Breve storia di Bologna
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Bologna è una città che ha da sempre un ruolo di primo piano nella storia politica e culturale europea. È stata la prima ad abolire la schiavitù, qui è stata fondata la prima università dell’Occidente, e sempre qui fu incoronato imperatore Carlo V, colui che non vedeva mai tramontare il sole sui suoi domini.
In questo libro, Luca Baccolini ripercorre le tappe della lunghissima e gloriosa vita della città dei portici. Dagli antichi insediamenti villanoviani nella zona all’arrivo dei romani, dal dominio papale alle guerre mondiali e oltre, fino alle avanguardie degli anni Settanta e alla terribile ferita della strage del 2 agosto 1980.
In queste pagine, il lettore potrà immergersi nei meandri e nelle pieghe di una città dove si è fatta la Storia, che nel corso dei secoli ha attirato artisti e potenti da ogni parte del mondo. Un racconto affascinante e avvincente, da gustarsi come un romanzo storico e ricco anche di curiosità, aneddoti e leggende bolognesi.
Dagli antichi etruschi ai giorni nostri: secoli e secoli di storie sotto le torri
Tra le storie:
La “venere” paleolitica ritrovata in una stalla
La città delle palafitte
Quando Nerone ricostruì Bologna
La lotta per il primato con Ravenna
Matilde, la contessa che sfidò l’imperatore
I miracoli di san Francesco
L’architetto che spostava le torri
Gregorio XIII, il papa del calendario
La grande peste del 1630
Bologna, capitale della musica del ‘700
Zambeccari, il bolognese che volle imitare Icaro
Zamboni, la rivoluzione come ragione di vita
Il caso Mortara, l’ultimo scandalo della Chiesa
Bologna sotto le bombe
Il bolognese che salì sul K2
Luca Baccolini
È giornalista per «Repubblica» dal 2010 e redattore della rivista musicale «Classic Voice». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, Storie segrete della storia di Bologna, I luoghi e i racconti più strani di Bologna, Bologna che nessuno conosce, Le incredibili curiosità di Bologna, Bologna. Capitani e bandiere e Breve storia di Bologna.
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Anteprima del libro
Breve storia di Bologna - Luca Baccolini
Indice
BOLOGNA PRIMA DI CRISTO
1. La grotta delle meraviglie
2. Una Venere nella stalla
3. Vita sospesa sui pali
4. Un tesoro nel giardino
5. La città dei morti
6. Dai villanoviani agli etruschi
7. Felsina
8. Il paradiso degli archeologi
9. Un carnevale disastroso
10. Gli Etruschi fuori porta
11. Arrivano i Galli
12. È la volta dei Romani
13. D’ora in avanti chiamatela Bononia
14. Vita quotidiana al tempo dei romani
15. Il terribile incendio
16. La via Aemilia
L’ANTICHITÀ
17. I primi secoli cristiani
18. Amatissimo Petronio
19. Bologna, provincia di Ravenna
20. I Longobardi
21. Un nuovo millennio
22. Un papa quasi bolognese
23. Nascita di un comune
24. Matilde
25. Nello scacchiere europeo
26. Bologna la dotta
27. Il potere delle torri
28. Federico Barbarossa
L’EPOCA D’ORO
29. Libertà
30. Il figlio dell’imperatore ai ceppi
31. Francesco e Domenico, due volti, due chiese
32. Il libro della libertà
33. Guerra fratricida
34. Un Trecento di sangue
35. La secchia della discordia
36. Il papa in città
37. Taddeo, il primo vero signore
38. Bologna vendesi
39. La ripresa
40. L’architetto del mondo
41. I primi Bentivoglio
42. Poteri corrotti
43. Delitti di Stato
44. Sante il saggio
45. Prove di signoria
46. Oro e diplomazia
47. La caduta
I SECOLI DELLA CHIESA
48. Gli imperatori a congresso
49. Bandi e divieti
50. Il papa del calendario
51. Bolognesi nel mondo
52. Un secolo di sangue
53. La peste
54. L’epoca dei teatri e dei castrati
55. Bologna in tazza
56. Il papa buono
57. L’epoca d’oro delle arti
58. Il Teatro della città
59. Ladri e gentiluomini
60. Rivoluzionari della domenica
61. Arriva Napoleone
62. Cimiteri e teatri
63. L’imperatore
64. Un Robin Hood bolognese
65. L’uomo volante
66. Venti di rivoluzione
67. La Marcia di Radetzky
68. Il papa eterno
69. 8 agosto
70. Mal d’Austria
