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Storie di Dèi e di Eroi - I figli di Zeus
Storie di Dèi e di Eroi - I figli di Zeus
Storie di Dèi e di Eroi - I figli di Zeus
E-book154 pagine2 ore

Storie di Dèi e di Eroi - I figli di Zeus

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Info su questo ebook

Otto racconti, per altrettanti autori, per questa raccolta antologica che vi trasporterà, come per magia, nel mondo degli dèi e degli eroi della mitologia greca, ma ai tempi nostri. Castore e Polluce, Calliope, Apollo e Daphne, Ebe, Artemide, Efesto, Endimione e Selene, Ecate. Questi sono i personaggi che incontreremo nel corso di questo viaggio fantastico.

Venite a vivere con noi queste avventure?
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2015
ISBN9788867824229
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    Anteprima del libro

    Storie di Dèi e di Eroi - I figli di Zeus - Anna Grieco

    A.A. V.V.

    Storie di dei

    e di eroi

    (I figli di Zeus)

    a cura di Anna Grieco e Irene Grazzini

     GDS

    Storie di Dei e di eroi ( I figli di Zeus)

    Autori vari 

    a cura di Anna Grieco e Irene Grazzini

    Editrice GDS

    Via G.Matteotti 23

    20069 Vaprio D'adda-Mi

    www.gdsedizioni.it 

    Copertina: GordanaSermek/ fotolia.com 

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Il mito è il fondamento della vita,

    lo schema senza tempo,

    la formula secondo cui la vita

    si esprime quando fugge

    al di fuori dell’inconscio

    (Thomas Mann)

    Prefazione

    Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὅς μάλα πολλὰ

    πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσεν·

    […]

    Dell’uomo dall’ingegno multiforme dimmi, o Musa,

    che a lungo errò, dopo ch’ebbe distrutta

    la sacra rocca di Ilio:

    di molte genti conobbe le città e la mente,

    molti dolori nel cor sofferse,

    lottando per salvare a sé la vita

    e il ritorno ai suoi. Ma salvare

    non poté, pur volendo, i suoi compagni:

    per la propria follia tutti perirono,

    stolti, che i buoi del sole Iperione

    mangiarono empiamente, ed egli a loro

    tolse per sempre il tempo del ritorno.

    Da dove vuoi, narra anche a noi qualcosa

    di questi eventi, o Dea, figlia di Zeus.

    [...]

    (Odissea)

    Chi non ha mai letto questi versi di Omero, il famoso poeta cieco che, in fondo, forse non è mai esistito? Fanno parte del nostro patrimonio letterario da tempo immemorabile, ma non perdono mai il loro fascino. Non è assurdo affermare che il fantasy abbia avuto origine proprio nell’Antica Grecia, perché quel popolo senza dubbio è stato uno dei più fervidi di immaginazione e la sua mitologia lo dimostra. L’Odissea o Le Argonautiche di Apollonio Rodio, con i loro viaggi ricchi di intrighi e di magia, non sono forse chiari esempi di romanzi fantasy?

    Al centro dell’universo ellenico c’erano gli Dèi, che incarnavano pregi e difetti umani e raffiguravano inoltre le forze della natura. Gli uomini, per garantirsi la loro benevolenza, compivano innumerevoli sacrifici sulle are, alla presenza di sacerdoti o sacerdotesse.

    Ma com’era articolata la gerarchia divina?

    Secondo Esiodo e la sua Teogonia, al principio fu il Caos, il nulla più assoluto, poi da lui apparve Gea (la Terra) e altre divinità primordiali: Eros (Amore), l’Abisso (Tartaro), l’Erebo (Oscurità). Gea generò Urano (il Cielo), quindi si unì a lui e diede alla luce i dodici Titani. Poi nacquero i Giganti, i Ciclopi (dotati di un solo occhio) e gli Ecatonchiri (I Centimani).

    Urano tuttavia, che si era autoproclamato re dell’Universo, aveva il timore che uno dei suoi figli potesse usurpargli il trono, quindi relegò la sua progenie nel Tartaro. Ciò causò l’ira di Gea, che istigò i figli a ribellarsi. Solo il più giovane, il Titano Crono, ebbe il coraggio di opporsi a suo padre. Armato di una falce, quando Urano cercò di giacere di nuovo con Gea, lo evirò, gettando i suoi genitali nel mare (alcune leggende affermano che fu in tal modo che nacque Afrodite, la dea dell’amore).

