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La pena di morte. Vol. 1
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E-book495 pagine7 ore

La pena di morte. Vol. 1

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Info su questo ebook

Jaca Book prosegue la pubblicazione dei seminari di Jacques Derrida ancora inediti in Italia, dopo i due volumi de La Bestia e il Sovrano. In questo primo volume dedicato alla pena di morte sono messi in gioco, nell’imminenza di una sanzione irreversibile, i concetti problematici di sovranità, eccezione e crudeltà. Il libro percorre quattro figure paradigmatiche (Socrate, Gesù, Hallâj, Giovanna d’Arco) e testi canonici: la Bibbia, Camus, Beccaria, Locke, Kant, Hugo, e anche testi giuridici successivi alla seconda guerra mondiale. Cuore pulsante del seminario è riconoscere che le tesi filosofiche e giuridiche a favore o contro la pena di morte si sono appellate agli stessi principi: «non è sufficiente decostruire la morte stessa». Si fa strada l’ipotesi che proprio la pena di morte obblighi a rimettere in discussione gli umanesimi filosofici, politici, teologici, economici che sostengono la nostra epoca.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita25 giu 2021
ISBN9788816802773
La pena di morte. Vol. 1
Autore

Jacques Derrida

È stato uno dei maggiori filosofi del nostro tempo. Jaca Book ha pubblicato le sue opere principali, fra le quali ricordiamo: La voce e il fenomeno (1968/2010); Della grammatologia (1969/1998/2020); La farmacia di Platone (1985/2021); La disseminazione (1989/2018); Addio a Emmanuel Lévinas (1998/2011); L’animale che dunque sono (2006/2019); Psyché. Invenzioni dell’altro, voll. 1 e 2 (2008/2020 e 2009/2021); La bestia e il sovrano, voll. 1 e 2 (2009 e 2010); La pena di morte, voll. 1 e 2 (2014 e 2016); Pensare al non vedere (2016); Teoria e prassi (2018); Chora; Passioni; Heidegger. La questione dell’Essere e la Storia (tutti 2019); Salvo il nome; Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (entrambi 2020); La vita la morte. Seminario (1975-1976), pubblicato nel 2021. Presso Jaca Book proseguono le pubblicazioni dell’edizione critica di Seminari e Corsi.

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    Anteprima del libro

    La pena di morte. Vol. 1 - Jacques Derrida

    NOTA DEI CURATORI

    Il presente volume pubblica il primo dei due anni di seminario che Jacques Derrida ha dedicato all’argomento della pena di morte nel 1999-2000 e nel 2000-2001. Presentato integralmente nel quadro del programma «Filosofia ed epistemologia» all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, a Parigi, questo seminario è stato anche oggetto di un insegnamento negli Stati Uniti: all’Università della California, a Irvine, per cinque settimane nella primavera 2000 e 2001, e all’Università di New York, per tre settimane, nell’autunno 2000 e 2001.

    Questo seminario precede immediatamente quello dedicato a La bestia e il sovrano, già pubblicato¹. Dipende dall’insieme cominciato nel 1997-1998 e continuato nel 1998-1999 con il titolo «Le parjure et le pardon» [«Lo spergiuro e il perdono»], che appartiene a sua volta a un insieme più ampio: «Questions de responsabilité» [«Questioni di responsabilità»], iniziato nel 1989 e giunto al termine nel 2003 con l’ultimo anno di insegnamento di Jacques Derrida².

    Il primo anno di questo seminario non ha avuto un titolo specifico³, e solo nell’Annuaire de l’EHESS 2000-2001, quindi nel secondo anno, il titolo sarà così precisato: «Questions de responsabilité (VIII. La peine de mort)»⁴.

    Il lettore attento all’insieme che presenta lo sviluppo in due anni sulla «pena di morte» percepirà facilmente la struttura di ognuno degli anni e come si compone l’insieme delle ventidue lezioni. Non è compito nostro fornire un’interpretazione o annotazioni sulle specificità dell’insieme. Tuttavia, il lettore deve avere presente fin dall’inizio che gli sviluppi, ossia gli ambiti e i «temi» del primo volume, si distinguono nettamente da quelli che costituiscono il secondo anno del seminario. Se una lettura dell’insieme può evidenziare alcuni fili conduttori, non deve tuttavia ignorare il modo in cui Derrida dissocia i due anni secondo le differenti serie o sotto-serie che rispettivamente li strutturano, senza parlare del corpus e dei differenti campi disciplinari che variano da un anno all’altro. Derrida stesso offre alcune di queste precisazioni all’inizio del secondo anno del seminario, così come nei consuntivi scritti da lui per ognuno dei due anni del corso. Invitiamo inoltre il lettore di questo primo volume a non dare una forma definitiva alla sua «idea» della pena di morte (o delle pene di morte) secondo Jacques Derrida, finché non verrà pubblicato il secondo volume che, per molti aspetti, si distingue dal primo.

    *

    Ecco come Jacques Derrida riassumeva il seminario dell’anno 1999-2000 che qui ci interessa:

    La problematica trattata con questo titolo «Le parjure et le pardon» nel corso dei due anni passati ci ha portato questa volta a privilegiare la grande questione della pena di morte. Era necessario, almeno nella misura in cui la pena cosiddetta capitale mette in gioco, nell’imminenza di una sanzione irreversibile insieme a ciò che sembrava ritenuto l’imperdonabile, i concetti di sovranità (dello Stato o del capo dello Stato – diritto di vita e di morte sul cittadino –), di diritto, di grazia, ecc.

