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Portami nel tuo Inferno
Portami nel tuo Inferno
Portami nel tuo Inferno
E-book515 pagine7 ore

Portami nel tuo Inferno

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Info su questo ebook

Quando Zeus, dopo la Titanomachia, decide di spartire il dominio del mondo con i suoi fratelli, sceglie per Poseidone il mare, per sé il cielo e per Ade gli inferi, condannandolo alla solitudine. Il monarca infernale, però, viene conquistato dagli occhi della bella Persefone, figlia prediletta di Zeus, e un giorno, grazie all'aiuto di Afrodite, riesce a rapirla e portarla con sé nel suo regno di tenebra. Il suo è un gesto clamoroso che porta nuovamente gli dei a una battaglia feroce, tanto quanto lo è il sentimento che la muove e Zeus vuole contrastare: l'amore. Contro ogni previsione, i due riescono a coronare il proprio sogno, riportando a nuova vita il rapporto fra i due fratelli, divisi dall'ambizione e dalla potenza. Col passare dei millenni, il matrimonio di Afrodite e Ares è l'occasione per il loro ritorno sull'Olimpo, ma una giornata apparentemente lieta viene bruscamente interrotta da un ospite indesiderato. Il cielo e gli inferi sono chiamati ad allearsi per sconfiggere un nuovo nemico che porta a galla un passato dimenticato, sepolto nella parte più profonda del Tartaro.
LinguaItaliano
Data di uscita4 dic 2021
ISBN9791220872010
Portami nel tuo Inferno

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    Anteprima del libro

    Portami nel tuo Inferno - Diletta Brizzi

    Diletta Brizzi - Yvan Argeadi

    Portami nel tuo Inferno

    UUID: b2108bf5-e341-4352-8cf9-48bde74f2e90

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Biografia

    Altre opere degli autori

    immagine 1

    © 2020 Yvan Argeadi e Diletta Brizzi yvanargeadi@gmail.com

    dilettabrizzi@gmail.com

    Editing, correzione di bozze e impaginazione: Diletta Brizzi

    Copertina realizzata da Catnip Design - Be Sophisticated © | www.catnipdesign.it

    immagine 1immagine 2

    Capitolo 1

    Rapita dalle Tenebre

    «Gli dei non sono le statue che ammiri

    nei templi: stanno lassù in una casa in

    visibile. Là vivono immortali, siedono a

    banchetto bevendo nettare e nutrendosi

    di ambrosia. E quei fulmini sono scaglia

    ti da Zeus in persona. Egli può colpire

    chiunque e qualsiasi cosa in qualunque

    parte della Terra».

    Alexandros. Il figlio del sogno,

    Valerio Massimo Manfredi

    Ed era in quel luogo magnifico alla corte di quel Dio, che si trovavano Persefone, figlia di Demetra, Dea della fertilità e della Natura, e Zeus, Padre degli Dei. La giovane se ne stava sulla torre più alta dell'Olimpo a osservare coloro che suo padre aveva generato: gli esseri umani.

    «Creature senza dubbio interessanti» sussurrò una presenza femminile dietro di lei.

    «Afrodite, sorella mia, anche tu a volte sei incuriosita da questi esseri mortali?» domandò Persefone.

    «Sì, ma potresti stupirti del fatto che essi siano molto simili a noi, soprattutto per quanto riguarda i sentimenti.»

    Afrodite si appoggiò a una colonna, guardando come la sorella in basso.

    Messe a confronto le due giovani Dee erano agli antipodi: Afrodite aveva la pelle d'alabastro, la folta chioma dorata e gli occhi dello stesso colore del miele; Persefone era di un pallore mortale, i capelli mossi castano scuro e gli occhi di ghiaccio. Senza dubbio le due Eterne non sarebbero passate inosservate agli occhi di un qualsiasi essere umano, né agli occhi degli altri Dei, cosa che aveva causato le ire, ma soprattutto le invidie, di Era, la moglie di Zeus.

    Le due, nonostante avessero madri differenti, si erano sempre sentite legate da un filo invisibile.

    «Voglio scendere tra loro» esordì dal nulla Persefone.

    «Nostro padre ci ha espressamente vietato di interferire con le faccende umane, sorella! E lo sai.» L'ammonì.

    «Voglio solo dare un'occhiata, sono stufa di stare sempre sull'Olimpo mentre tutti gli altri nostri fratelli possono scorrazzare liberi. Insomma, guarda Atena, che prende parte alle battaglie in quanto abile stratega, oppure Artemide che sta sempre con le sue ancelle nei boschi della Terra. No, voglio andare, ma tu devi promettermi di non farne parola con nessuno» concluse prendendo le mani di Afrodite.

    «E va bene, ma tua madre Demetra sa dove trovarti, non ti dimenticare che è la Dea della Natura.»

    «Lo so, ma lei conosce il mio animo. Ora vado! A presto, sorella cara e grazie.» Così dicendo Persefone scomparve lasciando al suo posto petali di rosa rossa.

    Non so perché ma sento che il cuore di mia sorella verrà presto rubato, pensò la Dea dell'amore.

    «Zeus, fratello mio, perché mi hai riservato una simile condanna? Io che ti procurai il potere della Folgore, che inabissai nostro padre Crono nelle profondità del Tartaro, proprio io, vengo punito con l'esclusione dall'Olimpo, come fossi quell'animale di Pan, o un portatore di disordini come Dioniso! Quale fu la mia colpa? Quel giorno tu prendesti quella decisione, ma cosa chiesi io se non la mano di una delle tue figlie? Ed è per questo che le porte del Regno Divino mi sono state chiuse? Per aver amato tua figlia?»

