Il popolo della dea
Di Alessio Moa
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Verranno all'alba, cavalcheranno animali furenti, lanceranno grida e invocazioni verso un dio crudele, recheranno morte e distruzione, rovina e decadenza. Così è scritto, così sarà.
Ma il comandante Ubith forse, potrà guidare ciò che resta del suo popolo verso un nuovo inizio. E se la Dea si vestirà dei colori della guerra...
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Anteprima del libro
Il popolo della dea - Alessio Moa
Prologo
Media età del bronzo
Era un popolo oscuro che adorava un dio crudele e incomprensibile. I miti ne narravano le gesta che si perdevano in un tempo lontano, quasi dimenticato. Gli anziani ne tramandavano ancora il ricordo, conoscendo il loro coraggio, temendone l'ardore che li spingeva alla conquista. Qualcuno li aveva di nuovo avvistati, già oltre i monti che cingevano, proteggendola, la loro terra. Gli ultimi sopravvissuti del popolo della Dea attendevano inquieti. Sui bastioni della loro città arroccata sul mare, le vedette e i guerrieri più giovani scrutavano incessantemente l’orizzonte: il popolo guerriero prima o poi sarebbe giunto.
Il santuario degli Eletti
Lascia che la tua danza sia selvaggia.
La tua voce onesta.
E il tuo cuore indomito.
Aisha Wolfe
Il santuario si ergeva oltre le porte della città, protetto dal bosco sacro, per accogliere più favorevolmente lo splendore della Dea quando fosse apparsa nella volta celeste a irradiare la sua benevolenza.
«Li ho visti, nascosta da un cespuglio, oltre la grande radura: hanno il corpo quasi interamente ricoperto da orribili tatuaggi color del sangue...»
La novizia aveva pronunciato quelle parole senza timore, quasi soggiogata dal fascino feroce di quel nemico, che orgoglioso della sua efferatezza, si palesava ormai apertamente. Aveva osservato i loro carri a quattro ruote trainati da splendidi purosangue d’ebano e i loro condottieri percuoterli senza pietà per lanciarli in corse forsennate. Le asce bipenni dei loro guerrieri brillavano al sole: la luce della Dea sembrava ben poca cosa di fronte a quella potenza ostentata e ai riverberi simili a guizzi di serpente che provenivano dal loro metallo bronzeo.
La sacerdotessa posò le mani ferme sulle spalle della novizia, la guardò a lungo con quei suoi occhi scuri e profondi, senza proferire alcuna parola; infine sorrise.
«Stanotte, te e le altre, dovrete radunare le Elette e gli Eletti: saranno portati nel cortile e rifocillati. Voglio musica e tamburi, canti e balli per onorare gli Dèi.»
«Sì mia Sacerdotessa. Ma... Le Elette e gli Eletti... Insieme?»
«Sia così. Troppo a lungo sono stati separati: forse che il Dio Dei Boschi non conosce le fattezze della Grande Dea? È stato mai stabilito che chi possiede il Dono debba essere diviso tra maschio e femmina? Nessun dio vorrebbe ciò.»
Un’altra cosa doveva essere fatta prima che il fato potesse compiersi.
La Favorita della Dea, la Grande Sacerdotessa, indossò la sua tunica orlata d’argento ed estrasse dalla teca istoriata il medaglione sacro; lo mise al collo ed esso sembrò accendersi di bagliori e di fiamme, riflettendo la luce delle alte torce che rischiaravano l’ambiente. Tre volte batté le mani. Si rivolse all’ancella che subito era apparsa sull’uscio, la testa leggermente piegata in un gesto di deferenza.
«Sia introdotto il comandante.»
Trascorsero una manciata di secondi e un uomo alto, col capo completamente rasato e il volto segnato da rughe profonde, fece il suo ingresso.
«Ti pensavo nel tempio, sacerdotessa.»
«Non è il tempo delle preghiere e delle invocazioni questo; piuttosto
dimmi... Quali notizie porti? Chi sono veramente coloro che stiamo
combattendo?»
