi di sette nate sull’isola britannica, egli indica i battisti, i quaccheri e i metodisti; per l’impero zarista, i vecchi credenti (Starovery) con le loro continue diversificazioni. Spiega, poi, la ragione di questa proliferazione con questa osservazione sintetica: «Nel complesso, si può dire che le sette si formano ovunque ci sia una religione ‘stabilita’, una chiesa di stato» [3] dove la vita spirituale è sottomessa al potere secolare.

    Non vi è spazio per nuovi inizi spirituali quando la religione è governata dal potere statale. Essi vengono sospinti in una sorta di clandestinità. E così la maggioranza dei cristiani perde l’occasione di un rinnovamento vitale della propria fede.

    Un bipolarismo giustamente inteso tra Chiesa universale e locale assicura, invece, alla Chiesa cattolica un equilibrio tra dinamismi carismatici e il governo strutturale. Poiché l’interrelazione tra Chiesa locale e universale ha la forma di un’ellisse, i nuovi inizi possono, in linea di principio, servire alla missione della Chiesa e, nello stesso tempo, essere da essa custoditi e difesi. I sociologi esprimono l’unicità di questo dinamismo della fede cattolica nella formula, solo apparentemente paradossale, secondo cui nella Chiesa romana si trova la dogmatica più rigorosa e, al contempo, la più grande ampiezza di dottrina. La Chiesa pone saldi limiti dogmatici, ma entro questi limiti c’è spazio per opinioni diverse, spesso anche contraddittorie. «Forse non c’è altra Chiesa che quella romano-cattolica che possa offrire asilo a così tanti punti di vista differenti» [4] .

    I movimenti non portano benefici soltanto alla Madre Chiesa. Non di rado essi diventano anche per i loro aderenti ragione di riscoperta del fascino della fede. Alla loro luce, una mentalità di approvvigionamento religioso, diffusa anche tra i cattolici, mostra tutta la sua insufficienza. Nasce in molti il desiderio di non essere appena consumatori di fede, ma di vivere come persone di fede.

    Riporto, in proposito, un esempio tratto dalla mia esperienza personale: una coppia di sposi, proveniente dai circoli migliori di una grande città tedesca, cattolici praticanti, rispettati professionalmente e socialmente, con una famiglia sana e figli felici, inizia pian piano a rendersi conto che tutto ciò non basta loro. Cercano qualcos’altro. Ad un certo punto vengono coinvolti in uno dei nuovi movimenti. Vengono da me e io mostro loro una strada. In una prolungata scuola di fede, essi arrivano a riconoscere l’egocentrismo della propria pietà. Progressivamente scoprono nel loro ambiente situazioni gravissime che urgono redenzione. A poco a poco cresce la convinzione che la Parola di Dio e la comunità della Chiesa possono portare guarigione. Non è senza tremore che si permettono di condividere la propria esperienza di fede con altri. L’ascolto e la testimonianza si alternano. Lentamente sperimentano la gioia di condurre altri a Dio, condividendo con il prossimo la speranza che nasce dalla fede attraverso la Parola di vita. Vengono date loro così tante cose nuove che dopo qualche anno del loro impegno vengono da me a lamentarsi: non per il tempo richiesto dalle conversazioni con altri cercatori; non perché uno o due conoscenti li criticassero per non essersi presentati più ai soliti impegni borghesi; non perché il loro intenso impegno per il Vangelo li rendesse sospetti di settarismo. Mi hanno rimproverato qualcosa di molto diverso: «Perché abbiamo perso tanto tempo prima di scoprire questa cosa meravigliosa della nostra fede, cioè essere apostoli di Cristo?».

