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La pena di morte. Vol. 2: (2000-2001)
La pena di morte. Vol. 2: (2000-2001)
La pena di morte. Vol. 2: (2000-2001)
E-book453 pagine7 ore

La pena di morte. Vol. 2: (2000-2001)

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Info su questo ebook

Nel secondo dei due anni di seminario dedicati da Jacques Derrida alla pena di morte, analisi e ricerche si dilatano fino a raggiungere il cuore di domande solo in apparenza distanti dalla pena capitale: cosa significa pensare il «vivente»? E il sangue, il «concetto» di sangue? Sarà mai possibile una «storia del sangue»? E poi ancora: cosa vuol dire «amar vivere»? Protagonisti di questo interminabile dibattito che incrocia necessariamente la questione della giustizia saranno Kant e Hegel, interrogati anche a partire dalle posizioni assunte nei confronti della tradizione della «legge del taglione» a cui vengono consacrate pagine di rara profondità. Ma il discorso non si ferma qui e, sembra all'insegna dello scavo dei moventi del suo stesso costituirsi, convoca imperativamente Freud (e il suo allievo Reik) per interrogare la trasformazione del diritto criminale operata dalla psicoanalisi.
In queste lezioni che contribuiscono a tratteggiare ‒ senza chiudere nessun confine ‒ l'interminabile storia del «delitto» e del «castigo» che vertebra la società degli uomini, Derrida non concede tregua all'incalzare di questioni che si raccolgono nella domanda che attraversa e rilancia altrimenti tutte le altre: cos'è un desiderio?
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita2 gen 2022
ISBN9788816803275
La pena di morte. Vol. 2: (2000-2001)
Autore

Jacques Derrida

È stato uno dei maggiori filosofi del nostro tempo. Jaca Book ha pubblicato le sue opere principali, fra le quali ricordiamo: La voce e il fenomeno (1968/2010); Della grammatologia (1969/1998/2020); La farmacia di Platone (1985/2021); La disseminazione (1989/2018); Addio a Emmanuel Lévinas (1998/2011); L’animale che dunque sono (2006/2019); Psyché. Invenzioni dell’altro, voll. 1 e 2 (2008/2020 e 2009/2021); La bestia e il sovrano, voll. 1 e 2 (2009 e 2010); La pena di morte, voll. 1 e 2 (2014 e 2016); Pensare al non vedere (2016); Teoria e prassi (2018); Chora; Passioni; Heidegger. La questione dell’Essere e la Storia (tutti 2019); Salvo il nome; Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (entrambi 2020); La vita la morte. Seminario (1975-1976), pubblicato nel 2021. Presso Jaca Book proseguono le pubblicazioni dell’edizione critica di Seminari e Corsi.

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    Anteprima del libro

    La pena di morte. Vol. 2 - Jacques Derrida

    PRIMA LEZIONE

    6 dicembre 2000

    Permettetemi, ancora una volta, di non tornare troppo indietro e di non ricostruire il tragitto seguito lo scorso anno o anche, in qualità di premesse, gli anni scorsi. Ho creduto fosse comodo, questa volta, mettere a vostra disposizione una succinta bibliografia¹. Essa dovrebbe consentire a coloro che non hanno seguito il seminario lo scorso anno di reperire quanto meno alcune tappe e alcuni riferimenti fondamentali, ad esempio, per l’organizzazione iniziale, il richiamo e anche l’analisi di quattro figure paradigmatiche (che non erano, come nell’anno precedente sul perdono e lo spergiuro², quelle di quattro uomini protestanti che sono stati a loro modo presidenti, Hegel, Mandela, Tutu e Clinton – i tre viventi³ sono stati letteralmente presidenti, uno di loro presidente della Commissione Verità e Riconciliazione, e quest’anno torneremo rapidamente, oggi stesso, sulla figura e sul personaggio del «Presidente», perfino del candidabile alla presidenza o del presidenziale, del sovrano soprannominato «presidente»: «cos’è un presidente?» sarà dunque una delle domande che affronteremo oggi stesso), figure paradigmatiche che, dunque, l’anno scorso non sono state questi quattro maschi protestanti, ma stavolta tre uomini e una donna (Socrate, Gesù, Hallâj, Giovanna d’Arco⁴ che non avevano nulla di protestante e che sono stati condannati a morte da un potere religioso regolarmente sostenuto, perfino ispirato nell’assolvimento del verdetto e nell’esecuzione da parte di una struttura statale; da cui il porsi di una grande problematica sul teologico-politico e sulla pena di morte, in verità sul fondamento dell’onto-teologico-politico nel diritto alla pena di morte, e questo passando attraverso la grande questione di una sovranità in decostruzione, dal momento che la decostruzione alla fine diviene o si rivela come quando si trova alle prese, per decostruirlo, con l’innalzamento di un patibolo, per non dire del patibolo fallogocentrico della sovranità onto-teologico-politica, che rivela il fatto strano e stupefacente e sorprendente che mai, in nessun momento, nessun discorso filosofico come tale, nel sistema del suo argomentare propriamente filosofico, si è mai opposto al principio, dico proprio al principio della pena di morte, cosa che ci dà, per sorpresi che possiamo essere, la misura della difficoltà o del compito: è possibile opporsi al principio della pena di morte o di opporvi qualcosa come un principio incondizionato e non una considerazione di opportunità empirica, di utilità relativa o di necessità pratica probabile?).