«Grande Sacerdotessa, vuoi veramente conoscere la verità? Essi sembrano invincibili: di una ferocia senza limiti. Cavalcano quei destrieri, guidando i loro carri da guerra con una maestria difficilmente eguagliabile. Da dove vengano non è dato sapere; si dice che a loro patria abbia il nome di Urheimat e si estenda a nord e a est della nostra terra, oltre il grande lago salato. Ma che portino distruzione e orrore non v’è dubbio. La loro è una civiltà di morte e sopraffazione; le donne che li accompagnano sono poco più che schiave. La guerra è la loro triste religione.»
«Tutte cose che già so. Possibilità ne abbiamo? Sii sincero Comandante.»
«Alcuna speranza di difendere il santuario Sacerdotessa: ti prego di considerare l'eventualità di trasferirti all’interno della città; le mura sono solide e irrobustite dai tronchi più resistenti delle nostre foreste; il fossato è stato ampliato e ora circonda interamente le nostre abitazioni. Ci difenderemo.»
«E allora questo sarà il nostro ultimo incontro, mio Comandante. Sai bene che il posto per me è qui, accanto agli Dèi. Abbandonare il santuario? Non posso. Esso ospita da sempre le donne e gli uomini più ricettivi e dotati della nostra civiltà, gli Eletti. Attraverso le loro bocche e le loro menti, gli Dèi ci parlano. Darò loro libera scelta: restare o partire. Per questo ti chiedo un ultimo servigio. Fai abbattere il muro esterno che racchiude la sacra siepe. Fallo subito, te ne prego.»
«Sarà fatto. Ma spiegamene il motivo.»
«Perché nulla sia celato agli occhi degli invasori; dovrà essere evidente che non vi sono guerrieri nascosti, armi, tanto meno oro o argento. C’è anche un'altra ragione: gli Eletti e le Elette potranno finalmente osservare che esiste qualcosa, un intero mondo, dietro la sacra siepe. Lo dovranno affrontare quanto prima.»
«Pensi in questo modo di preservare il santuario? Pensi di salvarti? Ti renderanno loro schiava. Gli Eletti? Forse sono veramente in contatto con gli Dèi. Ma il Dono reclama la sua contropartita: sofferenza, insania, delirio. La loro mente vacilla. Nessuno può ascoltare le voci divine e sperare di conservare l’intelletto. Anche per questo sono protetti. Fuori non potrebbero cavarsela senza chi si occupi di loro.»
La sacerdotessa sorrise malinconica. Si passò una mano tra i capelli in un gesto d’improvviso esitante. Il braccio le tremava. Si volse verso il comandante, lo sguardo si fece morbido, quasi remissivo.
«Temo che il tempo sia giunto.»
«Sacerdotessa, vieni con me. Non esitare, salvati! Dove sono i tuoi Dèi ora? Perché non hanno impedito tutto ciò?!»
«Il voto non può essere sciolto, lo sai bene. Io sono della Dea. Ma, Comandante, tu mi sei caro più dei fiori nei campi, più del dolce nettare che inebria, più della stessa vita. Guardami negli occhi e vi troverai molto più che rispetto o ammirazione.»
Lo sguardo dell’uomo si fece cupo. Esitò. Era un addio e ne aveva coscienza.
«Ora va, non voltarti.»
Così egli fece. A testa alta si allontanò da lei, non si voltò. Arrivato di fronte all'uscio sembrò esitare; poggiò con forza una mano sulla colonna adiacente e le vene del suo braccio si gonfiarono. Dalle sue labbra un suono sordo, come un grido soffocato. Poi varcò per l’ultima volta la soglia del santuario.
Le fiamme delle torce appese alle pareti tremolarono, ravvivando le ombre tutt’intorno, uniche testimoni di quella conversazione.
«Addio Comandante, mio amato» sussurrò la Sacerdotessa, senza che una sola lacrima rigasse le sue guance.
La notte era rischiarata da numerosi bracieri; attorno