71. Arriva il colera
72. Il plebiscito
73. Bologna capitale (della musica)
74. L’ultimo scandalo della Chiesa
IL NOVECENTO
75. Mala-Bologna
76. Abbasso le mura
77. Lo sport per tutti
78. La svolta socialista
79. La Grande Guerra
80. La culla del fascismo
81. Bologna in camicia nera
82. Sotto le bombe
83. 21 aprile
84. Il sindaco della ricostruzione
85. Il boom
86. Il sangue dei giusti
saggistica_fmt.png817
Dello stesso autore:
Le incredibili curiosità di Bologna
Bologna che nessuno conosce
Bologna. Capitani e bandiere
I luoghi e i racconti più strani di Bologna
La storia del grande Bologna in 501 domande e risposte
Il romanzo del grande Bologna
Storie segrete della storia di Bologna
1001 storie e curiosità sul grande Bologna che dovresti conoscere
Prima edizione ebook: settembre 2022
© 2022 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-6047-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Luca Baccolini
Breve storia di Bologna
Dall’antichità ai giorni nostri,
eventi, personaggi e racconti
della città dei portici
OMINO.jpgNewton Compton editori
INTRODUZIONE
A differenza di molte altre città, Bologna non deve la sua nascita ai Romani, né la sua grandezza a una signoria. Persino la sua ricchezza non è attribuibile a un solo capitano d’industria, né la sua fama a un’unica disciplina. Bologna è la somma di irripetibili coincidenze e straordinarie stratificazioni.
In questo libro, che segue un rassicurante criterio cronologico con qualche licenza di salto temporale, si prova a ordinare i grandi fatti, i personaggi e le storie che hanno trasformato un insediamento di palafitte poggiate su un immenso acquitrino nella prima città universitaria d’Europa. Per quanto l’idea di camminare su una sterminata distesa di detriti compressi non assecondi il nostro istinto poetico, quel triangolo di terra chiamato Emilia-Romagna esiste proprio grazie al paziente depositato dei fiumi che dall’arco alpino e appenninico si dirigevano verso valle. Non ci fossero stati loro, questa terra non avrebbe avuto possibilità di mettere radici, diventando tutto ciò che l’ha resa famosa: la Motor Valley, il distretto della ceramica e dei tessuti, la filiera della meccanica e degli insaccati, l’industria della lirica con un teatro per ciascun capoluogo (a volte anche per ogni municipio). Miliardi di tonnellate di sassolini, pietruzze, tronchi, carcasse e fanghiglia, stratificati nel tempo, ci hanno permesso di sollevarci quel tanto che basta per non restare a mollo. Condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, per porre le basi di una civiltà votata alla permanenza e al bello.
Questa genesi non è stata un fenomeno regolare come piacerebbe credere, né in epoca preistorica, né in epoca moderna. L’assenza cronica di una sovranità locale ha sempre esposto Bologna agli imprevedibili sviluppi della storia. Ma, al tempo stesso, le ha consentito di mettersi al riparo da cadute rovinose, anche grazie al naturale istinto alla mediazione dei suoi abitanti, che hanno sempre fatto apparire Bologna come terra d’incontro e non di conquista. Ed è proprio la somma di tali incontri che questo libro intende raccontare, partendo dalla lontanissima preistoria per arrivare ai confini del terzo millennio.
BOLOGNA PRIMA DI CRISTO
Gita di gruppo alle caverne del Farneto in una foto del 1893.
1. La grotta delle meraviglie
Per andare alle origini della storia di Bologna non serve la macchina del tempo: bastano un caschetto, una torcia, scarpe comode e pochissimi euro. Occorre però lasciarsi alle spalle il caos del centro cittadino e spostarsi in località Farneto, a San Lazzaro di Savena, all’interno del Parco dei Gessi Bolognesi. Il paesaggio è certamente più addomesticato rispetto a quello che vedevano i nostri avi – circa 200 generazioni fa – ma almeno non si correrà il rischio di imbattersi in strani animali dalle intenzioni poco amichevoli. Il verde della vegetazione è il colore dominante che si fissa nel nostro sguardo, oggi come allora.