    Don Massimo era accanto a Mons. Giussani durante il processo di riconoscimento pontificio di CL. Attraverso i nostri incontri è diventato anche un collaboratore molto prezioso per me nella promozione di questi nuovi inizi. C’erano, infatti, diverse nuove comunità che cercavano la via del riconoscimento papale. Come Pontificio Consiglio per i Laici, siamo stati esortati a renderle consapevoli della loro preziosità nel seno della Chiesa. Così – non senza CL – nel febbraio 1987, a Rocca di Papa, si è svolto un Colloquio Internazionale. Ci fu persino un’udienza con Giovanni Paolo II, durante la quale il Papa ha formulato una frase di massima importanza teologica sui nuovi movimenti: «Nella Chiesa, tanto l’aspetto istituzionale, quanto quello carismatico, tanto la gerarchia quanto le associazioni e movimenti di fedeli, sono coessenziali e concorrono alla vita, al rinnovamento, alla santificazione, sia pure in modo diverso e tale che vi sia uno scambio, una comunione reciproci…» [5] .

    Nell’ottobre del 1989 si è svolta una conferenza internazionale a Budapest, in Ungheria. Sono stato invitato a nome del Pontificio Consiglio per i Laici. Anche don Massimo vi partecipò con un’importante relazione volta a raccomandare e legittimare teologicamente gli inizi dei nuovi movimenti: «La Chiesa è Movimento. Movimenti nella Chiesa».

    Negli anni seguenti, il numero di movimenti e nuove comunità aumentò in modo impressionante [6] . Il Sinodo dei vescovi sulla Christifideles laici (1987) aveva mostrato ancora una volta feroce opposizione a questa novità. Ma Giovanni Paolo II aveva dato loro un posto teologico-pastorale definitivo nella Chiesa [7] .

    Don Massimo è stato certamente uno dei protagonisti di questo cammino che ha portato al riconoscimento ufficiale della coessenzialità di questi movimenti alla missione della Chiesa di cui parlava il papa. Purtroppo, in alcune Chiese locali i movimenti sono ancora guardati come dei bambini sporchi, tollerati ma non amati.

    2. Le Giornate Mondiali della Gioventù: una conferma dei nuovi

    movimenti

    Un effetto spettacolare riconducibile a questi nuovi inizi sono le Giornate Mondiali della Gioventù [8] . Giovanni Paolo II aveva proclamato un Anno Giubilare straordinario nel 1983/1984. Per l’occasione molte associazioni, confraternite e gruppi cattolici vennero a visitare la Città Eterna. Un giorno don Massimo, con il quale avevo nel frattempo maturato una certa familiarità, mi chiese: «Perché non approfittare di questo evento per fare anche un incontro internazionale dei giovani?». Risposi: «Un’idea che vale veramente la pena considerare, ma chi potrebbe organizzarlo?». Mi era chiaro che il Pontificio Consiglio per i Laici non ne sarebbe stato assolutamente in grado. Pensai che probabilmente un simile incontro avrebbe avuto speranza di successo solo con l’impegno di tutti i nuovi movimenti ecclesiali. Fortunatamente i giovani rappresentanti dei movimenti a Roma, con la loro baldanza e nel loro slancio giovanile, si mostrarono disponibili. Si creò così con loro un bel gruppo di lavoro per la preparazione dell’evento.

    Quanto più si avvicinava la data dell’incontro, tanto più aumentavano le resistenze provenienti dall’esterno. Avendo invitato i giovani di alcune diocesi, giunsero dei commenti critici da parte degli uffici di pastorale giovanile diocesani: «Non è compito della Santa Sede occuparsi dei nostri giovani». Il sindaco comunista di Roma ritirò all’ultimo momento i permessi che ci aveva già dato: non avremmo più potuto creare un accampamento nel parco Romano Pineta Sacchetti. Alcuni ecologisti ricorsero alla stampa per diffondere il timore di una devastazione delle aree urbane e dei giardini. Più di un quartiere di Roma si mobilitò contro una presunta invasione di giovani in rivolta. Sui giornali apparvero articoli negativi, con titoli come: Arrivano gli Unni

    Il nostro gruppo di lavoro utilizzava, invece, dei propri canali che non erano né ecclesiali né mediatici. Le persone coinvolte avevano dei legami di amicizia discreti ma efficaci in tutto il mondo. Riuscimmo a coinvolgere anche alcuni uomini e donne ben noti nella Chiesa e aperti alla novità, affidando loro la preparazione dei giovani al grande incontro con il Santo Padre attraverso tre giorni di catechesi. Questi incontri sarebbero serviti da magnete. Rapidamente diedero il loro assenso Chiara Lubich dei Focolarini, Mons. Luigi Giussani di Comunione e Liberazione, Kiko Argüello del Cammino neocatecumenale, Álvaro del Portillo dell’Opus Dei, il cileno P. Joaquín Allende del Movimento Schönstatt ed altri.