    Abbiamo studiato la pena di morte, almeno in modo preliminare, sia a partire da grandi esempi paradigmatici (Socrate, Gesù, Hallâj, Giovanna d’Arco), sia da testi canonici, dalla Bibbia a Camus o a Badinter, passando per Beccaria, Locke, Kant, Hugo – cui abbiamo dedicato numerose lezioni –, Genet, ecc., e soprattutto da testi giuridici successivi alla seconda guerra mondiale. Infatti, un gran numero di convenzioni internazionali raccomanda la fine delle punizioni crudeli e delle torture, fra cui la pena di morte, senza mai farne un obbligo agli Stati, la cui sovranità doveva essere rispettata. Ci siamo interessati ai movimenti abolizionisti, alla loro logica e alla loro retorica, e soprattutto agli Stati Uniti, la cui storia recente, addirittura molto attuale, ha richiesto molte analisi – notoriamente dopo la decisione della Corte suprema, che nel 1972 giudicò incostituzionale l’applicazione della pena di morte («cruel and unusual punishment»), fino alla ripresa amplificata e spettacolare delle esecuzioni dal 1977, ecc. Abbiamo dedicato molta attenzione all’eccezione degli Stati Uniti.

    Tre concetti problematici hanno segnato il nostro interrogarci attraverso i testi e gli esempi studiati: la sovranità, l’eccezione e la crudeltà. Altra questione guida: perché l’abolizionismo o la condanna della pena di morte, nel suo stesso principio, non hanno (quasi) mai trovato, fino ad oggi, uno spazio propriamente filosofico nell’architettura di un grande discorso filosofico in quanto tale? Come interpretare questo fatto altamente significativo?

    Alcuni mesi prima, aveva redatto, in inglese, per l’Università della California, a Irvine, questa altra descrizione del seminario che in primavera avrebbe tenuto per il pubblico americano:

    Death Penalty

    In continuing the past years’ seminars (Pardon and Perjury), we will take up this year, under the heading of the unforgivable, the question of capital punishment.

    We will start by studying its history, juridical and political dimensions, the present stakes of its abolishment (in the process of mondialisation, worldization, ‘globalization’ particularly in the United States). We would also analyse the ‘scene’ the history of its visibility and of its ‘public’ character generally, but also its representation in the arts of theater, painting, photography, cinema and of course, literature.

    Intertwined in this first approach will be two leading threads: the equivocal concepts of ‘cruelty’ and of ‘exception’ which play a determining role in juridical discourses (for and against death penalty).

    On the horizon – the big question of sovereignty in general, of sovereignty of the State in particular.

    Pena di morte

    In continuità con i seminari degli anni passati (Le pardon et le parjure), quest’anno riprenderemo col titolo [heading, cap, en-tête, titre] dell’imperdonabile, la questione della pena capitale.

    Cominceremo studiandone la storia, le dimensioni giuridiche e politiche, le attuali poste in gioco della sua abolizione (nel processo di mondializzazione, worldization, «globalization», in particolare negli Stati Uniti). Analizzeremo anche la «scena», la storia della sua visibilità e del suo carattere «pubblico» in generale, ma anche la sua rappresentazione nelle arti del teatro, della pittura, della fotografia, del cinema e, certamente, della letteratura.

    In questo primo approccio si intrecceranno due fili conduttori: i concetti equivoci di «crudeltà» e di «eccezione», che giocano un ruolo determinante nei discorsi giuridici (a favore e contro la pena di morte).

    All’orizzonte: la grande questione della sovranità in generale e in particolare della sovranità dello Stato⁶.

    *

    I due anni di questo seminario prevedono ventidue distinte lezioni, di cui dodici nel primo anno (1999-2000)⁷, mentre nel secondo anno (2000-2001) ce ne saranno dieci. L’insieme è stato scritto da Jacques Derrida su computer. Per quanto riguarda le dodici lezioni del primo anno, la prima è doppia, indicata col numero 1 e 1 (seguito)⁸, ecco perché l’ultima lezione è indicata come «undicesima». L’insieme è inedito, ad eccezione di questa prima doppia lezione, che fu oggetto di una conferenza a Sofia, seguita da una pubblicazione dal titolo «Pena di morte e sovranità (per una decostruzione dell’onto-teologia politica)»⁹.

    Per stabilire la presente edizione abbiamo lavorato a partire dalle diverse versioni stampate, indicate col termine «dattiloscritto», come pure dai files informatici disponibili. Le copie abbozzate del seminario per il 1999-2000, depositate all’Institut Mémoires de l’édition contemporaine (IMEC, Caen), sono contenute in tre cartelle. Una cartella di colore écru contiene le lezioni 2, 3, 4, 5, 6 e 7. Sulla prima pagina di diverse lezioni Derrida scrive la parola «doppio». Non ci sono annotazioni manoscritte in questa copia. Una cartella di colore giallo contiene le lezioni 1 e 1 bis, 8, 9, 10 e 11. Derrida scrive «doppio» sulla prima pagina della prima lezione. Sulla nona lezione Derrida corregge a mano qualche errore di battitura e segnala che ne presenterà una parte all’Università di New York. Corregge anche qualche errore di battitura sulla copia stampata della decima lezione. Sul retro delle due ultime pagine della nona lezione (che sono le pagine fotocopiate da un articolo a stampa americano), Derrida abbozza un breve piano sul rapporto tra il bio-potere secondo Michel Foucault e la questione dell’interesse per la pena di morte. Non lo abbiamo trascritto, da una parte perché non abbiamo incluso l’esposizione orale fatta da uno studente a proposito del capitolo «Droit de mort et pouvoir sur la vie» in Histoire de la sexualité 1. La volonté du savoir, e, d’altra parte, perché la decifrazione lascia diverse lacune.