Utensili in terracotta, recipienti decorati a zig-zag, tazze, scodelle, asce e frecce in bronzo, pietre adatte a un focolare: è questo ciò che si presentò agli occhi increduli del giovane autodidatta Francesco Orsoni quando nel 1871, provvisto solo di piccozza e di qualche torcia per rischiarare l’oscurità, scoprì per primo la Grotta del Farneto. Si trattava di reperti umani attribuibili all’Età del Bronzo, compresi fra 3500 e 1200 anni prima di Cristo. Niente, dopo questa scoperta, sarebbe stato più come prima. Affondano qui, dove Appennino emiliano e pianura padana si intrecciano in un unico paesaggio, le memorie neolitiche e delle epoche successive, tracce di età preistorica che interessano l’area collinare fino alla via Emilia come la si conosce ai nostri giorni, trafficata e frenetica.
È una storia che procede per tentativi falliti e per successi inaspettati, attraverso campagne di scavi e ritrovamenti in tutto il territorio bolognese. Un’epopea che segna tutta la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Si deve alla passione e alla tenacia di uomini come il geologo Luigi Fantini, fondatore nel 1932 del Gruppo Speleologico Bolognese, la scoperta di sepolture riconducibili all’Età del Rame: resti di scheletri umani e vasi ossuari per la cremazione, ma anche zanne di cinghiale, collane di conchiglie e oggetti in selce che ci informano sulla vita quotidiana di quel tempo. La Grotta del Farneto, riaperta nel 2008, è oggi meta di visite guidate speleologiche adatte anche ai più piccoli, mentre per provare a rivivere lo stesso stupore che provarono Orsoni e Fantini entrando in quell’anfratto buio e inospitale bisognerebbe mettere in preventivo almeno tre visite: il Museo Civico Archeologico di Bologna, il Museo di Preistoria Luigi Donini
di San Lazzaro di Savena e il Museo Archeologico Paleoambientale di Budrio, dove sono custoditi alcuni di questi oggetti rimasti incredibilmente intatti nonostante il lavorio dei secoli. È in questi spazi, grazie alle scoperte di quei grandi pionieri bolognesi antesignani della moderna Paleontologia, che è possibile vedere significativi spaccati della vita quotidiana locale dei nostri antenati, dalla preistoria fino all’età romana. Ma dire Roma
, parlando della storia di Bologna, significa procedere un po’ troppo in fretta.
2. Una Venere nella stalla
Le origini di Bologna si perdono in realtà nella nebbia imperscrutabile di tempi lontani, senza orologi, senza calendari, senza un prima e un dopo univocamente identificabile. Infinite albe e tramonti uguali tra loro, almeno in apparenza.
Tra le attuali porta D’Azeglio e porta Saragozza esisteva un insediamento abitato da una popolazione che sapeva padroneggiare il bronzo: forse è questa la traccia più primitiva di civiltà in territorio bolognese. Ciò non esclude che altre comunità, non meno interessanti e più arcaiche, abbiano eletto queste terre come loro dimora permanente.
I tempi antichi sono di solito associati all’oscurità. Non a caso, quando si comincia un lungo racconto, si esordisce con un misterioso «Nella notte dei tempi». Ma la notte riguarda solo la nostra prospettiva di viandanti a ritroso sull’incerto sentiero della storia: alla loro epoca, gli avi degli Etruschi ci vedevano benissimo. Lo provano i numerosi utensili ritrovati in territorio imolese: selci appuntite, sassi amigdaloidi scheggiati, asce primordiali con un accenno di impugnatura, punte e raschiatoi per separare le carni dalle pelli. Con una differenza: sul lato ovest i ritrovamenti si ricollegherebbero a popolazioni legate ai liguri, che erano arrivati fino al territorio reggiano, ai colli Euganei e alla valle del Tanaro; a est, dunque verso la zona dell’imolese, s’incanalano ritrovamenti simili al versante italiano che scorre pianeggiante fino al Gargano. Dalla commistione di questi utensili, e soprattutto dei loro legittimi proprietari, in un remotissimo tempo paleolitico si staccarono tribù che diedero origine al germe della futura città di Bologna, un prototipo di comunità stanziale che all’epoca era solo la somma di agglomerati residenziali, isole antropiche in una sterminata distesa di verde. Sorvolando di notte, si sarebbe faticato a riconoscere quelle macchie di umanità immerse nella vegetazione. Solo il fuoco, sempre acceso nelle ore notturne per tenere a distanza gli animali più importuni, poteva testimoniare l’esistenza di qualche insediamento.