    Nonostante la nostra assoluta inesperienza in fatto di incontri mondiali e i tanti sgradevoli ostacoli, l’incontro fu un vero e proprio evento per la Chiesa. Circa 300.000 giovani avevano accolto l’invito del Papa e celebrato con lui l’Eucaristia della Domenica delle Palme in Piazza San Pietro, il 15 Aprile 1984. Sebbene i partecipanti fossero molti, cosa inusuale persino per una città come Roma, il tutto si svolse in modo così ordinato ed esemplare da lasciare sorpresa l’intera opinione pubblica. Il decano dei Cardinali, il novantunenne card. Confalonieri, che aveva assistito da una terrazza di fronte a San Pietro ad alcune fasi della festa, disse: «Nemmeno i romani più anziani hanno mai visto qualcosa del genere!».

    Iniziò così la serie di Giornate Mondiali della Gioventù che si tennero poi in molte nazioni del mondo. Iniziando da Buenos Aires, Argentina, nel 1987. A seguire, Europa, Stati Uniti e Asia. Eccezionali furono la Giornata del 1997 a Parigi e quella a Roma durante l’Anno Santo del 2000. Il punto culmine fu toccato con la Giornata nelle Filippine, nel gennaio 1995, organizzata da una collaboratrice filippina del nostro consiglio, Henrietta de Villa: circa quattro milioni di persone si ritrovarono per festeggiare insieme la fede. I media commentarono che fino a quel momento nella storia dell’umanità non si era mai assistito a un evento del genere, nel quale così tante persone, di loro spontanea volontà e con spirito gioioso, si radunavano assieme.

    Nel corso degli anni le Giornate Mondiali della Gioventù sono diventate una catena che unisce Paesi e continenti portando una ventata di aria fresca anche nelle Chiese locali. Per me queste Giornate sono un segno col quale Dio ha confermato la missione dei nuovi movimenti per la sua Chiesa. Don Massimo è da ritenersi come uno dei suoi padri.

    3. La necessità del sacerdozio ordinato

    L’idea di base e l’insegnamento del Vaticano II hanno condotto molti cristiani a comprendere che il sacramento del battesimo abilita e obbliga all’apostolato. Questa gratificante riscoperta del sacerdozio comune di tutti i credenti – le espressioni della Prima Lettera di Pietro che si riferiscono a questo (1 Pt 2,5 ss.) sono i versetti biblici più citati in assoluto nei documenti conciliari – non deve, però, avvenire a spese della struttura sacramentale della Chiesa. Secondo la dottrina cattolica, i sacerdoti ordinati sono un elemento indispensabile dell’apostolato e della missione della Chiesa. I santi confermano questa verità, come il grande Jean-Marie Vianney. Egli instillò la fede tra i suoi contemporanei in una misura raramente raggiunta ed è stato proclamato patrono di tutti i sacerdoti nel 1923.

    Questo lungimirante uomo di Dio viveva nella città francese di Ars, caratterizzata da agricoltura e allevamento. A lui appartiene la provocante affermazione: «Lasciate una parrocchia senza un prete per vent’anni, e la gente adorerà gli animali» [9] . San Giovanni Maria Vianney ha notato come la pietà si trasforma in adorazione del creato se i sacerdoti non la dirigono verso Dio. La sua osservazione proveniva dall’ambiente agrario nel quale viveva. A seconda dell’ambiente in cui si trova, l’uomo cercherà idoli diversi da mettere al posto di Dio. In ogni caso, l’intuizione del santo di Ars ci avverte che senza l’accompagnamento del ministro consacrato, il nostro senso di Dio rischia di ridursi spaventosamente.