    Una cartella di colore blu, infine, contiene una copia completa del seminario, annotata a mano da Jacques Derrida, soprattutto per preparare l’adattamento in inglese del corso per Irvine e New York e la ripresa di alcune parti per adattarle a una conferenza (come quella data a Sofia). In questa copia le fotocopie dei testi citati nel seminario sono integrate e annotate molto chiaramente per ritrovare il passo preciso da leggere e commentare. È dunque a partire da questa copia che abbiamo lavorato.

    I nostri interventi editoriali sul dattiloscritto di Jacques Derrida sono il minimo possibile. Come sempre il seminario è interamente redatto e, in forma scrupolosa, Derrida indica nel dattiloscritto la fonte delle citazioni che sottopone all’esame del suo uditorio e che commenta minuziosamente. Quando non ne riporta il testo, indica molto chiaramente dove cominciano e dove finiscono quelle che studia, con un sistema di riferimenti incrociati tra il suo dattiloscritto e i libri o le fotocopie di libri da cui le prende. Quando era necessario precisare o completare i riferimenti bibliografici, lo abbiamo fatto a partire dalle sue fotocopie o dalle edizioni consultate nella sua biblioteca personale. Lo abbiamo segnalato con la menzione (NdC). Quando non è stato possibile trovare l’edizione da lui utilizzata, ci siamo serviti delle edizioni più affidabili.

    Abbiamo riportato in nota le aggiunte manoscritte significative che Jacques Derrida aveva inserito a margine del dattiloscritto. Quando ci è parsa indispensabile una correzione grammaticale nel testo, lo abbiamo segnalato ponendo l’aggiunta o la correzione tra virgolette caporali semplici (), o spiegandola in nota. Abbiamo anche cercato di rispettare al massimo una scrittura caratterizzata dalla destinazione orale e dunque, tra l’altro, da un ritmo e una temporalità le cui modalità stilistiche si ripercuotono sulla sintassi della frase e nel movimento del paragrafo. Tuttavia qualche minimo ritocco a livello della punteggiatura si è reso a volte indispensabile. Volendo mantenere l’oralità di questa scrittura, riproduciamo egualmente tutte le didascalie che figurano nel manoscritto, come anche i rimandi rivolti a se stesso, come i «Leggere e commentare» che annunciano una citazione e spesso uno sviluppo improvvisato nella lezione: abbiamo integrato in nota queste aggiunte a partire dalle registrazioni audio, ogni volta che apportavano una precisazione utile allo sviluppo in corso.

    *

    La biblioteca personale di Jacques Derrida sulla pena di morte è grande; le sue annotazioni di libri, di articoli scientifici, come anche della stampa quotidiana, ma anche delle pubblicazioni di Amnesty International, attestano una documentazione abbondante e diversificata. Sulla sua scrivania questi documenti erano in evidenza, accanto a quelli concernenti i differenti progetti di scrittura che nello stesso tempo mandava avanti – e, in particolare, quello di Le Toucher, Jean-Luc Nancy¹⁰.

    Ma, al contrario di altri seminari, anteriori o posteriori, egli stesso pubblicò molto poco in Francia sulla sua ricerca dedicata alla pena di morte. Si ricorderà tuttavia che nel 1995, quattro anni prima dell’inizio di questo seminario, scrisse la prefazione a Live from Death Row di Mumia Abu-Jamal¹¹. Abbiamo già segnalato che la sola pubblicazione legata direttamente al seminario fu quella della conferenza di Sofia, affidata alla rivista Divinatio.

    Si può tuttavia leggere l’intervento di Jacques Derrida in De quoi demain… Dialogue¹², come una vera sintesi del suo seminario e indicare che, in occasione di un scalo a Hong Kong, pochi giorni dopo l’11 settembre 2001 (al ritorno da un viaggio in Cina nel quale non era possibile presentare apertamente il seminario, tenendo conto del tabù sull’argomento e dei pericoli che avrebbe fatto correre ai suoi ospiti)¹³, si azzardò a fare una nuova discussione sul tema della pena di morte. Secondo la testimonianza di Chan-Fai Cheung e Kwok-Ying Lau (professori del Dipartimento di Filosofia di quella Università, responsabili della sua chiamata), improvvisò per diverse ore incrociando la questione della mondializzazione con quella della pena di morte.

    *

    Ringraziamo Marguerite Derrida, che ci ha aperto le porte di casa, dandoci accesso alla biblioteca di Jacques Derrida, ai suoi libri e ai documenti del suo lavoro. Non avremmo mai potuto portare a termine questo lavoro senza il suo sostegno affettuoso e attento. Ringraziamo anche Chan-Fai Cheung e Kwok-Ying Lau, dell’Università cinese di Hong Kong; François Borde e José Ruiz-Funes dell’IMEC; le nostre guide pioniere, l’équipe editoriale precedente – Michel Lisse, Marie-Louise Mallet e Ginette Michaud – dei due volumi del seminario La bestia e il sovrano; i giovani ricercatori Delmiro Rocha, Federico Rodriguez Gomez e Beatriz Bianco, come anche Cristina de Peretti, per il loro aiuto in questi ultimi quattro anni; i numerosi ricercatori del «Derrida Seminars Translation Project», sotto la direzione di Peggy Kamuf; Eric Prenowitz per averci messo a disposizione le sue registrazioni del seminario; e Patrice Théry e Dominique Perrin del Centro audiovisivo e multimediale dell’Università di Lille 3 per la digitalizzazione dei file audio.

    Geoffrey Bennington

    Marc Crépon

    Thomas Dutoit

    NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA

    Per facilitare il confronto da parte del lettore, il numero di pagina dell’edizione francese è stato aggiunto lungo il margine, all’altezza del rigo che corrisponde all’inizio di una nuova pagina.

    ¹Séminaire La bête et le souverain. Volume I (2001-2002) e Volume II (2002-2003), a c. di Michel Lisse, Marie-Louise Mallet e Ginette Michaud, Galilée, Paris 2008 e 2010, tr. it. di G. Carbonelli, La bestia e il sovrano, vol. I, Jaca Book, Milano 2009, e vol. II, Jaca Book, Milano 2010.