    Spodestato colui che lo aveva generato, Crono divenne il nuovo signore del mondo. Prese in moglie Rea, sua sorella, e con lei generò molti figli, che però divorava man mano che lei li metteva al mondo (una profezia indicava che egli avrebbe subito lo stesso Fato di Urano). Crono aveva già ingoiato Estia, Demetra, Era, Ade e Poseidone, quando venne al mondo Zeus. A questo punto Rea, per evitare che il suo ultimo nato subisse la stessa sorte, affidò il piccolo alle cure della capra Amaltea e recò invece al marito un sasso avvolto in fasce. Il Titano non sospettò nulla e lo ingoiò, credendo fosse il figlio.

    Zeus crebbe forte e coraggioso e, quando divenne finalmente adulto, ingannò Crono e lo costrinse a vomitare i suoi fratelli. Si scatenò così una guerra sanguinosa tra i figli di Crono e i Titani. Zeus riuscì a vincere solo grazie all’aiuto dei Ciclopi che aveva liberato dal Tartaro, dove imprigionò a sua volta suo padre e i Titani.

    Divenuto nuovo signore indiscusso, Zeus elesse sua dimora il Monte Olimpo e vi andò ad abitare con i suoi fratelli e i figli che generò in seguito (da qui la denominazione di Dèi Olimpici).

    Noi vi narreremo appunto le gesta di alcuni di questi suoi figli, giunti fino ai giorni nostri…

    Anna Grieco-Irene Grazzini

    E i Dioscuri accarezzarono la terra

    di Federica Leva

    La Costellazione dei Gemelli era scomparsa. Si era spenta all’improvviso nel cielo della notte, lasciando un vuoto oscuro che gli astronomi, allibiti, non riuscivano a spiegarsi. Qualcuno giurò d’averla vista ricadere al suolo in una scintillante cascata di fuochi d’artificio.

    Myriam, giovane astrofisica dell’Osservatorio di Roma, regolò ancora una volta la magnitudo del suo strumento su 1.59, dove fino a poco tempo prima si trovava Alpha Geminorum, l’astro principale del sistema di Castore.

    Non era possibile… aveva visto la costellazione sbriciolarsi al suolo, ma doveva essersi trattato di un effetto diffrattivo. Non c’era altra spiegazione! Tornò a scrutare il cielo e notò che la Lince, usualmente poco visibile, era più luminosa, quella notte.

    Come se gli astri più sfolgoranti che la circondavano si fossero dissolti nel cosmo rifletté. Sentì le mani madide di sudore e il cuore le balzò in gola.

    Per tutte le comete… dov’erano finite le stelle di Castore e Polluce?

    Polluce urtò il fratello con una spalla e insieme crollarono sul selciato umido di una stradicciola deserta. «Castore…». Era davvero suo, quel suono arrugginito che gli era scivolato fuori dalle labbra? Erano trascorsi oltre tremila anni dall’ultima volta che aveva parlato, ma non aveva scordato la forza che aveva sempre vibrato nella sua voce. Si sollevò a sedere con fatica, come se si fosse risvegliato da un lungo sonno. Sopra di loro, solo la pallida luce di un lampione squarciava il pesante manto della nebbia. «Cos’è successo?» iniziò, massaggiandosi il collo intorpidito.

    Una folata di vento gli strappò uno starnuto. Era una gelida notte di febbraio e loro erano completamente nudi. «Per Zeus, avevo dimenticato cosa significasse provare l’umana sensazione del freddo!».

    Al suo fianco, incurante della brezza pungente che scendeva dal colle, Castore balzò in piedi, raggiante. «Ce l’ho fatta!» esultò. «Siamo tornati uomini».

    Anche Polluce si rialzò, fissandolo stupefatto. «È stata la tua volontà a strapparci al cielo, fratello mio?» balbettò. «È follia! Hai forse dimenticato che il grande Ade stava per chiamarti nel suo regno, prima che Padre Zeus ti unisse a me per l’eternità?».

    Castore si passò una mano sul fianco sinistro, dove avrebbe dovuto spiccare una ferita mortale. Il suo corpo era bello e illeso, come lo era stato prima che la spada di suo cugino Linceo lo trafiggesse, durante il loro ultimo scontro.

    «In me scorre la tua immortalità, mio amato Polluce» rise, felice. «Tenendomi abbracciato a te, negli immensi spazi del cielo, mi hai reso un semidio al pari tuo». Si accostò d’un passo al fratello e, con un gesto che gli era sempre stato abituale, quand’erano in vita, gli sfiorò le labbra con le proprie.

    «Schifosi, porci, pervertiti, ricchioni senza vergogna!».