    Certamente, ai nostri giorni, terribili scandali hanno offuscato l’immagine del sacerdote. Ma la rinuncia al ministero ordinato che si proclama in ragione di questo è doppiamente dannosa: da un lato manca di rispetto alla fede della Chiesa cattolica e, dall’altro, danneggia i cristiani mettendo in serio pericolo la loro possibilità di salvezza. Mi sembrano ragioni sufficienti per lottare contro un simile errore.

    Ciò che san Giovanni Maria Vianney ha osservato, viene in realtà confermato anche dalla sociologia. Riferirsi, seppur brevemente, ad argomentazioni sociologiche sembra appropriato in un tempo di anticlericalismo dichiarato o più o meno latente. La sociologia, dopo tutto, non è sospettata di essere guidata da interessi ecclesiastici e potrebbe, quindi, convincere più facilmente [10] .

    La ricerca dei sociologi ha osservato che i grandi carismi e le intuizioni epocali si appiattiscono gradualmente attraverso la routine; l’ambiente e la vita quotidiana indeboliscono l’idea iniziale. I risvegli spirituali, tuttavia, sfidano le devastazioni del tempo quando sono protetti e difesi. «Le comunità umane sono sistemi di controllo sociale e durano solo se sono socialmente controllate» [11] . Questo vale anche per il risveglio della fede, della Rivelazione e della Chiesa. In questo campo, i ministri ordinati hanno il compito di conservare il Vangelo «integro e sempre vivo nella Chiesa» [12] . Pertanto, come anche la sociologia riconosce, il ministro ordinato è insostituibile come custode del sigillo dell’opera di salvezza di Dio.

    Tale dovere ufficiale di proteggere la lettera e lo spirito delle origini distingue il ministro dal popolo. Questa distinzione, nonostante tutta la vicinanza del ministro alla gente, è necessaria proprio per la salvezza del popolo stesso. Il sacerdote ordinato ha un compito fondamentale nel custodire la verità; guardiano della tradizione lo chiama la sociologia. Se deve dare stabilità alla vita di fede, deve difenderla da ogni sua perniciosa distorsione. Egli si trova su una frontiera e deve schermare le influenze rovinose. Tale difesa della verità può non di rado diminuire la sua popolarità, perché risveglia «un infelice, ma allo stesso tempo inevitabile, anticlericalismo da parte delle forze che cercano un cambiamento» [13] .

    4. La San Carlo, controcorrente

    L’avversione, umanamente motivata, si intensifica necessariamente quando le persone consacrate commettono reati pubblici, oppure quando l’ambiente in cui si vive e il clima intellettuale diventano ostili alla religione. Nella misura in cui il pensiero secolarista plasma l’uomo e la società, i messaggeri della fede diventano un incomodo. Alcuni media e giornalisti cercano di denigrarli. Tale rigetto, tuttavia, solo molto raramente è motivato da ragioni nobili e dal desiderio di un miglioramento della società. In fin dei conti, l’oggetto dell’attacco non sono tanto i consacrati in quanto cittadini depravati che hanno commesso un crimine. L’avversione è in realtà diretta alla Chiesa e, in ultima analisi, a Dio stesso. Siamo in presenza di un ateismo militante. Un saggio adagio popolare, probabilmente risalente al satirico romano Petronio (†66 d.C.), illumina il modo di agire di questi anticlericali: «Battono il sacco, per battere il mulo». Questo modo di procedere si è ripetuto più e più volte nella storia: ogni volta che si è perso il senso di Dio, il clero e i religiosi sono diventati degli obiettivi. Si pensi, per esempio, alla guerra civile spagnola (1936-39): furono soprattutto i preti e i religiosi ad essere perseguitati e uccisi. Anche l’odio della dittatura nazista in Germania era diretto principalmente contro i rappresentanti di Dio. 2.796 ecclesiastici, ad esempio, sono morti nel campo di concentramento di Dachau. Di questi, 2.652 appartenevano al clero cattolico, costituendo la più grande categoria professionale nel campo di concentramento. Di questi, circa 1800 sono morti [14] .