    ²Cfr. supra, l’Introduzione generale Seminari.

    ³Leggendo i Comptes rendus des cours et conférences pubblicati dall’École des Hautes Études en Sciences Sociales per il periodo 1996-2003, constatiamo che il modo in cui è enunciato il seminario sulla pena di morte è sbagliato:

    1996-97, «Questions de responsabilité (V. Hostilité/ hospitalité)»

    1997-98, «Questions de responsabilité (VI. Le parjure et le pardon)»

    1998-99, «Questions de responsabilité (VII. Le parjure et le pardon)»

    1999-2000, «Questions de responsabilité (VII. Le parjure et le pardon)»

    2000-01, «Questions de responsabilité (VIII. La peine de mort)»

    2001-02, «Questions de responsabilité (IX. La bête et le souverain)»

    2002-03, «Questions de responsabilité (X. La bête et le souverain)».

    In effetti, il titolo del seminario dell’anno 1998-1999 viene riutilizzato per l’anno 1999-2000, benché argomento e contenuto siano cambiati. Dimenticanza o errore amministrativo? Comunque la numerazione è in ogni caso errata, perché il numero «VII» è apposto dove andrebbe messo il numero «VIII», cosa che, in seguito, falsa la numerazione degli anni seguenti.

    ⁴E d’altra parte, sia nelle presentazioni che Jacques Derrida ne fece per l’EHESS o per l’Università di Irvine, sia nel dattiloscritto informatico e stampato, a partire dal quale noi abbiamo lavorato, il titolo che egli dava era vario: «Pardon/Parjure. Peine de mort», «Séminaire Pardon/Parjure. La peine de mort», «Death Penalty»…

    Annuaire de l’EHESS (1999-2000). Comptes rendus des cours et conférences, Éditions de l’EHESS, Paris 2000, pp. 599-600.

    ⁶Un esemplare della descrizione di questo seminario in inglese è archiviata con la versione stampata del seminario di cui Derrida si è servito davanti all’uditorio anglofono (qui tradotto in francese). Contiene anche una bibliografia destinata agli studenti americani. Non la riportiamo qui di seguito, dal momento che i riferimenti in essa contenuti sono riportati in diverse note a piè di pagina del presente volume.

    ⁷In questo primo anno due lezioni furono costituite contemporaneamente dall’esposizione di uno studente e dall’insegnamento redatto da Derrida. Si tratta della quinta lezione, del 26 gennaio 2000, e dell’undicesima, del 22 marzo 2000. Non abbiamo trascritto né queste esposizioni né le discussioni che le seguirono.

    ⁸Cfr. infra, «Prima lezione. 8 dicembre 1999 (seguito)», p. 49, nota 1.

    ⁹«Peine de mort et souveraineté (pour une déconstruction de l’onto-théologie politique», in Divinatio, 15, Sofia 2002, pp. 13-38.

    ¹⁰J. Derrida, Le Toucher, Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000, tr. it. di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007.

    ¹¹Mumia Abu-Jamal, En direct du couloir de la mort, tr. fr. di J. Cohen, La Découverte, Paris 1996, con prefazione di J. Derrida, pp. 7-13.

    ¹²J. Derrida, E. Roudinesco, De quoi demain… Dialogue, Galilée-Fayard, Paris 2001, tr. it. di G. Brivio, Quale domani?, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

    ¹³Per quanto riguarda la presentazione dei diversi interventi di Jacques Derrida durante il suo viaggio in Cina, si rinvia a Ning Zhang, «Jacques Derrida’s First Visit to China: A Summary of His Lectures and Seminars», in Dao. A Journal of Comparative Philosophy, vol. 2, n. 1, dicembre 2002, p. 145.

    PRIMA LEZIONE

    8 dicembre 1999

    Che dire a qualcuno che venisse a dirvi all’alba: «Sapete, la pena di morte è il proprio dell’uomo»?

    (Lungo silenzio)

    Io sarei subito tentato di rispondergli – troppo velocemente: sì, lei ha ragione. A meno che non sia il proprio di Dio – o che non sia la stessa cosa. Poi, resistendo alla tentazione in virtù di un’altra tentazione – o in virtù di una contro-tentazione, sarei allora tentato, riflettendoci, di non rispondere troppo velocemente e di farlo attendere – giorni e notti. Fino all’alba.

    (Lungo silenzio)

    È l’alba, adesso, siamo all’alba. Nella prima luce dell’alba. Nel chiarore dell’alba (alba). Prima di cominciare, cominciamo. Cominceremmo.

    Cominceremmo facendo finta di cominciare prima del cominciamento. Come se già volessimo ritardare la fine, perché quest’anno, con la pena di morte, è proprio della fine che stiamo per parlare. Proprio di una fine ma di una fine decisa con un verdetto, di una fine decretata con una sentenza giudiziaria, di una fine decisa di cui decisamente stiamo per parlare senza fine, ma di una fine decisa dall’altro, cosa questa che non è necessariamente, a priori, il caso di ogni fine e di ogni morte, almeno supponendo, stavolta per quanto riguarda la decisione, l’essenza della decisione, che questa venga mai presa diversamente che dall’altro. E supponendo che la decisione di cui ci apprestiamo a parlare, la pena di morte, non sia l’archetipo stesso della decisione. Supponendo dunque che chiunque possa mai prendere una decisione che sia la sua, per sé, la sua propria. A questo riguardo ho manifestato spesso i miei dubbi. La pena di morte come decisione sovrana di un potere forse ci ricorda innanzitutto che una decisione sovrana è sempre dell’altro. Venuta dall’altro.