    Dopo questo, dopo la lettura dei testi relativi a queste figure, abbiamo letto l’Esodo, a proposito della questione del comandamento «Non ucciderai» seguito dai «giudizi» dettati da Dio che prescrivono la pena di morte per coloro che infrangono questo o quel comandamento. Ovviamente non ricostruirò le analisi dedicate a tutti questi testi (da Beccaria a Camus, passando per Kant, Hugo, Genet e qualcun altro), ai testi di diritto moderno e alle Dichiarazioni internazionali dopo l’ultima guerra mondiale, all’evoluzione dello stato della pena di morte negli USA (in particolare attraverso la lettura dei giornali, essendo oggi gli USA l’unica grande cosiddetta democrazia occidentale di cultura europeo-ebraico-cristiana che mantiene e applica in maniera massiccia e crescente una pena di morte di cui era stata sospesa almeno l’applicazione legale dal 1972 al 1977 da una decisione della Corte suprema) [dunque non ricostruirò tutte le analisi] né l’assetto generale di una problematica della sovranità intorno a due concetti che hanno funzionato costantemente per noi come fili conduttori:

    1. L’eccezione (nozione enigmatica che si trova al centro sia dei testi di Schmitt sulla sovranità, sia di numerosi testi moderni di diritto e soprattutto di diritto internazionale, che avevamo studiato e che, salvo eccezione, condannano la tortura e i trattamenti crudeli, l’eccezione rinviando sempre alla sovranità. Cos’è un’eccezione e cos’è la sovranità? Ecco le nostre domande dello scorso anno, che si annodavano intorno a questa domanda: chi decide sovranamente dell’eccezione? Insomma, in una monarchia: chi regna e detiene, insieme al diritto di grazia, il diritto di vita e di morte legale? In una democrazia, chi presiede e chi detiene, insieme al diritto di grazia, il diritto di vita e di morte legale?)⁵.

    12. La crudeltà, precisamente, nozione molto oscura e di uso decisamente dogmatico. Ne abbiamo analizzato la generalizzazione (senza limite e senza termine, ma solo una differenziazione interna e qualitativa) nei testi di Nietzsche, che d’altra parte annunciano un certo Freud del quale abbiamo anche parlato relativamente al sadismo (e quando abbiamo richiamato la filiazione di Sade, nel Lacan di «Kant con Sade» e il Blanchot equivoco di «La letteratura e il diritto alla morte» riguardo al terrore rivoluzionario), un certo Freud, dunque, verso il quale vorrei tornare in altra maniera, forse già da oggi; e poi questa crudeltà a cui si riferiscono oscuramente e dogmaticamente tanti testi di diritto costituzionale, di diritto nazionale e internazionale, a partire dall’ottavo emendamento del Bill of Rights della Costituzione americana che condanna il «cruel and unusual punishments» (emendamento invocato dalla Corte suprema nel 1972 per vietare l’applicazione della pena di morte, situazione che durò solo 4 o 5 anni, tra il famoso caso Furman vs Georgia, nel 1972, che fu l’occasione per stabilire che l’applicazione della pena di morte era incostituzionale, e il non meno famoso caso Gregg vs Georgia che, di fatto, reinstaurò nel 1976 la pena di morte negli Stati Uniti, dopo che la Corte suprema federale era succeduta al giudizio dello Stato della Georgia)⁶. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) condannava anche «la tortura e le punizioni crudeli, inumane o degradanti» senza che questo avesse forza coercitiva di legge, senza che la sovranità degli Stati nazione venisse impegnata in questo e soprattutto senza che la pena di morte come tale venisse condannata (proprio per non ledere la decisione sovrana degli Stati, ai quali deve essere lasciata la scelta di decidere l’eccezionalità). Cos’è la crudeltà? E come intrecciare questa domanda con la doppia questione sull’eccezione, sulla sovranità e dunque sulla determinazione sovrana di cos’è un’eccezione, come di ciò che è o non è crudele? Ecco, dopo un richiamo che tratteggia appena la nervatura di un fantasma, il sistema nervoso di uno spettro, cioè l’unità nodale, il nodo, il sillogismo, il sistema o, se preferite, la sinapsi o la sintassi di questa tripla domanda: eccezione, sovranità, crudeltà, dopo questo richiamo, dunque, cominciamo, ricominciamo e ripartiamo verso il riconoscimento di un’altra unità problematica, dell’altra figura ternaria di un nodo di domande.

    Cos’è un atto?

    Cos’è un’età?

    Cos’è un desiderio?

    Comincerò con queste tre domande. Le enuncerò lentamente e le lascerò sospese. Le formulo giusto per dare la nota, come se provassi ad accordare uno strumento prima di cominciare a suonare. O ancora, altra figura, come se dovessimo tirare il filo del coleottero o dell’artefatto soprannominato cervo volante sulla cui tela o sulle cui ali sarebbe percepibile, di lontano e dal basso, un’iscrizione ancora illeggibile. Di quale cervo volante parliamo? Come intendere, nel suo significante francese, il termine, le sillabe «cerf-volant» [«cervo volante»], cerveau-lent [cervello lento]⁷? Chi ha il cervello lento in questa tragedia della pena cosiddetta capitale? Tre domande, dunque, sulle ali del cervo volante:

    Cos’è un atto?