    Nel suo efficace impegno per il dinamismo dell’apostolato laico, don Massimo non ha dimenticato che la Chiesa cattolica ha bisogno del ministero ordinato. Nel settembre 1984 Giovanni Paolo II, in occasione dell’udienza per il trentennale della nascita di Comunione e Liberazione, disse al movimento: «Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la pace che si incontrano in Cristo Redentore». Accogliendo questo appello, Don Massimo mise assieme un piccolo gruppo di preti per iniziare una fraternità sacerdotale missionaria. Nacque così nel 1985, con l’appoggio del Cardinal Poletti, la Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo. La casa madre della Fraternità era all’inizio situata alle Cappellette, accanto alla Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma. Dal 1996 si trova invece in via Boccea.

    Prendeva così vita un ramo sacerdotale di CL, esplicitamente ispirato alla persona e al carisma di don Giussani. Questa realtà desiderava appartenere al movimento e servire la sua opera missionaria nel mondo, perché «la gente possa incontrare Cristo secondo quell’accento e quella modalità che ha commosso noi» (cfr. Direttorio della Fraternità San Carlo). Pian piano iniziano a diffondersi, in Italia e nel mondo, le case di missione della Fraternità, abitate da tre o più preti che vivono la comunione secondo lo spirito e la regola della casa madre. Nella Fraternità don Massimo faceva rifluire un’idea originaria già presente nell’insegnamento di don Giussani e nel movimento di CL: la Casa, la comunione come compagnia guidata al destino. Don Giussani stesso ebbe a commentare la fondazione della Fraternità San Carlo con queste parole: «Un’opera che lo Spirito Santo ha voluto perché il carisma di Comunione e Liberazione possa invadere il mondo anche attraverso un’energia missionaria sacerdotale» [15] .

    Il decreto di riconoscimento pontificio è stato firmato il 19 marzo 1999, il giorno di san Giuseppe, patrono della Fraternità Sacerdotale. Il sabato successivo, alla Messa di ringraziamento in via Boccea, presieduta dal cardinale Segretario di Stato Angelo Sodano, diverse personalità vaticane hanno voluto rendere omaggio alla Fraternità.

    Anche don Giussani, in una lettera ai seminaristi e ai sacerdoti della Fraternità, sottolineò la sua gioia per questo riconoscimento. Attraverso di esso, commenta don Giussani, «Sua Santità riconosce ancora una volta l’autenticità ecclesiale del carisma di Comunione e Liberazione, metodologicamente fondamento e scopo della vostra Fraternità Sacerdotale». In tale occasione, il fondatore di CL non mancò di mettere in luce il contributo per questa opera di don Massimo, «segno della nostra elezione sacerdotale missionaria» [16] .

    Insieme alla Fraternità, nacque il seminario per la formazione dei presbiteri. Anch’esso trovò la sua prima sede alle Cappellette. Parte importante della vita del seminario, oltre alla liturgia e allo studio, furono fin da subito alcuni gesti che ancora oggi caratterizzano il metodo educativo della Fraternità: l’incontro mensile della casa, le caritative e l’ospitalità. Ricordo con gratitudine che don Massimo, nel 1991, mi chiese di conferire a un gruppo dei seminaristi il sacramento del diaconato.

    Una rivista mensile della Fraternità Sacerdotale, nata nel dicembre 1995 e chiamata Fraternità e Missione, permette di rimanere in contatto con i sacerdoti sparsi per il mondo attraverso testimonianze personali e altri aggiornamenti. Io stesso ne sono un lettore: i resoconti sulle gioie e le difficoltà dei preti ivi raccontate mi sono serviti non di rado per la mia vita spirituale.

    5. Nuove forme di vita per l’uomo

    Per il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla raggiungere i 75 anni non può significare la fine della sua attività pastorale in CL e in Italia. Tuttavia, in un bilancio intermedio della sua vita, mi sembrava doveroso registrare il suo impegno ad ampio raggio a favore dei nuovi movimenti. Per marcare la loro esemplarità ecclesiale si era appellato alla massima autorità ecclesiastica nella citata conferenza di Budapest del 1989. Facendo riferimento all’omelia di papa Giovanni Paolo II del 27 settembre 1981, don Massimo ebbe a sottolineare una caratteristica della Chiesa che oggi è spesso dimenticata: «"La nostra Chiesa si trova in statu missionis. Essa è un movimento che penetra nei cuori e nelle coscienze. È un movimento che si iscrive nella storia dell’uomo e delle comunità umane… [Il Papa] sente l’urgenza che gli uomini abbiano a riscoprire l’attualità e il fascino della fede, sente l’urgenza che questa fede diventi forma della vita, diventi capace di forme nuove di vita per l’uomo"».