    Faremmo dunque finta di cominciare non dopo la fine, dopo la fine della pena di morte, che oggi è abolita solo in un numero limitato di Stati-nazione al mondo, un numero crescente ma ancora limitato (una minoranza, dieci anni fa – 58 paesi –, oggi una piccola maggioranza), ma di cominciare prima del cominciamento, alla vigilia del cominciamento, all’alba, al primo mattino, come se volessi cominciare, in modo un po’ patetico (ma chi oserebbe fare un seminario non patetico sulla pena di morte?) [come se preferissi cominciare, in modo deliberatamente patetico] per condurvi o per trattenervi con me, prima di cominciare, all’alba, nel primo mattino delle prigioni, di tutti i luoghi di detenzione del mondo dove dei condannati a morte attendono che qualcuno venga ad annunciare loro una grazia sovrana (grazia di cui abbiamo parlato spesso lo scorso anno riguardo al perdono) o a portarli via, con la presenza quasi sempre di un prete (e vi insisto, oggi parlerò soprattutto della teologia politica e della religione della pena di morte, della religione sempre presente alla pena di morte, della pena di morte come religione) [o a portarli via, dunque] verso uno dei numerosi dispositivi di messa a morte legale che gli uomini hanno ingegnosamente inventato, lungo tutta la storia dell’umanità, come storia delle tecniche, delle tecniche poliziesche, delle tecniche di guerra, delle tecniche militari, ma anche delle tecniche medicali, chirurgiche, anestetiche, per amministrare la pena cosiddetta capitale. Con la crudeltà che conoscete, e una crudeltà, sempre la stessa, della quale sapete anche che può andare dalla più grande brutalità dell’abbattimento, alle raffinatezze più perverse, dal supplizio più sanguinario o bruciante, al supplizio più denegato, più mascherato, più invisibile, più sottilmente macchinalizzato, dal momento che l’invisibilità o la denegazione non sono altro mai, e in alcun caso, che un pezzo di marchingegno teatrale, spettacolare, perfino voyeuristico. Per definizione, per essenza, per vocazione, non ci sarà mai stata invisibilità per una messa a morte legale, per una pena di morte applicata, per principio, per questo verdetto non c’è mai stata una esecuzione segreta o invisibile. Sono richiesti lo spettacolo e lo spettatore. La città, la polis, la politica tutta intera, la con-cittadinanza – di persona o mediata attraverso la sua rappresentazione – deve¹ assistere e attestare, deve testimoniare pubblicamente che è stata data o inflitta la morte, deve veder morire il condannato.

    Lo Stato deve e vuole veder morire il condannato.

    Ed è d’altronde proprio in questo momento, nell’istante in cui il popolo divenuto Stato, o lo Stato-nazione, vede morire il condannato che vede meglio se stesso. Vede meglio se stesso, vale a dire che prende atto e coscienza della sua assoluta sovranità e che si vede nel senso in cui, in francese, si vede può voler dire che si lascia vedere e che si dà a vedere². Mai lo Stato, o il popolo, o la comunità o la nazione in forma di Stato, mai la sovranità dello Stato è più visibile nel suo raduno fondatore di quando si fa guardante e guardona dell’esecuzione di un verdetto senza appello e senza grazia, di una esecuzione. Perché tale testimonianza – lo Stato testimone dell’esecuzione e testimone di se stesso, della propria sovranità, della propria onnipotenza –, tale testimonianza deve essere visiva: oculare. Non avviene mai senza una scena e senza una luce, quella naturale del giorno o quella artificiale. Nel corso della storia talvolta si è potuta aggiungere la luce del fuoco. Non sempre e non solo dei colpi di arma da fuoco, del condannato fucilato da un plotone di esecuzione o da una sola pallottola nella nuca, ma talvolta l’incendio del rogo.

    Ancora non abbiamo cominciato, ancora niente è cominciato. Siamo al primo mattino. È l’alba, l’alba di non si sa che, la vita o la morte, la grazia o l’esecuzione, l’abolizione o la perpetuazione della pena di morte, perfino la perpetrazione della pena di morte. Qualunque cosa possiamo pensare o dire nel corso di questo seminario, si deve pensare, dovremo pensare continuamente, tornandovi con il cuore e l’immaginazione, perfino con il corpo, al primo mattino di ciò che si chiama una esecuzione. All’alba dell’ultimo giorno.

    Dunque è l’alba. Il giorno breve, il più breve. Prima della fine, anche prima di cominciare, prima dei tre colpi, gli attori e i luoghi sono pronti, ci aspettano per cominciare.

    Come lo scorso anno avevamo recitato senza recitare, avevamo fatto finta di giocare a mettere in scena, così teatralmente ma anche il meno teatralmente possibile, [a mettere in scena] quattro uomini, quattro uomini di Stato o pensatori dello Stato, uomini di Stato o di Chiesa, pensatori dello Stato o della Chiesa o ambedue contemporaneamente (Hegel, Mandela, Tutu, Clinton: quattro protestanti della modernità – nessuna donna, nessun cattolico, nessun ortodosso, ebreo o musulmano)³, ebbene, quest’anno prima di cominciare, e poiché la questione del teatro dovrà catturare la nostra attenzione più ancora e diversamente che sulla scena senza scena del perdono (la storia dei rapporti tra la pena di morte e lo spettacolo, la messa in scena, il voyeurismo essenziale che si lega a una messa a morte che deve essere pubblica in quanto legale, questa storia del teatro della pena capitale meriterebbe un seminario tutto suo e ce ne interesseremo molto, anche se non lo facciamo mai abbastanza), ebbene ancora quest’anno comincerò, prima di cominciare, con l’evocare, col convocare o resuscitare alcune figure, dei grandi personaggi, dei grandi «caratteri» che ci accompagneranno incessantemente – sia che li nominiamo, li vediamo o meno. Saranno ancora quattro, non ci saranno protestanti fra loro, essi, esse saranno ancora quattro, perché questa volta verrà una donna a ricordare una delle differenze sessuali in questa verità della pena di morte. (Ricordate la questione che ponevamo o citavamo l’anno scorso a partire dal Sud Africa di Antjie Krog, l’autore di Country of My Skull, e delle donne vittime che testimoniano o che non possono testimoniare davanti alla Commission Vérité et Réconciliation⁴: «Does truth have a gender?» o ancora, è un titolo del capitolo: «Truth is a Woman»⁵).