    Le parole del Dio degli Inferi, pronunciate con un filo di disperazione, si udivano distintamente in tutta la stanza, come se egli si stesse rivolgendo a un interlocutore inesistente, mentre il suo sguardo si perdeva in quel cielo rosso sangue oltre le cui nuvole si celava niente meno che il suolo della Terra.

    Il Dio si trovava nella più alta delle torri di un imponente castello, affacciato al terrazzo principale, da cui poteva contemplare con il suo sguardo divino tutto l'Inferno.

    Ovunque i suoi occhi si posassero vi era buio, un’oscurità cui ormai era abituato. L'Inferno era così, un’immensa landa desolata e buia, in cui le anime dei defunti risiedevano in agglomerati urbani sotterranei. Quattro erano le città principali degli Inferi: Pandemonium, Acheron, Adamantinarx e la capitale Dite, ove sulla sommità del monte più alto si ergeva il palazzo reale in cui Ade risiedeva solitario, circondato solamente da demoni servili e obbedienti. Gli edifici erano costruiti su modello dell'antica Grecia e il tempo lì pareva essersi fermato ad allora. Dite era attraversata dal fiume di sangue noto come Stige, mentre più a nord, in prossimità dei confini con il mondo dei viventi, scorreva l'Acheronte, il tratto d'acqua che ogni anima defunta era destinata ad attraversare per giungere da Minosse, l'ex Sovrano dell'isola di Creta e ora giudice dei defunti. Le anime che non possedevano denaro per pagare il traghettatore erano destinate ad attraversare il fiume a nuoto, immergendosi in acque avvolte da una perenne nebbia oscura. Il loro cammino poteva durare secoli.

    In prossimità della provincia governata da Minosse vi era un altro luogo, il peggiore di tutto l'Inferno: il Tartaro. Si trattava di una voragine infuocata che si estendeva verso il basso, giù fino al centro della Terra. Lì erano destinate ad ardervi in eterno le anime dei peccatori, ovvero di tutte quelle persone che avevano trascorso la loro esistenza in funzione del Male. In fondo a quell'abisso erano imprigionati i Titani.

    Le anime che invece non avevano alcuna colpa, ma che erano finite in quel luogo per semplice rifiuto delle divinità Celesti, ottenevano la cittadinanza infernale e potevano continuare ad avere una parvenza di esistenza normale in una delle città infere.

    Il campo del giudizio era senza alcun dubbio il luogo in cui Ade preferiva recarsi, spesso per pronunciare egli stesso il verdetto finale di condanna. Forse per disprezzo dei malvagi, oppure secondo altre voci per nutrirsi della loro sofferenza e alimentare la propria immortalità, nella stessa maniera in cui le divinità Celesti traevano forza dall'amore degli esseri umani e dalle loro preghiere. Per questo scopo l'uomo era stato creato, e nulla più di questo. L'aria nei pressi del Tartaro era irrespirabile e solforosa; soltanto pochi oltre ad Ade e Minosse riuscivano a rimanervi per tempi prolungati.

    Dall'altra parte di quel tenebroso Regno, invece, a sud di Dite, dove i lamenti dei condannati non arrivavano, si trovava una regione conosciuta come Campi Elisi, l'unica zona naturale e verdeggiante di quel luogo dimenticato dagli Dei. Lì le nuvole erano biancastre e i riflessi delle pietre preziose davano a esse un vago colore celeste simile al cielo che riusciva a intravedersi dalla Terra, ma pur sempre lontano dallo splendore grandioso dell'Olimpo. Poteva essere considerato un vero e proprio parco naturale, in cui vivevano anche gli spiriti delle creature defunte prive di raziocinio, come esseri animali.

    Un posto simile sembrava fuori luogo, nelle regioni più remote e lontane dell'Inferno.

    Ade chiuse gli occhi per un solo istante, ripensando ai giorni in cui gli era concesso accedere al mondo delle Divinità Celesti. Ricordava bene la luce emanata da quei grandiosi palazzi regali, come fossero dotati di splendore proprio. Tuttavia non erano i fasti e i lussi di quel posto a procurargli nostalgia, o almeno non quanto poteva suscitare in lui sofferenza il ricordo di quegli occhi azzurri come il più sereno Dei cieli, l'unico sguardo capace di attirare la sua attenzione tra mille volti.

    «Persefone...» sussurrò sospirando.

    Avrebbe voluto rivederla almeno una volta, per sapere che stava bene, che era felice, e in cuor suo si domandava spesso se lei, nonostante la giovane età, si ricordasse di lui. Probabilmente no. Zeus, forse, aveva rimosso dalla sua memoria quel minuscolo, insignificante, frammento di ricordo, o più probabilmente non si era accorta di lui all'epoca. Mentre il Sovrano dell'Oltretomba annusava l'aria che gli sferzava tra i capelli, venne preso da un impulso irrefrenabile ed esclamò: «Andrò sulla Terra!» senza conoscere nemmeno lui le motivazioni di quel desiderio.

    Avvolta da petali di rose rosse Persefone giunse sulla Terra, che aveva spiato per tutti quegli anni dalla sommità dell'Olimpo, un luogo sicuro per una giovane Dea come lei.

    Suo padre Zeus, infatti, era stato un genitore molto presente e allo stesso tempo iperprotettivo nei confronti della figlia. Neppure con la sua primogenita Afrodite si era mai comportato in questo modo e Persefone non riusciva a comprenderne il motivo. Aveva provato a chiedere a Demetra, ma la madre aveva sempre sviato il discorso, così la giovane aveva deciso di non pensarci.

    Una cosa era certa: se Zeus avesse saputo che era andata sulla Terra senza nemmeno avvertirlo, avrebbe passato dei guai. Ma per fortuna poteva contare sull'appoggio della sorella.