    Cos’è un’età?

    Cos’è un desiderio?

    Le tre domande «cos’è?», sospese sulle ali, in coda o in testa di un cervo volante, si riferiscono, diciamo, alla «mia morte», più precisamente a quanto si potrebbe denominare il «dato momento» della morte – voglio dire il dato momento della mia morte, del «mia morte» di ognuno e ognuna, di quanto ognuno e ognuna può volere e voler dire dicendo «mia morte», nel «dato momento» della mia-morte. Non solo il momento di dare la morte, né il momento fissato della morte, ma un dato momento della mia morte e più precisamente il detto luogo e ancora sospeso del dato momento.

    Se c’è una cosa che non è dato sapere, e dunque calcolare nella sua assoluta precisione, è il dato momento della mia morte. Salvo, forse, nel caso della pena di morte che implica, in linea di principio, che si conosca, che l’altro conosca e talvolta che io conosca, al secondo, il momento, dunque in maniera calcolabile, il momento della «mia morte». In un omicidio o in un suicidio, io posso pretendere di calcolare, secondo il tempo oggettivo dell’orologio, il secondo della morte data. Ma laddove la morte giunge a me dall’altro, la pena di morte è l’unica esperienza che permette in linea di principio che il dato momento della morte sia un momento fissato e pubblicamente datato.

    1. La prima delle tre domande («Cos’è un atto?») risuona, propriamente, come una grande domanda senza età, una domanda della grande tradizione ontologica. Cos’è un atto, nel senso dell’azione (con tutto ciò che le si può opporre: la passione – azione/passione –, la teoria o il pensiero, la speculazione, il linguaggio, agire invece che teorizzare, pensare, speculare, anche parlare, ecc.), ma anche cos’è un atto nel senso in cui l’atto si intende come energeia (l’«in atto», con il suo pseudo-equivalente in latino, la sua traduzione problematica con actus, e laddove si crede tranquillamente di opporgli la dynamis, la potenza o l’essere in potenza, perfino la materia, la possibilitas, la virtualità, ecc.)? Enorme problema, che tocca non soltanto la differenza tra agente e paziente, l’atto e la passione, l’atto e la potenza o il possibile, la forma e la materia, in particolare e per eccellenza nel discorso di Aristotele, con tutta la sua filiazione (enorme), ma allo stesso tempo tutto ciò che, qui, meditiamo o premeditiamo da anni intorno a un pensiero del possibile e dell’impossibile, di un im-possibile che non sarebbe negativo, di un im-possibile che sfuggirebbe all’alternativa del possibile e dell’attuale, perfino dell’attivo, ecc. La pena di morte, si pensa con il buon senso stesso, è un atto, un atto reale, effettivo, irreversibile, e che sigilla l’irreversibile, il non mirabile, proprio perché è un atto, perché è supposto essere il più attivo e il più attuale, il più effettivo, il più reale degli atti, il più innegabile degli atti, un passaggio all’atto che pretende anche di sanzionare un atto attuale, effettivo, reale, per esempio uno o più omicidi reali ed effettivi, e non soltanto intenzioni e desideri che non sarebbero passati all’atto e che in fondo non appartengono al tempo o all’età dell’atto (dell’atto che consiste nella pena di morte o dell’atto criminale che essa pretende di sanzionare). Dunque la pena di morte sarebbe un atto che pretende di sanzionare soltanto un atto, un atto effettivo, reale, in atto, e non solo un possibile, un’intenzione, una virtualità, un desiderio (conscio o inconscio).

    2. La seconda delle tre⁸ domande, che qui si raccoglie nel «cos’è un’età?» o «qual è l’età buona per morire, se ce n’è una», specifica il «dato momento» o il «detto luogo del dato momento» della «mia morte» in generale. Tale domanda mi sembra di averla posta rapidamente di passaggio lo scorso anno. Se a ogni modo, come ogni vivente condannato a morire, se non condannato a morte, se, condannato a morire presto o tardi come chiunque, potessi scegliere se da una parte morire a tale età, domani o subito, di morte naturale, per un incidente d’auto o di malattia (come quasi tutti, insomma) e, dall’altra, morire a un’altra età, più tardi, dopo domani, tra un anno, dieci, venti, da una prigione perché condannato alla pena capitale (ghigliottina, sedia elettrica, iniezione letale, impiccagione, camera a gas), cosa sceglierei, quale età sceglierei per la mia morte?

    Quale che sia la risposta a una simile domanda – e nell’istante in cui vi parlo non ne ho – il solo porsi della domanda, proprio la sua sola possibilità, dimostra che l’alternativa, quando si tratta di pena di morte, e lo scorso anno l’abbiamo mostrato cento volte, con cento esempi, non ci torno su, l’alternativa non è l’alternativa vita/morte, vivere o morire, nemmeno il tempo, il dato momento o il momento fissato della morte, l’età oggettiva della morte, ma una certa modalità, una certa qualificazione del vivere e del morire, un modo, un dispositivo, un teatro, una scena del dare-la-vita e del dare, perfino del darsi-la-morte. La scelta non è tra la vita e la morte, nemmeno tra due età per morire, ma tra due modi e due tempi di una morte ineluttabile e sempre imminente.