    È difficile trovare una descrizione dei nuovi movimenti più profonda di questa formulata da don Massimo.


    [1] H. U. v. Balthasar, «Laienbewegungen in der Kirche», in: Gottbereites Leben. Der Laie und der Rätestand, Einsiedeln 1993, 214–240.

    [2] Mi riferisco a due opere fondamentali di Werner Stark: The Sociology of Religion. A Story of Christendom, New York Voll. I–V, 1966–1972 e The Social Bond. An Investigation into the Bases of Law-abidingness, Voll. I–VI, New York 1976–1987.

    [3] W. Stark, The Sociology of Religion…, cit., vol. II (1967), 59s.

    [4] Ibidem, vol. III (1967), 405.

    [5] Giovanni Paolo II, Discorso ai movimenti ecclesiali riuniti per il II colloquio internazionale, 2 marzo 1987, n. 3. Cfr. AA. VV., I movimenti nella chiesa: atti del 2. Colloquio Internazionale su Vocazione e Missione dei Laici nella Chiesa Oggi, Rocca di Papa, 28 febbraio - 4 marzo 1987, Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 1987, 25.

    [6] La loro crescita è stata dimostrata dal documento «Pontifical Council for the Laity, International Associations of the Faithful», Vaticano 2006. Approvazione definitiva: 86 comunità; approvazione ad experimentum: 25 comunità.

    [7] Christifideles laici, 29s.

    [8] Cfr. M. Camisasca, Comunione e Liberazione II, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, 56-58.

    [9] Citato in: A. Monnin , Esprit du curé d’Ars. Saint J.-B. M. Vianney dans ses catéchismes, ses homélies et sa conversation, Paris 1975, 86.

    [10] Cfr. W. Stark, The Sociology of Religion..., cit., in part.: Saint and Priest Vol. IV, New York 1970, 98-211.

    [11] Ibidem. 172.

    [12] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dei Verbum. Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, n. 7.

    [13] W. Stark, The Sociology of Religion..., cit., 178.

    [14] Cfr. www. Zahlen und Statistiken @ Selige KZ Dachau, 15. 3. 2021.

    [15] Cfr. A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano, 2013, 689s.

    [16] Ibidem, 1045.

    «Ministri di una Nuova Alleanza» (2 Cor 3,6)

    Sacerdoti per l’annuncio del Vangelo

    Questo nostro tempo segnato dall’indebolimento dell’adesione alla fede e della pratica religiosa e, nello stesso tempo, dalla diffusione della ricerca del senso della vita, della domanda di religiosità e di spiritualità esige una opportuna una riflessione sulla figura dei sacerdoti, uomini dedicati a tempo pieno alla missione di annuncio del Vangelo.

    I sacerdoti hanno sempre goduto a ragione di alta considerazione e stima presso i fedeli, e non solo da parte dei cattolici praticanti, per la totale dedizione al loro compito di maestri nella fede e di guide delle comunità cristiane, attenti a tutti, veri testimoni della prossimità della Chiesa nelle varie situazioni esistenziali delle persone e nelle differenti realtà locali.

    Oggi, avvertiamo la necessità della rivalutazione della grandezza del sacerdote, nonostante le ombre che ne oscurano l’immagine e la missione, nella prospettiva della Chiesa che evangelizza.

    È un argomento al quale Sua Eccellenza Mons. Massimo Camisasca ha dedicato attenzione costante, ancor più attestata dal suo ruolo di fondatore e superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo.

    Il Concilio Vaticano II ha osservato che: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti» ( Gaudium et spes, n. 1).