    Scacciando quei pensieri dalla testa Persefone decise di godersi quei pochi attimi di libertà, lì sulla costa frastagliata della Magna Grecia, proprio dove si diceva che si trovasse Cariddi, la ninfa, figlia di Poseidone e di Gea, tormentata da una illimitata voracità.

    Si narrava che avesse rubato e divorato i buoi di Eracle, che era passato dallo Stretto coll'armento di Gerione, e che Zeus, per punirla, l'avesse tramutata in un orribile mostro.

    «Un destino senza dubbio crudele! Povera Cariddi, costretta a rimanere da sola in eterno.» Sussurrò cogliendo un fiore e gettandolo in mare per la povera ninfa, voltandosi per dirigersi all'ombra di un albero nell'interno della costa per osservare la Natura intorno a lei: gli uccellini cinguettavano aspettando che la madre portasse loro del cibo, la brezza leggera le scompigliava i capelli portando con sé l'odore di salsedine proveniente dal mare.

    Per la prima volta Persefone non pensava ai doveri di una Dea, quale era, ma si comportava come una normale ragazza nel fiore degli anni.

    «Sua maestà è qui!» annunciò una voce attirando l'attenzione del gigantesco Minosse.

    «Mio Signore, a cosa devo questa visita inaspettata?» domandò il giudice dei dannati vedendo palesarsi alle porte del palazzo del giudizio l'immagine di Ade.

    «Sono solo di passaggio, non occorrono tante formalità.» rispose il Sovrano attraversando la stanza.

    Al suo passaggio le anime che attendevano la sentenza relativa alle azioni compiute in vita ammutolivano una dopo l'altra; tutte tranne una, che imprecava contro i presenti.

    Ade si fermò e gli domandò: «Qual è il tuo nome, larva?»

    «Io sono l'imperatore di un luogo lontano. Re Dei Re, splendente Dio in Terra, e non accetterò mai il...» Il suo discorso venne interrotto dall'improvvisa comparsa sulle sue labbra di strette cuciture.

    «E così saresti un Dio. Bene, in tal caso non sarà difficile per te tornare a parlare...», disse pacatamente Ade, rivolgendosi poi a Minosse, «Sii indulgente con quest'anima: hai sentito anche tu, è un Dio e dobbiamo portargli rispetto.» Per tutta risposta Minosse, confuso, annuì.

    «Ti rimanderò sulla Terra, come si addice a un Dio. Rinascerai in un nuovo corpo e avrai una nuova esistenza. Lavorerai la terra di tuo padre, concimerai i campi con le tue stesse mani e farai nascere verdura e frumento per tutti. Alleverai bestiame e spalerai i loro escrementi e tutti, nella tua città, vivranno di ciò che tu procuri loro, avrai le loro vite nelle tue mani. Non è gratificante essere un Dio?» Un velo di ironia accompagnò l'ultima domanda e lo stesso Minosse trattenne a stento una risata divertita.

    Tornando serio in volto, Ade diede una pacca sulla spalla a quell'anima superba e riprese a camminare fino alle rive dell'Acheronte, dove lo attendeva il traghettatore.

    Non occorrevano monete per il Re dell’Inferno, che salì sull'imbarcazione facendo cadere nelle acque scure le anime presenti su di essa e coricandovisi comodamente attendendo di raggiungere la riva opposta.

    «Siamo arrivati, mio Signore», mormorò con voce roca Caronte.

    Ade varcò il confine del Mondo dei Morti e dopo soli pochi secondi la desolazione che lo circondava fu sostituita da alberi, piante e fiori. I lamenti dei dannati lasciarono spazio al cinguettio dei passerotti, il vento caldo e solforoso si tramutò in una leggera brezza primaverile. Era il luogo in cui vivevano i mortali.

    «Ogni volta che riemergo è come fosse la prima», replicò il Dio chiudendo gli occhi. Annusò l'aria e percepì un profumo familiare.

    «Non è possibile, mi sto sicuramente sbagliando!»

    Seguì il profumo di rose e in lontananza vide il più inatteso degli spettacoli. La Dea Persefone seduta all'ombra di una grande quercia, circondata da girasoli e margherite.

    «Persefone...»

    Gli uscì flebilmente sussurrato dalle labbra, incredulo e con il cuore che gli batteva nel petto all'impazzata. Con passi indecisi fece per avvicinarsi alla bella Dea, quando d'un tratto un raggio luminoso accecante proveniente dal Sole gli si parò dinnanzi, lasciando poi posto a una sagoma familiare.

    «Apollo.»

    «Vedo che non ti è passata la voglia di mettere piede sulla Terra. Eppure Zeus era stato chiaro!» Ade inclinò il viso di lato mordendosi il labbro in segno di nervosismo: Apollo, con l'armatura d'oro, emanava una luce seconda solo a quella della stella di cui era il Sovrano.

    «Lei? È molto bella, non è vero?», gli domandò sussurrato all'orecchio riferendosi all'ignara Persefone. «È mia!»

    Ade si voltò di scatto afferrando il Dio del Sole per la gola e sollevandolo dal suolo.

    «Non è a te che è stata promessa in sposa!» ringhiò.

    «Neppure a te, razza di verme. Zeus è stato chiaro: lei appartiene ad Ares», rispose l'altro.

    «Vada all'Inferno Zeus e Ares con lui! Come pensi che reagirebbe il tuo benevolo paparino se sapesse che ti trastulli spiando sua figlia?» La domanda provocatoria di Ade suscitò l'ira di Apollo, il quale unendo i palmi delle mani proiettò un bagliore nei suoi occhi accecandolo, in maniera tale da liberarsi dalla presa.