    3. La terza domanda (cos’è un desiderio?) raggiunge o incrocia in uno o più punti la prima (cos’è un atto?). Essa ci precipita non verso una scena troppo nota, verso una maniera grandiosa e canonica di chiederci «cos’è quanto si chiama desiderio?», una parola, desiderio, che in genere uso il meno possibile, e una domanda su cui tanti discorsi – classici o moderni – hanno prodotto molte risposte interessanti. Questa volta, l’accesso alla parola e alla domanda – desiderio – sarebbe forse altro⁹. Non si tratterebbe di applicare al problema del crimine, dell’omicidio e della pena di morte un concetto, una nozione o una parola di desiderio che non sapremmo cosa è e cosa significa. Al contrario, bisognerebbe, se possibile, tentare di isolare il campo e il tempo del desiderio a partire da una certa maniera di pensare la pena di morte, la morte violenta, il crimine, la pena, il castigo, la colpa e la morte non naturale.

    L’approccio, schematicamente, sarebbe il seguente: quanto è chiamato legge, legalità, legislazione, e in particolare il diritto che organizza la condanna, quindi la legge penale, come viene esercitata dalla sovranità dello Stato o del sovrano, un re, un governatore o un presidente (e presto faremo salire il presidente sul palcoscenico, lo metteremo in scena, lo faremo insediare, che è la posizione stessa del presidente), questa legge, nella forma del diritto, può eventualmente prevedere la punizione del criminale, di chiunque abbia effettivamente e attualmente commesso l’atto che si chiama crimine, per esempio un omicidio; questa punizione può essere la pena di morte. Inversamente, una disposizione legislativa può abolire la pena di morte, come è adesso il caso, da appena dieci anni, per la maggioranza degli Stati nel mondo. Ma ci sono due cose che nessuna disposizione legislativa, nessun diritto, fino a oggi, ha potuto né preteso fare, ed è cosa? è proibire il desiderio di uccidere, il semplice desiderio, per dir così, prima o senza il passaggio all’atto, almeno prima o senza il passaggio all’atto identificabile secondo alcuni problematici criteri, perché ci sono passaggi all’atto del desiderio di uccidere e che uccidono senza che alcun crimine sia identificabile secondo i segni dell’atto convenzionalmente riconosciuti nella società degli uomini come questa rappresenta se stessa fino a oggi. Si può proibire l’omicidio, ma è possibile proibire il desiderio di uccidere? Proibire l’omicidio è prescrivere «Non ucciderai», ed è stato fatto. Ma, lo scorso anno¹⁰, abbiamo letto nell’Esodo che, subito dopo i Dieci comandamenti, Dio istituisce una sorta di pena di morte per chiunque trasgredisca questo o quel comandamento in tale o talaltra condizione. Si può istituire la pena di morte per proibire l’omicidio, ma una pena di morte può proibire il desiderio di omicidio? Si può anche proibire la pena di morte stessa, si può abolirla, ma si può proibire il desiderio di «pena di morte» che può sopravvivere, lo sappiamo troppo bene, anche in Francia, nella maggioranza dei Francesi, come ci riferiscono le inchieste, all’abolizione legale della pena di morte. Si può dunque voler proibire di uccidere. Non uccidere mai! Non dare mai la morte! A nessun vivente, all’altro o a te stesso. Ma è possibile proibire il desiderio, conscio o inconscio, di uccidere? Cosa presiede tale desiderio? Che vuol dire, in questo caso, presiedere, e presidente?

    Si può voler proibire di uccidere fino al punto di abolire la pena di morte. Ma si può abolire il desiderio o la compulsione che detta la pena di morte e che vi presiede sovranamente?

    Cosa vuol dire, allora, in questi due casi, un atto, un passaggio all’atto? E il diritto, il diritto statale per esempio, cosa può fare di simile differenza tra un desiderio e un passaggio all’atto? tra un desiderio e un sintomo? Il diritto statale o transnazionale cosa può fare dell’economia sottile e astuta che regola i rapporti tra, da una parte, l’inconscio e la coscienza, tra un atto inibito, sospeso, proibito, dirottato verso un sintomo (che può anche essere, a modo suo, un omicidio a malapena mascherato) e quanto, d’altra parte, è chiamato un atto, un atto manifesto, visibile, pubblicamente attestato – perché il limite si complica qui: non si tratta più del limite tra l’atto reale e l’atto possibile, tra l’atto e il desiderio, che può anche essere attuale, consciamente o inconsciamente; questo limite è anche il limite tra il pubblico e il non-pubblico, tra la pubblicità dello spazio pubblico e un altro spazio che può essere privato ma anche più che privato, prima della distinzione tra pubblico e privato, segreto in un altro senso, e segreto conscio o segreto inconscio (opposizione conscio/inconscio di cui in questa sede faccio uso in maniera non dogmatica, senza essere sicuro di designare qui realtà determinabili o concetti chiari, ma solo ipotesi provvisorie e riconoscibili, che hanno almeno il diritto di essere poste come ipotesi e che d’altro canto non arrivano come ipotesi utili in questa sede per puro caso; perché io sostengo, e sicuramente la cosa non è poi così originale, che l’idea di inconscio, per esempio, lungi dall’aiutarci a orientarci nel dominio del crimine e della condanna, della logica penale, della colpa, della pena di morte, l’idea di inconscio è nata, al contrario, come ipotesi dell’inconscio, dell’esperienza della colpa, del crimine, della colpevolezza, della punizione, ecc., in breve della legge e del diritto)¹¹.