    Quali saranno quest’anno questi «personaggi» maschi e/o femmine? Dei condannati a morte, certo, o degli accompagnatori, un coro di grandi condannati a morte della nostra storia, della storia dell’Occidente greco-abramitico, dei condannati a morte che hanno illustrato, perfino fondato, attraverso la scena, attraverso la visibilità e il tempo, attraverso la durata della loro messa a morte [che, dunque, hanno illustrato] il significato propriamente teologico-politico di quanto si chiama la «pena di morte».

    Ogni volta uno Stato, associato a un potere clericale o religioso, in forme da studiare, avrà pronunciato verdetti e giustiziato grandi condannati a morte che furono dunque (eccone quattro, ancora), che furono⁶ dunque (li nominerò soltanto, uno dopo l’altro, a tempo opportuno) innanzitutto Socrate, sicuramente, il primo dei quattro. Socrate, voi lo sapete ma ci ritorneremo, a cui fu imputato di aver corrotto i giovani non credendo agli dei della città e sostituendo ad essi nuovi dei, come se avesse avuto il progetto di fondare un’altra religione e di pensare un uomo nuovo. Rileggete l’Apologia di Socrate e il Critone, vi troverete che un’accusa essenzialmente religiosa è presa in carico da un potere di Stato, un potere della polis, una politica, una istanza giuridico-politica, ciò che si potrebbe chiamare, con un terribile equivoco, un potere sovrano come potere esecutivo. L’Apologia lo dice espressamente (24bc): la kategoria, l’accusa lanciata contro Socrate, è di aver avuto il torto, di essere stato colpevole, di aver commesso l’ingiustizia (adikein) di corrompere i giovani e di (o per) aver smesso di onorare (nomizein) gli dei (theous) della città o gli dei onorati dalla città – e soprattutto di averli sostituiti non semplicemente con nuovi dei, come spesso dicono le traduzioni, ma con dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina); e daimonia, sono senza dubbio degli dei, delle divinità, ma anche a volte dei fantasmi [revenants], come in Omero, degli dei inferiori o dei fantasmi [revenants], le anime dei morti; e il testo distingue bene gli dei e i demoni: Socrate non ha onorato gli dei (theous) della città, e ha introdotto dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina). L’accusa dunque, nel contenuto, è religiosa, propriamente teologica, addirittura esegetica. Socrate è accusato di eresia o di blasfemia, di sacrilegio o di eterodossia: si sbaglia sugli dei, si inganna o inganna gli altri, soprattutto i giovani, riguardo agli dei; ha confuso gli dei o ha generato confusione e disprezzo sugli dei della città. Ma questa accusa, questo capo di accusa, questa kategoria essenzialmente religiosa, è presa in carico, come sempre, e noi ci interessiamo regolarmente a questa ricorrente articolazione, sempre ricorrente, da un potere di Stato, in quanto sovrano, un potere di Stato la cui sovranità è essa stessa essenzialmente fantasmatico-teologica e, come ogni sovranità, si marca nel diritto di vita e di morte sul cittadino, nel potere di decidere, di fare la legge, di giudicare e di eseguire/giustiziare l’ordine operando l’esecuzione del condannato. Anche negli Stati-nazione che hanno abolito la pena di morte, abolizione della pena di morte che non equivale affatto all’abolizione del diritto di uccidere, ad esempio in guerra, ebbene, i pochi Stati della modernità democratica che hanno abolito la pena di morte, conservano un diritto sovrano sulla vita dei cittadini che possono mandare in guerra per uccidere o per farsi uccidere in uno spazio radicalmente estraneo allo spazio della legalità interna del diritto civile in cui la pena di morte può essere mantenuta o abolita⁷.

    Per tornare un istante verso Socrate e Platone, e verso il carattere fondamentalmente religioso del capo di accusa, della denuncia, dell’incriminazione, della criminalizzazione, dell’incolpazione accettata dallo Stato, vi rimando alle Leggi di Platone, che giustifica la pena di morte in caso di empietà (asebeia), di empietà ostinata, di recidiva nell’empietà. Vi lascio leggere attentamente queste lunghe e appassionanti pagine delle Leggi (Libro X, 907d-909d). La città, la polis, deve annunciare a tutti che gli empi devono riscattarsi e convertirsi a una vita devota e che, se non lo fanno, se manifestano empietà (asebeia) con parole o atti, il primo testimone che ne venga a conoscenza dovrà denunciarli al magistrato che li citerà innanzi al tribunale competente. Segue poi la descrizione dei tipi di empietà (tra cui, lo sottolineo per l’argomento del nostro seminario, il non rispettare i giuramenti [orkous]) e poi la tassonomia dei tre tipi di prigione o di casa di correzione; quindi ve lo lascio leggere da soli. Ma voglio solo sottolineare, in questo lungo e ricco passo, due o tre indizi.