    Allungò poi la mano destra poggiandola sul petto del Signore degli Inferi ed emise un raggio di energia solare che scaraventò Ade a miglia di distanza, radendo al suolo l'intera foresta. Il trambusto creatosi attirò l'attenzione della Dea.

    La sensazione di leggerezza che pervadeva Persefone finì di lì a breve. Ciò che vide la inorridì.

    Laddove prima c'era natura ed esseri viventi, ora c'era soltanto morte e desolazione; guardando ai suoi piedi Persefone vide quegli stessi uccellini che prima chiedevano del cibo alla madre, e la stessa madre, morti. Raccogliendo il nido si guardò intorno per cercare di capire chi fosse la causa di tutto questo.

    «Ed ecco la mia sorellina a spasso sulla Terra», disse una voce maschile proveniente dalle sue spalle.

    «Apollo!» Fu tutto ciò che disse Persefone, mutando espressione: se prima era inorridita, adesso era furiosa., «Sei stato tu a fare questo? Che ti è saltato in mente?», gli urlò contro.

    «Orsù, Persefone, è soltanto un bosco!» sghignazzò lui di rimando, divertito per la reazione avuta dalla sorella, cosa che però non fece altro che far infuriare ancora di più la giovane.

    «Non è solo un bosco!» Così dicendo creò intorno al corpo di Apollo fasci di spine che penetrarono nella sua carne e, contemporaneamente, grazie al potere ereditato da sua madre, ricreò l'ambiente circostante, riportando alla vita tutti gli esseri morti per mano del Dio del Sole. Gli uccellini e la loro madre tornarono in vita e guardarono Persefone come a volerla ringraziare.

    «Non puoi farlo! Sai che è proibito interferire con gli umani!» le aveva detto Apollo.

    «Pensi che mi importi in questo momento? E poi io sto rimediando ai problemi causati da un Dio pomposo e narcisista come te, e non dagli umani! Non osare mai più toccare ciò che io o mia madre abbiamo creato, altrimenti ti farò pentire di essere nato, fratello!» Detto questo Persefone riportò il nido al suo posto e, senza nemmeno degnare di uno sguardo il Dio, si smaterializzò lasciando al suo posto petali di rose rosse: era tempo di tornare sull'Olimpo.

    «Che caratterino focoso...», disse Apollo strofinandosi il mento, «Mi piace.»

    Il corpo di Ade galleggiava sul pelo dell'acqua di quel mare di mezzo che, tempo addietro, aveva visto la nascita della bella Afrodite. Un passerotto gli si posò sul ventre cinguettando e guardandosi intorno.

    «Apollo, hai firmato la tua condanna a morte!» ringhiò, poco prima che un’aura nera lo avvolgesse, provocando la morte dell'uccellino e di tutti i pesci di quel tratto d'acqua che, a uno a uno emersero, col ventre rivolto verso l'alto, morti.

    «Persefone è mia!» gridò, sollevandosi dalle acque avvolto dalla sua aura infernale e dirigendosi verso il luogo in cui era avvenuto l'incontro con il Dio del Sole.

    I suoi piedi non toccavano il suolo e ogni forma di vita che incontrava la sua aura appassiva o moriva. Il Dio degli Inferi era furibondo e la sua ira si ripercuoteva sull'ambiente circostante.

    Quando arrivò nei pressi del prato in cui Persefone si trovava la vide riportare alla vita piante e animali, precedentemente uccisi da Apollo. Le parole furiose di lei nei confronti del Dio del Sole attenuarono l'ira che infiammava il suo cuore, lasciando spazio a una crescente sensazione di tristezza e rammarico.

    Ade si guardò indietro, vedendo la scia di morte che aveva lasciato al suo passaggio, e comprese che lui e Persefone erano agli antipodi. Lei era la vita, lui la morte.

    «Non avremo mai un futuro insieme...» mormorò girandosi nuovamente, ma lei non era più lì.

    Apollo notò la sua presenza e gli lanciò un’occhiata di superbia per poi farsi avvolgere dalla stessa luce abbagliante che aveva preannunciato il suo arrivo e scomparire.

    Una lacrima rigò la guancia di Ade, scivolando verso il mento e ancora più giù, cadendo sul terreno. Al contatto con essa, l'erba appassì. Un grido disperato uscì dalle sue labbra e l'ira si impadronì ancora una volta di lui. Con un pugno spaccò il suolo aprendo l'Inferno sotto i suoi piedi, con le sue fiamme ardenti e i dannati che cercavano di uscirvi, per poi voltarsi verso il cielo.

    «Io giuro su tutti gli Dei dell'Inferno che avrò la mia vendetta, Zeus! Che tu sia maledetto!» imprecò ad alta voce per poi lasciarsi cadere tra le fiamme e scomparire insieme al varco che aveva creato.

    «Come ha potuto fare una cosa del genere quel pomposo?!» domandò Persefone ad Afrodite.

    «Sai come è fatto nostro fratello, è fin troppo sicuro di sé.» Le rispose la Dea dell'amore, la quale conosceva bene ciò che celava il cuore di Apollo: amava Persefone, anzi, la voleva per sé ma, come era evidente, lei non solo non si era accorta di tale sentimento, ma non aveva nessuna intenzione di ricambiarlo.

    «Non ti corrucciare, sorella cara, ormai tutto è passato e sei riuscita a sistemare questa situazione», disse Afrodite un attimo prima di veder passare accanto a loro un Dio, vestito come un guerriero e con la spada legata sulle spalle, i muscoli in tensione, pronto a combattere: Ares, Dio della guerra.

    A Persefone non sfuggì lo sguardo di Afrodite, quello sguardo che la stessa Dea anelava, ma che non aveva mai avuto nei confronti di nessuno: desiderio e amore.