Il tardo paleolitico, però, non fu un’epoca priva di arte e di religione. Anche in questo caso, il nostro linguaggio rischia di allontanarci dallo spirito di quel tempo remoto in cui l’arte confinava con la religione, spesso confluendo in essa senza soluzione di continuità. Un documento straordinario di questa fusione di sentimenti primordiali è la Venere di Savignano, una statuetta ritrovata nel 1925 a 120 centimetri di profondità in località Prà Martin, a Savignano sul Panaro, durante i lavori di scavo delle fondamenta di una stalla. Lo scopritore fu un manovale di nome Olindo Zambelli, uomo pratico, che non seppe dar peso a quell’incontro fortuito col destino: l’oggetto fu subito acquistato dallo scultore Giuseppe Graziosi in cambio di due quintali d’uva, e venne poi donato al Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini
di Roma (l’attuale Museo delle Civiltà), dov’è tuttora conservato. La scultura a tutto tondo, alta 22 centimetri e pesante 585 grammi, presenta braccia appena accennate, che sembrano quasi ripiegarsi sul generosissimo petto; le gambe terminano unite, e sono sprovviste di piedi; la testa è una sorta di appendice conica senza lineamenti. Seni, glutei e ventre (con l’ombelico ben in evidenza) sono sproporzionati in eccesso, come molte altre statuette di veneri paleolitiche.
Un misto di verismo esasperato e stilizzazione estrema, un contrasto che solleticò l’immaginario di un’intera generazione di scultori del Novecento, da Picasso a Brancusi. Il rinvenimento di quel sasso così eccezionale scatenò la caccia ad altri oggetti simili. Tentativi inutili, perché a dispetto di ogni pronostico nessun altro esemplare analogo fu mai trovato nei pressi di Savignano. Ci si rassegnò all’idea che la statuetta non doveva essere nata
lì, ma che era stata semplicemente trascinata a valle dalla corrente di un corso d’acqua. Ma come era stata fabbricata? La tecnica artigianale fa pensare a una sgrossatura del sasso tramite percussione, seguita da una picchiettatura regolare della pietra (il serpentino). Tutta la superficie è stata poi levigata e probabilmente anche piallata con un’altra pietra. Infine – e questa forse è la caratteristica più sorprendente – lucidata con cura.
La Venere di Savignano, conservata nel Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma (foto di Sailko, su licenza CC BY-SA 4.0).
Molti archeologi emiliani ancora oggi non si danno pace per il trasferimento della Venere a Roma. Un ratto
in piena regola, dovuto allo strapotere accentratore del fascismo romano, ansioso di acquisire reperti di ogni sorta, e alla crisi degli studi archeologici emiliani nel secondo quarto del Novecento, che si dovettero arrendere a uno Stato centrale vorace, la cui Direzione Generale delle Antichità, insieme al lavoro del Museo Nazionale Preistorico Etnografico, aveva accentuato la tendenza a raccogliere in un unico punto quanti più oggetti fosse possibile. Le province dovevano così accontentarsi solo di copie fedeli.
La Venere trasferita
fu un danno culturale di non poco conto, visto che non esistono molte altre documentazioni di simile qualità, a parte le immancabili frecce ritrovate qua e là per tutto l’inizio del Novecento durante lavori agricoli. Queste frecce facevano parte quasi sempre di corredi funebri, segno che tra la vita quotidiana e il regno della morte non c’era nemmeno anticamera. Ma chi erano stati gli ipotetici fabbricatori della Venere? Luigi Pigorini, l’eponimo del museo che conserva ancora il famoso reperto di Savignano, li aveva individuati in una proto-popolazione neolitica di stirpe ligure-iberica, mischiata con altre tribù calate dalle Alpi. Dalla loro unione sarebbe nata una civiltà palafitticola, che avrebbe prosperato per qualche secolo vivendo su piattaforme adagiate su pali conficcati nel fondo dei laghi e degli stagni. Una padanissima
invenzione, che per secoli avrebbe ispirato analoghi tentativi di costruire altre città sull’acqua o su terreni paludosi. Venezia, da Bologna, non dista che qualche giorno di cammino.