    Appunto dalla comunità dei credenti in Cristo occorre partire per una comprensione della natura del ministero presbiterale fondata ecclesiologicamente. La Chiesa, comunità cristiana particolare in un luogo, è il grembo sorgivo della fede in Cristo di tutti i battezzati ed in particolare dei presbiteri.

    La loro vocazione nasce dal desiderio sempre più maturato nel tempo di essere, come Cristo, servi della comunità, in conformità al messaggio ed allo stile di vita del Signore. Avvertono il senso del loro essere a disposizione degli altri all’interno della comunità cristiana per la realizzazione piena della istanza relazionale che li anima.

    Il servizio è l’atteggiamento radicale che alimenta la spiritualità sacerdotale e l’azione pastorale; è basato sul superamento di sé stessi per cercare con passione il bene degli altri e donare la propria vita come il Signore Gesù ha fatto. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, - invita a fare l’apostolo Paolo-, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» (Fil 2, 5-10).

    Ritengo che rinnovate considerazioni sul rilievo del presbitero nella comunità cristiana, fondate sull’identità sacramentale e sulla missione pastorale, possano aiutare a pensare al futuro della vita dei sacerdoti con speranza. Ne sottolineerei alcune.

    Servo del Signore e degli uomini

    I sacerdoti sono servi non perché schiavi, ma perché ciò che danno non è loro; ne sono essi stessi destinatari. Hanno il compito di aiutare i fratelli ad accoglierlo ed a renderlo fruttuoso. «I presbiteri sono stati presi tra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati: vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli» ( Presbyterorum ordinis, 3; cfr. Eb 5, 1-4).

    Il ministero presbiterale fa riferimento alla comunità ecclesiale, infatti trova origine nella dottrina del sacerdozio comune dei battezzati, che è la partecipazione della Chiesa al sacerdozio fontale di Cristo, poiché: «Uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tim, 2, 5-6). Solo alcuni uomini nel popolo dei battezzati sono chiamati al servizio totale della costruzione della comunità ecclesiale, a questo sono ordinati e quindi costituiti.

    «Proprio a partire dal sacerdozio battesimale – ha spiegato sinteticamente Mons. Camisasca - nasce perciò la necessità del sacerdozio ordinato. Quest’ultimo è dunque a servizio del primo. Quello battesimale è lo scopo, quello ordinato è un mezzo. È soltanto un servizio, ma di rappresentare sacramentalmente la mediazione di Cristo. [...] il sacerdozio ordinato esiste in funzione del popolo, perché il popolo sia» [1] .

    Sicché ben si addice alla missione del sacerdote l’immagine del ponte, per il fatto di essere il mezzo attraverso il quale si attua la mediazione di Cristo verso battezzati; egli si trova nella connessione tra due sacralità: l’azione di salvezza di Dio a favore degli uomini e la ricerca di Dio da parte dell’uomo.

    Da un versante si sente ricco dell’esperienza dell’incontro con Dio, che alimenta con la preghiera personale, con la liturgia e con la familiarità e con la presentazione della Parola di Dio.

    Dall’altro versante riesce ad entrare in relazione con gli uomini, come se stesse camminando su una ‘ terra sacra’, intrisa della presenza di Dio: del Padre che li ama, del Figlio che li ha redenti, dello Spirito che li ispira.

    Alla scuola di Cristo

    L’esistenza sacerdotale ha la sua origine nella relazione con Cristo. La missione sacerdotale è impensabile dal punto di vista umano sia in riferimento all’Eucaristia sia per il sacramento della tenerezza e del perdono di cui è strumento. Sono i caratteri della missione sacerdotale che attraverso la celebrazione dell’Eucaristia ed il sacramento del perdono manifestazione la gratuità di Dio. Il Padre ha inviato il Figlio per salvare il mondo; Gesù Signore chiama e invia gli apostoli perché in un rapporto familiare con lui traggano ispirazione e forza per comunicare il dono di Dio e così contribuire a costruire la Chiesa ed a realizzare il Regno.

    Fondamentale e singolare è la relazione del prete con il Signore per la identità sacerdotale e per la natura della sua missione di annunciatore del Vangelo di Gesù.

    Nell’esordio della lettera ai Romani San Paolo dice di sé stesso: «servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio

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