    «Afrodite...», iniziò la Dea prendendola per mano e conducendola nella sua stanza, «Devi per caso dirmi qualcosa?».

    Quando la Dea dell'amore fu lontano dallo sguardo attento di Ares poté spiegare alla sorella l'attrazione che provava per lui.

    «Vedi, mentre ti trovavi sulla Terra, ho sentito parlare nostro padre con Poseidone. Ho origliato la conversazione e siamo promesse in sposa a un Dio scelto da lui, senza tenere in conto della nostra volontà.» Disse abbassando lo sguardo, «Io sono stata promessa in sposa a Efesto, il Dio del fuoco, colui che forgia le armi per tutti gli Dei. Tuttavia il mio cuore e la mia essenza appartengono ad Ares. Sento che per Efesto provo soltanto affetto e non la passione o il turbinio di emozioni che scatena dentro di me Ares.» Concluse omettendo volontariamente la parte riferita a Persefone: non doveva sapere a chi fosse stata promessa in sposa.

    «Mi dispiace, sorella, ma purtroppo, come ben sappiamo, non possiamo trasgredire le leggi, o per lo meno, non alla luce del sole… ma di nascosto sì.» Le disse Persefone guardandola con aria complice: come era ben noto, le due Dee avevano preso il carattere ribelle del padre.

    «È vero, ma adesso sarà meglio prepararci: ci attende un banchetto divino.» Così dicendo Afrodite si diresse fuori dalla porta appoggiandosi a essa dopo averla chiusa.

    «Perdonami, sorella cara, ma c'è in gioco il mio amore, e anche il tuo!» Scomparendo dall'Olimpo, la Dea dell'amore si diresse dalla sola persona che la poteva aiutare.

    Sull’intero palazzo Infernale regnava un silenzio innaturale. Ovunque i demoni serventi si domandavano che cosa fosse accaduto al loro Signore, chiusosi nella sua stanza da letto dal momento del suo ritorno dalla Terra quattro giorni prima. All'Inferno il tempo scorreva diversamente rispetto alla Terra, così come sull'Olimpo e, quella che in un Regno era percepita come un’ora, poteva essere anni in un altro, o giorni in un altro ancora.

    «Non lo so, l'avevo visto camminare con passo deciso, ma non si era fermato per dare alcuna spiegazione.» Borbottò il demone Asmodeo, responsabile del guardaroba del Sovrano degli Inferi, colui che conosceva Ade più intimamente fra tutti i servitori.

    «Minosse ha detto che era fuori di sé quando è tornato dalla Terra quattro giorni fa! Pare abbia addirittura licenziato Caronte e che non abbia mangiato ancora nulla… Sarà debolissimo!» spettegolò un altro demone.

    «Lascia perdere quelle voci, essere licenziati negli Inferi equivale a venir condannati al fuoco del Tartaro e io ho parlato con Caronte proprio pochi minuti fa. Ha detto di non aver affatto visto Ade di ritorno», risposte l'altro guardandosi intorno come a non volersi far sentire da nessun altro.

    «Che cosa? Ma allora il nostro Signore è ancora sulla Terra?» ribatté nuovamente Pazuzu.

    «E io chi avrei visto secondo te, razza di imbecille? Un fantasma?», replicò infastidito Asmodeo, «A me non sembrava affatto arrabbiato, anzi. Tuttavia ho visto Ade chiudersi in se stesso in quel modo soltanto una volta…» Si interruppe di colpo e il suo viso si contrasse in una smorfia incomprensibile.

    «E?» domandò Pazuzu, incuriosito e col viso a pochi centimetri da quello di Asmodeo.

    «Sicuramente ci preoccupiamo per nulla...», ribatté «Chiama un paio delle migliori e più attraenti succubi e falle recapitare nella sua stanza. Ora ho da fare.» Asmodeo sapeva bene che non era la compagnia femminile che il suo Signore cercava; probabilmente avrebbe massacrato quelle prostitute infernali prima ancora che potessero mettere piede nella sua stanza e per tal ragione aveva ordinato all'amico di procurargliele. Quando c'era qualcosa che non andava Ade non si sfogava col sesso, come un demonio qualsiasi, ma con le torture. Traeva la sua forza dalla sofferenza emotiva altrui: era questo il suo nutrimento dal momento che gli venne precluso l'Olimpo e l'amore degli esseri umani, fonte di energia per le altre divinità.

    «Quello sguardo...», borbottò tra sé e sé Asmodeo, chiudendosi nella biblioteca del palazzo, «L'ho visto soltanto una volta, quegli occhi», rifletté dirigendosi al piano superiore della stanza e, con gesto deciso, afferrò un libro dallo scaffale.

    Certo, concentrarsi sulla lettura non era affatto impresa facile in un luogo come l'Inferno, molto più saggio sarebbe stato farsi avvolgere dalla quiete dei Campi Elisi. Ade avrebbe definito noioso un luogo simile, come tutti gli spiriti infernali d'altronde, e forse era per questo che nessuno vi si recava mai. I Campi Elisi erano un piccolo angolo di Paradiso in un luogo che di paradisiaco non aveva proprio nulla. Ade stesso, sebbene snobbasse quel luogo, l'aveva creato, rubando dalla Terra i semi delle piante e le pietre azzurrine che donavano a quella zona un’atmosfera simile alla natura terrestre. Ma per cosa? O meglio, per chi aveva preparato quel luogo? Asmodeo se lo era sempre domandato.

    Girò il libro in maniera tale da poter vedere la copertina: la scritta in greco che vi era incisa non lasciava dubbi all'immaginazione: quella era la storia della Titanomachia, la guerra tra Dei e Titani.