    Bisogna reinventare, ripensare il concetto di atto per prendere in considerazione questa nuova problematica e abbordare infine in maniera seria il problema della pena di morte? Lascio queste domande in sospeso fino al momento di trattare un certo testo di tipo psicoanalitico sulla pena di morte. Dico deliberatamente un certo testo psiconalitico perché è, senza essere , un testo di Freud, un testo scritto in suo nome, tre pagine redatte da Reik in risposta a un’inchiesta¹². Quando, nel corso di una conferenza presso gli Stati generali della psicoanalisi (cfr. Etats d’âme de la psychanalyse)¹³, ho prudentemente proposto che, per quanto ne sapevo, non c’era un testo di Freud direttamente dedicato alla pena di morte, questo non escludeva che Freud, pur senza scrivere lui stesso in merito, abbia incaricato qualcuno di farlo al suo posto e in suo nome, cosa che dà luogo a un testo il cui statuto, il linguaggio, la logica o la retorica, invero la firma, in breve il gesto, l’atto, la pragmatica devono essere analizzati con molta cura, come presto cercheremo di fare.

    Vorrei peraltro citare, in guisa di appiglio, le ultime righe del testo su cui conto di tornare distesamente. Ecco cosa dice Freud, o piuttosto Reik a nome di Freud ma con la sua autorizzazione, e quanto cito è allora una frase autorizzata da Freud che sopraggiunge, ma come un salto, come una decisione dopo un salto, al termine di una risposta lunga e imbarazzata. Reik, a nome di Freud, in risposta a un’inchiesta composta di tre domande, di cui una sulla punizione in generale e due sulla pena capitale, dice così:

    Se posso prendermi la libertà di modificare leggermente la formulazione della vostra domanda principale, vorrei, per concludere, rispondervi in questo modo: «Io affermo di essere un avversario risoluto dell’omicidio, sia che si presenti in forma individuale o come rappresaglia esercitata dallo Stato»¹⁴.