    1. Primo indizio. Per rimanere nel tempo dell’alba, rilevo che nella descrizione delle punizioni si dice che il prigioniero non riceverà alcuna visita da parte dei cittadini, eccetto che dai membri di un certo Consiglio notturno. Dunque, se volete sapere che cos’è questo Consiglio notturno (che intendo richiamare, quindi, a causa dell’alba e della religione, e presto dell’alba delle religioni, se non del crepuscolo degli dei), andate a vedere il luogo dove viene definito da Platone per la prima volta il citato Consiglio notturno, vale a dire non nelle Leggi che ho appena citato (Libro X, 907-909) e in cui il Consiglio notturno è certamente menzionato, solo menzionato, ma più oltre, nelle Leggi (Libro XII, 951d-e), dove l’Ateniese descrive il Consiglio notturno, questo syllogos della notte come un luogo di riunione, un’assemblea composita di giovani e vecchi ma che, sto citando, «si radunerà ogni giorno obbligatoriamente dall’alba all’aurora»⁸ (XII, 951 d 6). Il syllogos, non è una sinagoga (spiegare)⁹ né un sinedrio. Questo Consiglio supremo della nazione, che era anche una Alta Corte di Giustizia (quella che condannò Gesù e di cui riparleremo), ma¹⁰ un syllogos (commentare) comprenderà dei preti e, tra i preti (ton iereon; è letteralmente una gerarchia, un ordine o un’autorità sacrale di preti che comandano), quelli che avranno ricevuto i più alti riconoscimenti e poi, tra i guardiani della legge (ton nomophylakon), i dieci più anziani, poi infine ogni ministro dell’Educazione, chiunque ha come compito l’educazione della gioventù (tes paideias pases epimeletes), che sia in carica o che lo sia stato in passato. (Immaginate l’equivalente di questo Consiglio notturno in Francia oggi – Lustiger, il Rabbino capo, il gran Mufti, Allègre, i suoi predecessori e compagnia bella)¹¹. Dunque questo grande syllogos, questo grande Consiglio pedagogico-confessionale, si riunisce all’alba. Ed è il solo abilitato a rendere visita al prigioniero. Primo indizio.

    2. Secondo indizio. Il Consiglio, il syllogos, riceve dei visitatori, dei consulenti, degli osservatori, degli esperti di ritorno dall’estero, dove hanno studiato i costumi e le leggi di altri paesi. Ebbene, se uno di essi torna vizioso o corrotto, se continua a sfoggiare falsa saggezza, a riferirsi a modelli stranieri sconsideratamente e se non obbedisce al magistrato, «sia messo a morte (tethnato) se sia condannato in tribunale per ingerenza indebita nell’educazione e nelle leggi (peri ten paideian kai tous nomous»¹². Dal momento in cui la corte di giustizia ha provato che interviene in modo errato, in nome dello straniero, nella formazione dei giovani e nella formazione delle leggi, è punito con la morte. Ecco, questo per quanto riguarda la definizione e per la scena teatrale del Consiglio notturno che può decidere della vita e della morte ed è il solo a poter rendere visita ai prigionieri. Se, ora, dal Libro XII delle Leggi in cui sono così definiti lo statuto, la composizione e le competenze del Consiglio dell’alba, torniamo al Libro X da cui ero partito, vi si trova la legittimazione della pena di morte nell’enumerazione di tutte le pene, di tutti i modi e i luoghi di incarcerazione. Quando qualcuno, ad esempio, ha detto parole indecenti nei riguardi degli dei, dei sacrifici o dei giuramenti, o incoraggiato la credenza in dei corruttibili, e dunque si è reso colpevole di un crimine di empietà, di irreligiosità, questi viene rinchiuso in una casa di correzione, sophronisterion, in un sofronisterio, letteralmente in un luogo di rinsavimento. Casa di correzione o di risanamento come luogo di rinsavimento, luogo dove si pensa di acquisire o recuperare la sophrosyne, la saggezza, la saggezza nel senso più preciso di moderazione, di temperanza, di controllo di sé, di sanità dello spirito o del cuore. Si tratta di essere sorvegliato per ritornare «saggio», di quella saggezza (sophrosyne) che ha proprio il senso che si dà in Francia alla parola saggio, al bambino saggio, non turbolento, disciplinato. Il sofronisterio è un’istituzione disciplinare. Vi si è rinchiusi almeno per cinque anni. Qui, durante questo tempo, nessun cittadino può rendere visita al colpevole, ad eccezione chiaramente dei membri del Consiglio notturno (tou nykterinou syllogou) che verranno a vederlo per riprenderlo e – ecco il punto più importante – salvargli l’anima, per la salvezza della sua anima (tes psykes soteria omilountes). Tale funzione soteriologica è essenziale: bisogna anzitutto tentare di emendare, di salvare, di riabilitare l’anima del condannato e questa missione soteriologica, questa opera di salvezza o di salvazione, è affidata, assegnata, per statuto al Consiglio notturno, solo ad essi, che hanno il diritto di visita, nel sofronisterio, nella casa di correzione, nell’istituzione di rinsavimento. Se ora (ed ecco che già ritroviamo il nostro tema del perdono e del pentimento), se, dopo il tentativo soteriologico, il condannato si salva da solo, se si pente, se giunge a resipiscenza e ritorna saggio, se si riabilita, allora avrà il diritto di vivere tra gente virtuosa; altrimenti, se incorre una seconda volta nella medesima condanna, se commette una recidiva e non si pente, sarà punito con la morte (thanato zemioustho). Se non si pente e non si emenda è perché è imperdonabile e la sanzione dell’imperdonabile, dell’inespiabile, è la pena di morte. Espiazione dell’inespiabile. Ma ciò che io tengo già a sottolineare, dal momento che questo diventerà un tema organizzatore della nostra riflessione, è che la pena di morte, quindi la condanna legale e legittima, si distingue dall’omicidio o dalla messa a morte al di fuori della legge, in qualche modo dall’assassinio, per il fatto che tratta il condannato come soggetto di diritto, come soggetto della legge, come un essere umano, con la dignità che questo richiede. Qui, in una logica che ritroveremo fino in Kant e molti altri, ma in Kant per eccellenza, l’accesso alla pena di morte è un accesso alla dignità della ragione umana e alla dignità di un uomo che, a differenza delle bestie, è un soggetto della legge che si innalza al di sopra della vita naturale. Per questo, in questa logica, nel logos di questo syllogos, la pena di morte marca l’accesso al proprio dell’uomo e alla dignità della ragione o del logos e del nomos umano. Tutto questo, compresa la morte, testimonierebbe la razionalità delle leggi (logos e nomos) e non della ferocia naturale o bestiale, a tal punto che, anche se è privato della vita o del diritto alla vita, il condannato a morte ha diritto al diritto e dunque, in certo modo, all’onore e alla sepoltura. Perché c’è di peggio della condanna a morte, in questa logica, in questa oscura sillogistica, nel sillogismo di questo Consiglio o di questo syllogos notturno. È il caso dei colpevoli che sono come bestie, che non sono più degli uomini e non hanno nemmeno più il diritto alla condanna a morte, nessun diritto alla sepoltura e nessun diritto alle visite del Consiglio notturno. Qui è meglio che mi accontenti di leggere un passo straordinario delle Leggi (Libro X, 909b-d). Segue immediatamente il riferimento alla pena di morte, pena meritata da quelli che non si pentono, pena destinata, assegnata a chi non si riabilita, pena riservata a chi quindi permane sia incorreggibile che imperdonabile. Nel passo che sto per leggere scoprirete che c’è di peggio della pena capitale: c’è un castigo ancor più terrificante, in quanto più inumano, più anumano della pena di morte, che resta ancora, la pena di morte, cosa della ragione e della legge, cosa degna della ragione e della legge (logos e nomos). Il criterio di distinzione tra la pena di morte e ciò che sarebbe ancor peggiore della pena di morte, la linea di demarcazione tra il male e il peggio, non si determinano¹³ in ciò che precede la morte e nemmeno nell’istante della morte, non nel presente dell’avvenimento della morte stessa, non è nella morte, è nel cadavere, è in ciò che segue la morte e accade al cadavere. Perché qui è il diritto alla sepoltura che marca la differenza tra l’uomo e la bestia, tra l’uomo condannato a morte che ha ancora diritto alla sepoltura, all’onore degli uomini e quello che non merita nemmeno più il nome di uomo e che dunque non merita nemmeno la pena di morte. Sottolineo molto questo punto perché l’idea che la pena di morte è un segno di accesso alla dignità dell’uomo, un proprio dell’uomo che, nel diritto, deve sapersi elevare al di sopra della vita (cosa che non saprebbero fare le bestie), questa idea della pena di morte come condizione della legge umana e della dignità umana, si direbbe quasi della nobiltà dell’uomo, la ritroveremo più tardi, in particolare nell’argomentazione di Kant, quando giustifica la pena di morte e, meglio, quando vi vede perfino la giustificazione ultima dello jus, della giustizia e del diritto. Non esisterebbe alcun jus umano, alcun diritto e alcuna giustizia in un sistema che escludesse la pena di morte (leggere Leggi X, 909b-d):