    «Lo sapevo!» Ripensando a quando prima di allora aveva visto il suo padrone chiudersi in se stesso in quel modo, poco prima di introdursi nel palazzo di Crono e rubare le armi che sarebbero servite a lui e ai suoi fratelli per detronizzare i loro genitori ed esigere ciò che gli era stato negato, «Sento aria di tempesta!»

    Nel frattempo Ade contemplava lo scenario che gli si parava dinnanzi, da quella grande finestra poteva scorgere il cielo rosso sangue dell'Inferno e i demoni alati che andavano da una zona all'altra di Dite.

    Non si muoveva, era impassibile seduto su quella sedia.

    La calma apparente celava un turbinio di emozioni in aperto contrasto tra di loro.

    Desiderio, passione, speranza, tristezza, odio, amore. A ognuna di queste emozioni corrispondeva un’immagine vivida nella sua mente. Il desiderio era portato dall'immaginare la bella Persefone completamente nuda davanti ai suoi occhi, pronta a concedersi a lui. La speranza era dovuta al piano che stava escogitando per averla. La tristezza della consapevolezza che lui era il suo opposto; probabilmente non avrebbe mai potuto darle una vita felice e serena, come invece avrebbe potuto fare un Dio dell'Olimpo. L'odio nei confronti di Zeus per aver proibito una tale unione. E, per finire, l'amore, il più estraneo dei sentimenti che si possono provare all'Inferno, suscitato dal pensiero di un caldo abbraccio, una carezza, un dolce gesto che lo avrebbe fatto sentire importante per qualcuno, vivo. Un gesto che desiderava provenisse solamente da Persefone.

    Più i minuti trascorrevano, più il suo cuore pulsava forte, quasi come a volergli perforare il petto, fino a quando si arrestò del tutto: non era un problema per un Dio.

    Chiuse gli occhi per qualche istante. Aveva deciso che cosa fare. La Terra avrebbe visto l'alba di una nuova Apocalisse.

    «Entra pure, Afrodite...» uscì dalle sue labbra rimaste serrate per giorni, non appena percepì dietro la porta l'essenza vitale della Dea dell'amore.

    Afrodite era uscita dalla stanza di Persefone da qualche minuto e la giovane Dea, che inizialmente non aveva dato peso a quelle parole, non aveva fatto altro che rifletterci.

    Se Afrodite verrà data in sposa, vuol dire che anche io sono promessa a qualche Dio, ma chi?, si era chiesta, ma non riusciva a capacitarsi del fatto che proprio suo padre Zeus, così aperto mentalmente avesse disposto regole simili. Deve esserci lo zampino di Era, non c'è alcun dubbio.

    Persefone non poteva accettare un matrimonio senza amore. Stando accanto a sua sorella, aveva imparato a conoscere, seppur indirettamente, questo sentimento che accomunava sia gli uomini che gli Dei e anche lei avrebbe voluto provarlo sulla sua pelle.

    Cercando di riemergere da quei pensieri, decise di prepararsi per il banchetto e, togliendosi il soffice vestito celeste, iniziò a profumarsi con oli delicati che impregnarono all'istante l'aria.

    Mentre l'ignara Persefone si stava prendendo così tanta cura del suo corpo, Apollo, bramoso di lei, la spiava al di fuori della terrazza ammirando la sua pelle di porcellana, le gambe snelle, il ventre piatto e quei seni così perfetti. La voleva e l'avrebbe fatta sua in un modo o nell'altro.

    Per Zeus, deve essere mia!, aveva pensato.

    «Che cosa stai facendo, Apollo?», sussurrò la sua gemella Artemide lanciando un'occhiata all'interno della stanza, «Hai ancora Persefone in testa? Lo vuoi capire che lei non fa per te?!» Disse a voce alta in modo da attirare l'attenzione della Dea che, coprendosi, uscì fuori adocchiando con sguardo truce il Dio del Sole.

    «Mi stavi spiando? Devi smetterla, hai capito!? Vattene via di qui!» gli urlò contro.

    Artemide cercò di mettersi in mezzo per placare sia l'ira di Persefone sia l'ira che stava per esternarsi del fratello.

    «Taci, Persefone! Prima o poi ricordati che assaggerò le tue soffici labbra!», Apollo scansò la gemella prendendo la giovane per i fianchi. Quel solo tocco scatenò nel Dio un tumulto di emozioni, era folle di desiderio per lei.

    «Non ci sperare!», lo aveva respinto tornando di tutta fretta dentro per scontrarsi niente meno che con Ares.

    «Che cosa sta succedendo qui?» Non appena il Dio della guerra vide il giovane Dio del Sole, capì tutto e il suo corpo iniziò a tremare, «Che cosa le hai fatto?», la sua voce roca rimbombò in tutta la stanza.

    «Niente di quello che non vorresti fare anche tu, Ares...» aveva risposto sprezzante Apollo.

    Persefone, ignara del suo destino, fissava incredula la scena: Artemide si frappose ancora tra i due Dei ma a placare tutto fu l'intervento tempestivo di Atena: «Adesso basta! Piantatela, sembrate due animali!» disse rivolgendosi ai due e poi parlare a Persefone: «Sorella, vieni a cambiarti nella mia stanza, è molto meglio». E Persefone, senza dire una parola, seguì la Dea della saggezza.

    Intanto negli Inferi la Dea dell'amore, da poco scesa dall'Olimpo, non si fece ripetere due volte l'invito. La sua mano delicata si poggiò sulla maniglia della porta e, aprendola, ne varcò la soglia.

    «Ade, caro zio, come sapevi che ero qui?».

    «Non è difficile da percepire l'essenza di una Dea Celeste nel Regno della Morte. Ti sostenti con l'amore, un'emozione che in questo luogo non esiste. Allora dimmi, divina Afrodite, qual buon vento ti porta nel luogo di non ritorno?» le domandò il Signore dell'Oltretomba.