    Il desiderio di uccidere (per il possibile omicida o per l’omicida in potenza) o il desiderio di mantenere o ristabilire la pena di morte – ed è dunque un desiderio di uccidere –, nei due casi il desiderio di uccidere, in quanto desiderio¹⁵, è a un tempo più giovane e più vecchio dell’atto di uccidere. Può precedere l’atto di uccidere senza che quest’ultimo abbia luogo in quanto atto (posso desiderare di uccidere qualcuno senza mai ucciderlo o senza mai ucciderlo nel modo chiamato e riconosciuto come omicidio in atto, come assassinio pubblico o come esecuzione in atto, effettiva, reale, ecc.); il desiderio di uccidere può essere anche più vecchio dell’atto e sopravvivere all’atto, anche se l’atto, nel senso corrente del termine, non ha avuto luogo. So bene e mi direte subito che il diritto talvolta prende in considerazione l’intenzione e il desiderio, ad esempio quando distingue tra l’omicidio volontario e l’omicidio involontario (cioè senza intenzione, dunque senza desiderio di dare la morte: è il concetto dei colpi e delle ferite che provocano la morte senza che ci fosse l’intenzione di procurarla). Ma questa assunzione dell’intenzione e del desiderio, del desiderio di dare o non dare la morte, questa assunzione legale viene limitata in due modi e, per così dire, su due bordi. Da una parte, il diritto esige che di tale intenzione o desiderio, in realtà del non-desiderio intenzionale o del desiderio di non (dare la morte) si abbiano segni attuali, prove o indizi in atto: gesti compiuti o gesti evitati. Si tratta dunque proprio di un atto, di manifestazioni attraverso atti. Dall’altra, il desiderio o il nondesiderio o il desiderio di-non in questione devono dipendere da quanto è chiamato coscienza, percezione cosciente. Il diritto, fino ad oggi, si è vietato o non è stato capace di integrare nella sua assiomatica essenziale una logica dell’inconscio o del sintomo, e soprattutto un altro pensiero dell’atto (vale a dire del rapporto tra l’atto e i suoi pretesi altri, il possibile, l’impossibile, il desiderio, il pensiero, il linguaggio), un altro pensiero dell’età (cioè del tempo della vita e della molteplicità delle misure, degli ordini o dei modi eterogenei di calcolare)¹⁶; il diritto non ha fatto i conti con quest’altro pensiero dell’età, nonostante – come sapete, e si tratta di un sintomo interessante – il discorso penale sia stato ossessionato, in particolare sulla pena di morte, dalla questione dell’età legale, dell’età in cui è legale condannare a morte o giustiziare un condannato. Tutto questo è stato e resta oggetto di interminabili dibattiti casuistici e giurisprudenziali, là dove la pena di morte è mantenuta in una società in cui il più puritano legalismo va a braccetto con la più barbara crudeltà e con le più sofisticate sottilizzazioni sul criterio stesso della crudeltà. Negli Stati Uniti, infatti, la questione dell’età, per così dire, penale, ha ricevuto risposte che oggi dobbiamo meditare. Per esempio, quando nel 1987 la Corte suprema federale (istanza sul cui ruolo e significato dovremo pazientemente tornare, e lo farò) è tornata sulla sua decisione del 1972 (caso Furman vs Georgia) che aveva giudicato la pena di morte anticostituzionale e successivamente, nel 1976 (sentenza Gregg vs Georgia), aveva accettato di rivedere i suoi pareri, ebbene, nel 1987, dunque, la Corte suprema federale ha riaffermato la legittimità, la legalità costituzionale della pena di morte a proposito di un uomo di colore che aveva ucciso un poliziotto, e ha poi inasprito il suo orientamento dichiarando il 26 giugno 1989, 5 voti contro 4 (come nel 1972, ma in senso inverso), che niente impediva l’esecuzione di condannati a morte dai 16 ai 18 anni, dunque minori al momento del crimine compiuto, e nemmeno la messa a morte di individui considerati come «mentally retarded», portatori di handicap mentali. Due anni prima, nel 1985, la Virginia aveva condannato alla sedia elettrica un operaio agricolo di colore di 37 anni ma che i periti avevano dichiarato possedere un’età mentale di 8 anni. Se leggete il libro curato da Austin Sarat, The Killing State, troverete numerosi casi analoghi¹⁷. Ad esempio, per citarne solo uno, il caso Penry vs Lynaugh, nel giugno 1989. Penry era accusato di stupro e omicidio ed era stato condannato a morte. Al momento del crimine aveva 22 anni, ma secondo i periti aveva all’epoca l’età mentale di un bambino di sei anni e mezzo, cioè – cito approssimativamente – aveva la capacità di apprendere e conoscere di un bambino dell’età media di sei anni e mezzo. Questo è il «mentale», l’età cosiddetta mentale, cioè qui intellettuale, nell’ordine del sapere, dell’apprendimento, dell’imparare e del comprendere. L’età «teorica», se volete. Dal punto di vista sociale, invece, cioè dal punto di vista della sua maturità sociale, ovvero della sua capacità di «function in the world», di agire o di essere operativo nella società, di essere socievole, capace di inserirsi, come si suol dire, o di reinserimento sociale, dal punto di vista sociale, dunque, aveva tre o quattro anni di più, cioè 9 o 10 anni. Ecco dunque un imputato, condannato a morte, che aveva almeno tre età, 6 anni e mezzo (età mentale), da 9 a 10 anni (età sociale) e 22 anni (età legale). L’avvocato della difesa ha invocato le circostanze attenuanti e ha sostenuto che fosse incostituzionale, contrario all’ottavo emendamento sui «cruel and unusual punishments», condannare e soprattutto giustiziare una persona le cui capacità erano così diseguali. Il caso Penry ha diviso la corte in tre gruppi. Quattro giudici hanno rigettato insieme la necessità di un ricorso e di un’istruttoria supplementare. Altri quattro giudici hanno giudicato che l’esecuzione di una persona così «retarded» come Penry avrebbe violato l’ottavo emendamento. Il giudice O’Connor ha accolto la necessità costituzionale di un’istruttoria supplementare, al fine di stabilire le circostanze attenuanti, ma ha rigettato il ricorso all’ottavo emendamento.