    Premessa noi questa distinzione di queste cose, il giudice collocherà nel sophronisterion coloro che sono divenuti tali per stoltezza, ma non per malvagità del sentimento e del costume e ve li collochi, secondo la legge, per non meno di cinque anni; durante questo tempo nessun altro dei cittadini li frequenti, salvo i membri del Consiglio notturno, che si intratterranno con loro per ammonirli e salvare le loro anime. Quando sia passato per loro il periodo del carcere, se qualcuno di loro apparirà essere saggio, vada ad abitare coi saggi, ma in caso contrario, se in un modo siffatto sia giudicato colpevole ancora, sia condannato a morte. Tutti gli uomini che divengono selvaggi come bestie, oltre al non credere negli dei o al ritenerli negligenti o corruttibili, con il loro disprezzo degli uomini si impadroniscono dell’anima di molti di quelli che vivono e si vantano di saper evocare i morti e promettono di persuadere gli dei allettandoli ciarlatanescamente con sacrifici, preghiere e scongiuri, e intraprendono a scardinare dalle fondamenta individui, famiglie intere e stati per avidità di ricchezza; per quello di questi uomini che risulti colpevole in giudizio stabilisca il tribunale, come prezzo della pena, che sia rinchiuso nel carcere che sta nel mezzo del territorio, secondo la legge, e mai nessun uomo libero avvicini questi carcerati, e il vitto stabilito dai custodi delle leggi ricevano dalle mani dei servi. Alla sua morte, sia gettato insepolto fuori dai confini dello stato; e se un uomo libero collaborerà a seppellirlo sia perseguito da chi vuole, per empietà. Se uno di questi empi lascia figli adatti allo stato, i magistrati preposti agli orfani prendano cura anche di questi come fossero orfani, li prendano in cura in modo per nulla inferiore agli altri, dal giorno in cui il padre loro è stato riconosciuto in giudizio colpevole di empietà¹⁴.

    (Riprendere la lettura qui)

    Scusatemi se richiamo adesso dall’inizio, in occasione dell’esempio di Socrate e una volta per tutte, qualche solida evidenza, precisamente le due più grosse e, almeno in apparenza, le più grossolane tra esse. Queste due evidenze mi occuperanno un certo tempo, ma non dimenticate che è in occasione e in margine al caso Socrate, il primo dei nostri quattro personaggi esemplari o prototipici, che faremo questa lunga deviazione – dopo la quale lasceremo venire o ritornare verso di noi i tre altri esemplari condannati a morte.

    Quali sono le

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