    «Lo so bene, caro zio, infatti mi sento già molto debole. A ogni modo non mi tratterrò a lungo, ma avevo necessità di parlarti.»

    Lo sguardo di Ade si corrucciò: «Non abbiamo mai avuto modo di parlare io e te, per quanto ne so potresti essere stata mandata da mio fratello per spiarmi o tentare di sedurmi.»

    «Capisco...» Rispose Afrodite mentre un velo di tristezza si posò sul suo sguardo. «La mia fama mi precede», aggiunse, «e di questo devo ringraziare la mia matrigna.»

    «Siamo in due ad avere una brutta reputazione messa in giro da parenti invidiosi. Hai mai pensato di trasferirti negli Inferi e diventare la mia consorte?», suggerì Ade.

    Afrodite sorrise. «Sì zio, ci ho pensato spesso in passato, ogniqualvolta sull'Olimpo dovevo sopportare le cattiverie di altre Dee e per un solo fattore estetico venivo esclusa, umiliata, denigrata. Nessuno prendeva le mie difese, nessuno tranne...» Si interruppe, ma avrebbe voluto dire Ares, «Mi sarebbe piaciuto andarmene da quel luogo, allontanarmi da tutti. Col tempo però ho imparato a superare certe situazioni e ad andare avanti. E poi, zio, lo sappiamo entrambi che c'è qualcuna molto più adatta di me a essere la tua Regina e io finirei con l'essere solo un diversivo per distrarre la tua mente, ma nel tuo cuore risuonerebbe il suo nome: Persefone.»

    Ade sorrise: «E nel tuo quello di Ares, l'uomo che non puoi avere.»

    «Già. Nemmeno tu puoi avere mia sorella, però. Zeus ha decretato per lei il matrimonio con uno Dei suoi fratellastri. Ella diverrà la sposa di...» ma la Dea venne interrotta.

    «Non mi interessa, ho già capito a chi è destinata, altrimenti non ti saresti presa la preoccupazione di scendere fino a qui. Avanti, dimmi il tuo piano e ti ascolterò, farò qualsiasi cosa pur di mettere fine a questa solitudine.»

    «Stai davvero bene con questo abito, Persefone», disse Atena guardando la sorella allo specchio: il vestito blu non faceva altro che mettere in risalto la sua pelle chiarissima e gli occhi azzurri come l'oceano.

    «Ti ringrazio, Atena, ma anche tu stai divinamente», le rispose. Atena aveva acconciato i suoi capelli ricci in modo tale che morbide ciocche scendessero lungo il viso donandole un'aria meno austera e un po' più dolce.

    «Sarà meglio sbrigarsi, nostro padre non vorrà avere ritardatari», soggiunse incamminandosi con la sorella verso la sala Dei banchetti, quando la giovane intravide dietro a una colonna Afrodite.

    «Perdonami, Atena, vado un attimo da Afrodite.»

    «Non arrivate in ritardo.»

    Annuendo Persefone si diresse verso la Dea dell'amore.

    «Ma dove eri finita? Non sai che cosa mi è capitato poco fa.» Le disse, salvo poi vedere il suo volto oscurato. «Sorella cara, ma che succede? Ti senti bene?», chiese.

    «Va tutto bene, Persefone, stavo solo pensando che sarebbe un bel dono per tua madre se tu andassi a raccogliere un po' di rose sulla Terra per lei», rispose repentina.

    «Ma il banchetto?» le chiese di rimando Persefone.

    «Oh, non ti preoccupare: a nostro padre ci penso io, tu sai che ho una certa influenza su di lui. Adesso va.» Con grande stupore, Afrodite la abbracciò stringendola forte, «Ti voglio bene, sorella cara.»

    «Te ne voglio anche io, Afrodite! Allora vado.» Sorridendo alla sorella scomparve dirigendosi nello stesso luogo in cui Apollo aveva combinato quel disastro.

    «Perdonami, Persefone, ma non posso rinunciare al mio amore...» Così dicendo, Afrodite si diresse raggiante verso il banchetto. Il piano era appena iniziato.

    Come era stato pianificato da Ade e Afrodite, Persefone scese sulla Terra, nel medesimo luogo in cui aveva incontrato il Dio del Sole la volta precedente. Quella era infatti una zona ricca di vegetazione e fiori di ogni tipo. Il vento sferzava leggero tra gli alberi e nessun rumore artificiale rovinava quell'atmosfera naturale e tranquilla.

    Eccola, la mia Persefone, pensò Ade nel momento in cui la vide comparire in cima alla collina erbosa. Il cuore prese a battergli nel petto come un martello, i muscoli irrigiditi erano pronti all'azione, la tensione in lui era talmente palpabile che gli arti gli tremavano e qualunque insetto tentasse di avvicinarsi al Dio trovava come una sorta di muro invisibile a ostacolarlo.

    Quel giorno era più bella che mai. Ade ne ignorava il motivo, erano secoli che non veniva invitato a un banchetto sull'Olimpo, dal giorno in cui Zeus decretò che per lui le porte del Cielo sarebbero rimaste chiuse. Ade ricordava bene quel giorno:

    «Non se ne parla nemmeno! Persefone è stata destinata ad Ares. Sono entrambi miei figli e io solo ho autorità su di loro. Trovati un'altra, sposala e facci dei figli, e avrai su di loro autorità di padre. Allora saprai cosa vuol dire.» Tuonò il Re degli Dei.

    «Questa non è autorità paterna, Zeus, è una dittatura. I tuoi figli dovrebbero essere liberi di scegliere chi amare, invece di sposare qualcuno per dovere. Quale amore pensi che potrebbero mai riuscire a provare in questo modo?» domandò di rimando Ade.