    Non rifacciamo il processo, ma dobbiamo sapere che casi come questo sono stati una caterva. Ciò su cui voglio soffermarmi non è solo l’insondabile difficoltà di definire una o soprattutto più età, non è soltanto la debolezza, per non dire la debolezza essenziale del discorso dei periti in merito, il «cervello lento» degli esperti, relativamente a questa pretesa maturità o immaturità del soggetto sottoposto a giudizio, ma il legame tra questa questione della maturità in generale e la responsabilità del soggetto di diritto in generale, ad esempio quella a cui si riferiscono i discorsi più rigorosi (come quello di Kant) in favore dell’iscrizione della pena di morte nel diritto. Cos’è un’età e a quale età un soggetto è giuridicamente responsabile? Qual è l’età del soggetto di diritto responsabile? Questa domanda – immensa e classica – che ritroveremo¹⁸ a ogni passo, e che è la domanda stessa della responsabilità di quanto è chiamato un soggetto di diritto consapevole davanti alla legge, non è solo dirottata, esposta ai quattro venti dalla molteplicità delle età mentali e sociali in ognuno di noi, ma ¹⁹ quella, più grave, di una differenza tra l’età delle coscienze cosiddette mentali, sociali, ecc., e l’età, se ce n’è una, dell’inconscio. C’è una storia, un tempo e un’età dell’inconscio? Cosa risponderebbe un giudice al quale un perito dicesse «questo imputato di età e tempo ha solo l’inconscio che, secondo Freud, ignora il tempo, oppure ha un’età inconscia di sei mesi ed è lui, questo inconscio del neonato, che ha ucciso»? E, quale che sia la risposta a simili domande, ci sarebbe una traduzione, un passaggio qualunque, una minima omogeneità tra le età dell’inconscio e le età della coscienza, per non parlare dello stato civile? Se il desiderio o l’atto di un omicida (e dobbiamo già distinguere i due, cosa non sempre facile) sono sempre, in riferimento a una logica dell’inconscio, più vecchi, arcaici o, ma è lo stesso, più giovani, puerili, addirittura infantili, di quelli assicurati dallo stato civile, se quanto si dice allora dell’età inconscia del desiderio o dell’atto criminale può dirsi anche dell’età inconscia del desiderio o dell’atto dei giudici o della società che condanna a morte e giustizia, allora questa vertiginosa questione di età, della velocità, del differenziale di velocità, della differenza tra lento e rapido, è inseparabile dalla questione della legge e del diritto in generale, della criminologia in particolare, dei rapporti tra la storia del diritto penale o della criminologia e della psicoanalisi. Noi ne riattiveremo alcuni tra i dati più enigmatici, più aporetici, leggendo alcuni testi di Reik sulla compulsione alla confessione (si veda la bibliografia)²⁰ e alcuni testi di cui parlavo un istante fa scritti e firmati da Reik a nome di Freud sulla pena di morte – e su una colpa che, lungi dal seguire il crimine, lo precede, e lo precede a partire dalla formazione più arcaica dell’inconscio. La cosa è tanto più complessa, inquietante, sviante, difficile da tenere in mano, quanto più la molteplicità delle età, delle nostre età, delle età eterogenee che si spartiscono la nostra vita di mortali, e se la spartiscono simultaneamente (sincronicamente abbiamo più di un’età), questa discronia o questa anacronia essenziale che ci divide, ci moltiplica, ci spartisce, ci divora lasciando resti, ci conduce alla morte, lasciando in noi immense zone di giovinezza intatta, addirittura di virtualità embrionali e non ancora «nate», [la cosa è tanto più complessa, inquietante, sviante, quanto più la molteplicità delle età, delle nostre età] non è solo quella, ontogenetica, di un individuo, di un soggetto conscio o inconscio, perfino di un io conscio o inconscio, non è solo la molteplicità delle età di ogni istanza dell’economia o del sistema psichico (l’es, se volete, l’io, il superio, l’ideale dell’io, l’io ideale, ecc., e potremmo moltiplicare le istanze), è anche la molteplicità irriducibile, in ognuno di noi, delle età dell’umanità, della cultura antropologica, perfino delle età della vita (umana o animale) in generale. Supponete che io uccida: a quale età avrei ucciso, oppure sarei stato ucciso? All’età del mio stato civile, o a una certa età arcaica della mia storia, quando avevo sei mesi, due anni, quando non sapevo ancora leggere e scrivere, o a 15 anni? O già a 100 anni? Chi avrà ucciso chi, a che età? C’è in noi, simultaneamente, nella nostra coscienza e nel nostro inconscio, il vecchio e il bambino, ma anche l’uomo del XXI secolo, del V secolo a.C., l’uomo di Cro-Magnon e di Neanderthal, la scimmia superiore, la tigre e lo scoiattolo. Chi sei? Che età hai nel momento in cui uccidi, perfino nel momento in cui sei ucciso: ecco domande sull’età che posso essere rivolte all’imputato, al criminale, ma anche al giudice e al boia, senza mai potersi attendere una risposta soddisfacente, per mancanza di sapere, e di sapere anzitutto cosa vuol dire la domanda. Le età non si lasciano tradurre l’una nell’altra, coabitano in mille maniere, si fanno la guerra o l’amore secondo una socialità di cui il diritto della persona umana non ha alcun modello. Chi giudica? Che età giudica? Dove sono i periti per la valutazione di queste età «mentali» o «sociali» che non sono nemmeno più età dell’umanità? Per rimanere ancora alla superficie di questa «questione di età», richiamo in breve altre due dimensioni esemplari.

    1. Da una parte quella dell’aborto e del diritto di interrompere, con una decisione calcolabile, la vita di un embrione. In quali condizioni, a quali condizioni, a quante settimane si deve considerare l’embrione una persona umana, un soggetto virtuale di diritto la cui vita deve essere rispettata, ecc.? Si sta prolungando, come sapete, da 10 a 12 settimane il diritto di interruzione volontaria della gravidanza²¹; si sta anche decidendo, altro problema dell’embrione, di autorizzare ricerche e sperimentazioni genetiche sugli embrioni abbandonati (dunque abbandonati alla morte) dai loro genitori virtuali, e questa autorizzazione si amplia il più possibile, salvo la clonazione cosiddetta riproduttiva (dunque sarebbe possibile proseguire ricerche e sperimentazioni senza mai raggiungere o superare il limite della clonazione cosiddetta riproduttiva), come se chiunque, in particolare un certo comitato etico, avesse mai potuto produrre il benché minimo embrione di concetto degno di questo nome a riguardo, compreso un concetto di clonazione, per non parlare del concetto di ri-produttivo…