    Prima che Polluce se ne accorgesse, una mano vigorosa l’aveva afferrato per la spalla, costringendolo a voltarsi. Non ebbe tempo di vedere l’uomo in volto, ma sentì un gancio colpirlo alla mandibola, facendolo vacillare all’indietro. Castore lo sorresse, evitando che cadesse a terra.

    «Animali!». Ci fu lo schiocco di uno sputo e Polluce sentì qualcosa inumidirgli una guancia. «Scopare in mezzo alla strada! Davanti ai bambini!».

    Scopare? Aveva già sentito quella parola, dall’alto del cielo, e sapeva che aveva un significato immondo. Nemmeno per un istante dubitò che quell’uomo lo stesse offendendo. Serrò le mani a pugno e lo colpì con una scarica di montanti che lo sbatté contro l’inferriata di un cancello. Lo bersagliò di pugni fino a quando non sentì qualcosa di caldo e viscido sulle mani. Gli aveva spaccato il naso.

    L’uomo urlò, portandosi la mano al volto, e nel vedere il sangue inorridì. «Bastardo! Maiale assassino!».

    «Ne vuoi ancora?».

    La voce dell’uomo era rotta dal pianto: «Che Dio ti maledica, verme!».

    Corse via e nella stradicciola riecheggiò l’eco di un altro insulto, soffocato dal rimbombo dei passi sull’acciottolato.

    Castore afferrò il volto del fratello, con sollecita premura, e lo esaminò alla luce del lampione. «Sei ferito…» sentenziò. «Non era mai successo, prima d’ora».

    Polluce sentì in bocca un sapore amaro. Si passò il palmo aperto sulle labbra e la pelle si macchiò di sangue… il segno della mortalità.

    «Forse è come hai detto tu, caro fratello» mormorò. «Mentre eravamo abbracciati in cielo, tu hai preso parte della mia immortalità e io parte della tua umanità».

    «Saprò farmi perdonare per questo furto involontario» gli assicurò Castore e i suoi occhi azzurri brillarono come giovani stelle.

    «Ti cedo volentieri la mia immortalità, se può servire a darti gioia. Ma perché siamo qui?».

    «Non lo immagini?». Il gemello gli strizzò l’occhio, con un sorriso dolce e astuto a un tempo. «Per una donna, naturalmente».

    Il gelo pungente della notte li costrinse a cercare rifugio in una chiesa vicina. Il portale era aperto e un gruppo di suore rispondeva all’unisono a una litania intonata dal prete, ritto sull’altare.

    Castore avanzò con esitazione accanto a Polluce, i piedi nudi che risuonavano appena sul pavimento di marmo. Non erano mai stati in un tempio votato a un dio che non discendesse da Zeus Immortale e gli occhi socchiusi di quel corpo di bronzo, appeso a una croce sopra il pulpito, sembravano scrutarli con diffidenza. Con sua sorpresa, tuttavia, non fu il figlio del nuovo Dio a urlare, sdegnato della loro presenza. D’improvviso il prete interruppe la litania e una suora lanciò uno strillo acuto. Subito, le compagne balzarono fra i banchi, gridando invocazioni alla Madonna. Le più anziane si coprirono gli occhi con il velo e le altre si segnarono ripetutamente, baciando il rosario che stavano sgranando fra le dita.

    Castore si arrestò, incerto. «Forse non siamo graditi in questo santuario» mormorò.

    «Può darsi». Polluce sollevò lo sguardo verso il sacerdote. «In ogni caso, siamo supplici e, nel nome del suo Dio, quel sant’uomo ascolterà la nostra preghiera. Seguimi».

    Nel vederli avanzare, il prete raccolse la lunga veste con una mano e scese i gradini dell’altare. «Madre, faccia tacere le sue sorelle, per l’amor di Dio!» tuonò. «Forse il Creatore era offeso dalla nudità di Adamo ed Eva?». Dopo sorrise gentilmente ai due fratelli. «Avvicinatevi, ragazzi. Cosa vi è successo?».

    Polluce tese le braccia, un gesto implorante. «Siamo stati aggrediti e derubati d’ogni avere, poco fa» disse.

    Castore confidò che il labbro spaccato confermasse le parole del fratello. «Non ci è rimasto altro che la vita e siamo qui a invocare un cencio per ricoprirci e asilo per la notte» aggiunse.

    Il prete li soppesò con stupore. «Ti esprimi in modo inusuale, e il tuo accento… Siete romani?».

    «Greci. Di Sparta».

    «E cosa vi conduce qui?».

    Castore sorrise. «L’amore» rispose, e quella parola riempì di calore il freddo invernale della chiesa. «In questa città vive una donna che non incontro da molto tempo e che desidero riabbracciare. Ma non posso recarmi al suo cospetto senza

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