    «E dimmi, presuntuoso fratello, quale amore pensi che potrebbe mai provare mia figlia per te? Per un demonio?», fu la risposta del Padre degli Dei.

    «Questo demonio ti ha dato il trono su cui siedi! Insieme a Poseidone, abbiamo lottato al tuo fianco contro nostro padre.»

    «E io ti ho tirato fuori dal suo corpo!» ruggì Zeus.

    Le urla dei due fratelli risuonavano in tutto il palazzo e nessuno osava interferire con la loro diatriba.

    «Sei diventato un tiranno peggiore di nostro padre. Io non sottostarò mai alle leggi di un tiranno, anche se questo è mio fratello», furono le ultime parole di Ade.

    «Così sia! Che tu sia maledetto, Ade! Non metterai mai più piede nella mia casa, né nel mio Regno, né in ogni altro luogo dove il mio sguardo riesce ad arrivare. Confinato nel tuo Regno rimarrai per l'eternità, così è deciso!» Le ultime parole del Re degli Dei risuonarono così forte che persino il cielo sembrava essere dalla sua parte, tuonando e scagliando fulmini di inaudita potenza.

    Da quel giorno Ade non mise più piede sull'Olimpo. Col tempo, l'ira di Zeus si attenuò e in diverse occasioni i due Dei si incontrarono sulla Terra, sotto spoglie mortali, per discutere di questioni che riguardavano gli umani. Questo fino a quando Zeus stabilì che nessun Dio, Olimpico o Infernale che fosse, avrebbe dovuto interferire nelle faccende degli uomini come Dio.

    «Zeus, non ti odio perché mi hai privato del Cielo, ti odio perché mi hai privato dell'amore», mormorò tra sé e sé, poco prima che un ghigno malefico si dipingesse sulle sue gelide labbra. «E ora quell'amore me lo prendo con la forza!»

    In breve una nebbia oscura avvolse il corpo di Ade, facendolo svanire nel nulla, per poi farlo materializzare davanti agli occhi di Persefone.

    «Sei mia!», esclamò con bramosia afferrandola per il braccio.

    Tutto avvenne in un lasso di tempo così breve che probabilmente la Dea non comprese appieno quello che stava accadendo. Non poteva immaginare che quel giorno avrebbe detto addio alla luce, forse per sempre.

    Con inaudita potenza, Ade spaccò il terreno sotto ai suoi piedi: fiamme alte e lamenti di dannati ruppero il silenzio che avvolgeva quel posto. Il Dio si voltò dietro di sé: qualcuno l'aveva visto.

    Senza proferire parola alcuna sorrise, lasciandosi cadere nel baratro di fuoco, e sia lui che Persefone vennero avvolti dalle fiamme, per poi scomparire insieme alla voragine creatasi. Tutto tornò come prima, quieto e calmo.

    «Questo è il mio giorno fortunato!» pensò Apollo, abbandonandosi a una sadica risata. Una guerra tra Dei era ciò a cui lui più anelava, per far sì che si sterminassero vicendevolmente, così che Persefone potesse essere per sempre sua.

    Capitolo 2

    Il lato oscuro della luce

    Quando Persefone aprì gli occhi, le sembrò di riscuotersi da un sonno che era durato anni.

    Ma dove sono?, pensò la giovane Dea cercando di ricordare cosa fosse successo: rammentava di essere andata a cogliere delle rose per la madre Demetra poi tutto si era fatto buio. L'unica vivida immagine in tutto quel buio erano degli occhi rossi, occhi di fuoco. Lo sconcerto lasciò il posto alla paura. Guardandosi intorno cercò di capire in che luogo si trovasse, ma tutto quello che riusciva a vedere era l'enorme camino acceso proprio davanti al letto su cui era stata deposta. Sul muro di fianco al giaciglio si trovava un dipinto di un luogo bellissimo, un luogo pieno di luce, con prati verdi e una cascata sopra a un lago. Un posto senza ombra di dubbio divino.

    Senza quasi rendersene conto Persefone accarezzò il lenzuolo di seta rossa sul quale era sdraiata mettendovisi a sedere. Notò un vaso nel quale erano sistemate delle rose appassite: istintivamente la Dea sfiorò con la punta delle dita quei petali ormai morti e, nonostante si sentisse debole, riuscì a renderli di nuovo rigogliosi.

    «Chi ha mai potuto fare una cosa del genere?» si chiese, quando un sussurro arrivò al suo orecchio: «Persefone».

    Il solo sentir pronunciare il suo nome fece rabbrividire la Dea che, alzandosi dal letto, cominciò a guardarsi intorno.

    «Chi c'è? Mostrati!», disse fino a quando non intravide in un angolo buio della stanza un paio di occhi rossi che la stavano fissando con bramosia. La giovane Dea era lì, davanti ai suoi occhi, terrorizzata e al contempo confusa.

    «Non puoi portare la vita laddove regna oscurità e morte» disse l'uomo avvolto dall’oscurità, poco prima che i fiori riportati in vita da Persefone appassissero nuovamente, questa volta fino a ridursi in cenere.

    «Lo vedi? Sprechi soltanto le tue energie. Dovresti pensare di più a te stessa e meno agli altri», aggiunse colui che altri non era che il terribile Ade. «Probabilmente non hai mai sentito pronunciare il mio nome nel luogo da cui provieni. Io sono Ade, Signore e Sovrano del Mondo dei morti: la tua nuova casa.»

    Nel pronunciare le ultime parole la sua voce pareva avere un filo di perfidia, mentre lentamente si alzava dalla poltrona celata dalla tenebra per dirigersi

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