    Voi sapete che da una nazione all’altra, da un ambiente scientifico a un altro, le risposte a tale batteria di domande sono molto diverse, molto mobili e non sono mai, assolutamente mai fondate sul benché minimo concetto o il minimo principio rigoroso, rigorosamente rigoroso, qualunque posizione si assuma, che si sia favorevoli o contrari; questo mette in evidenza la fragilità essenziale del concetto corrente di «persona», di «persona giuridica» e di soggetto di diritto. E sapete anche che il riferimento, almeno teorico, all’omicidio e alla pena di morte è al cuore delle argomentazioni contro l’aborto, considerato da alcuni come un crimine o un’esecuzione, addirittura una strage di proporzioni demografiche pari ai peggiori crimini contro l’umanità di questo secolo, con la stranezza sociologica supplementare e altamente significativa relativa al fatto che gli avversari più militanti dell’aborto sono più spesso (non sempre, ma più spesso, specialmente negli Stati Uniti) sostenitori della pena di morte.

    Nel suo ultimo libro, L’Abolition²², nel capitolo intitolato «D’un président à l’autre» [«Da un presidente all’altro»] su cui torneremo da un altro punto di vista quando abborderemo la questione del presidente (cos’è un presidente? Cos’è la figura del presidente in questa storia della pena di morte?), Badinter ricorda il momento, all’inizio della presidenza di Giscard d’Estaing, in cui, dopo Pompidou (presidente che si era mostrato piuttosto duro e che aveva rifiutato la grazia a Buffet e Bontems²³, ricordate L’Exécution di cui abbiamo parlato l’anno scorso²⁴), Giscard aveva dichiarato «in privato la sua profonda avversione per la pena capitale»²⁵. Ciò aveva fatto nascere molte speranze negli abolizionisti, speranze deluse fino alla presidenza successiva, quella di Mitterand nel 1981. Ma sotto Giscard, ed è l’unico indizio che volevo isolare adesso, oltre a una riforma costituzionale che trasformò il Consiglio costituzionale (istituzione differente ma in un certo senso comparabile alla Corte suprema americana di cui riparleremo), furono votate due leggi che alla fine riguardavano entrambe questa «questione d’età». La maggiore età fu abbassata a 18 anni e la legge sull’aborto venne votata, al termine di quello che Badinter chiama un «desolante dibattito»²⁶ (è durante questo dibattito che Simone Veil, che aveva presentato la legge, fu insultata e paragonata a una criminale nazista), la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza venne dunque votata con 284 voti a favore e 189 contro, grazie al voto compatto della sinistra²⁷. Ora, durante questo dibattito, ricorda Badinter, alcuni dichiararono che non si poteva essere a un tempo abolizionisti, cioè sostenitori del rispetto assoluto della vita (supponendo dunque, cosa a cui non credo, che non sia possibile opporsi alla pena di morte senza porre un diritto incondizionato alla proprietà della propria vita, ma lasciamo stare) [alcuni dichiararono dunque che non si poteva essere abolizionisti, cioè sostenitori del rispetto assoluto della vita] e insieme a favore di una liberalizzazione dell’aborto. Volevo rammentare il legame di cui fa uso e abuso una certa retorica. Badinter replicò immediatamente questo, che mi sembra un po’ affrettato: «Ma la pena di morte era un supplizio imposto dalla società al condannato, mentre la scelta dell’aborto era lasciata alla decisione delle donne. La libertà era dalla loro parte. Niente di tutto questo per la pena capitale»²⁸.

    Gli avversari dell’aborto e i sostenitori della pena di morte avrebbero potuto rapidamente replicare che la libertà di decisione lasciata alla madre (che non è in questo caso il soggetto condannato a morte, cioè il bambino che deve nascere) non può essere simmetricamente opposta alla libertà di decisione rifiutata al condannato a morte. Il parallelo, in se stesso specioso, come è invocato dagli avversari della pena di morte, non è tra il condannato a morte e la madre, ma tra il condannato a morte e il bambino che deve nascere.

    2. D’altra parte, l’altra dimensione esemplare che, per rimanere ancora alla superficie di questa «questione di età», questa questione dell’infanzia, volevo richiamare brevemente, avrebbe a che fare questa volta non con l’età del bambino che deve nascere o la cui nascita <è> in qualche modo interrotta o interdetta, questo non sarebbe allora il diritto di nascere, e dunque di non morire, ma sarebbe il diritto di non nascere di cui si è parlato in Francia ultimamente a proposito di Nicolas, il ragazzo con gravissime disabilità i cui genitori hanno citato in giudizio l’Ordine dei medici per mancata diagnosi o per non averli informati o consigliati per tempo sulla possibilità o la necessità di impedire la futura nascita²⁹. È stato detto in proposito, indipendentemente dalla posizione assunta in un processo ormai sancito da una sentenza che indennizza la vita stessa, l’essere in vita di qualcuno i cui genitori credono che sarebbe stato meglio se non vivesse, si è parlato in proposito non più di diritto incondizionato alla vita, ma di un diritto potenziale a non nascere.

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