3. Vita sospesa sui pali
La gente che proveniva da Oltralpe era la stessa che doveva confrontarsi con il paludoso e sterminato bacino danubiano, caratterizzato da terreni instabili e stagnanti, uno scenario non troppo diverso da quello che potevano aver trovato i liguri nella pianura lombardo-emiliana, soggetta al capriccio dei torrenti tributari del Po.
Le cosiddette terramare – queste abitazioni che ricordavano già la silhouette dei futuri portici medievali – sfidavano le insidie di un terreno ostile e di una natura matrigna. Furono loro a permettere a quelle popolazioni di passare dall’Età del Bronzo a quella del Ferro. Non si trattava in realtà di singole unità abitative, ma di agglomerati che, messi insieme, potevano prendere l’aspetto di una proto-città. È questo il caso della terramara di Castellazzo di Fontanellato (Parma), dove fu ritrovato un tavolaccio lungo più di 300 metri e largo 640. Un intero paese poggiato sui pali, con strade a linea retta, quasi come i cardi e i decumani dei Romani, con parecchi secoli di anticipo. Ciascuna capanna era dotata di una botola che fungeva da sfiatatoio per l’immondizia, i cadaveri degli animali e i liquami. Non dev’essere difficile immaginare cosa accadeva quando il livello dei rifiuti si avvicinava alla base del tavolaccio. Per questo i traslochi erano molto frequenti.
Il sistema delle terramare non era una tipicità bolognese, né solamente emiliana. Se ne trova testimonianza anche nel bresciano, nel mantovano e a Cremona, con tracce di utensili assai simili tra loro. Analoghi erano anche i riti funebri: la cremazione era il sistema più rapido e tutto sommato igienico per conciliare devozione del morto e salute dei vivi. Il defunto veniva bruciato insieme ai suoi vestiti, e raramente rimaneva in possesso dei suoi ninnoli d’osso o di bronzo, ove ne possedesse. Come accade ancora oggi, anche allora le ceneri venivano conservate in un vaso.
Tutto il mondo è paese. Tutta la storia è un eterno presente. È paradossale che le maggiori informazioni in nostro possesso sui terramaricoli ci provengano dalle attività legate alla morte, piuttosto che a quelle riguardanti la vita. Anche gli oltre 500 fondi di capanne sparsi nel sito dell’attuale Bologna sono stati riconosciuti dalla spianata nerastra dovuta alla decomposizione dei resti organici. C’è però un oggetto che ricorre nelle cucine terramaricole: un alare di terracotta, modellato in punta da una doppia testa di cavallo. Arnese raffinatissimo, che ci fa immaginare per un attimo la vita e gli odori di quelle case umide e fumose, ricoperte di argilla. Tale è il mistero attorno a questa fase della città di Bologna, che nemmeno uno dei più grossi ritrovamenti di manufatti bronzei (1418 chili di materiale distribuiti su oltre 14.000 oggetti tra scalpelli, asce, falci e fibule) ha permesso di capire la funzione di quel magazzino. Quelli che lo scoprirono, non lontano dall’attuale chiesa di San Francesco, non riuscirono mai a chiarire se si trattasse di un grande sito di stoccaggio per materiali di scarto o piuttosto di un ripostiglio a carattere votivo. È solo uno dei grandi misteri di questa nebulosa fase della storia di Bologna.
4. Un tesoro nel giardino
Nel maggio 1853, le terre smosse durante i lavori in un podere di proprietà del conte Giovanni Gozzadini, in località Villanova (circa otto chilometri a nord-est di Bologna), svelarono un tesoro senza precedenti: si trattava di decine e decine di tombe antichissime. Più si scavava, più se ne trovavano. Alla fine dei lavori risultarono essere 193.
Gozzadini non era un uomo qualunque e quegli scavi non erano stati casuali: i Gozzadini erano una nobile e radicata famiglia bolognese che aveva fornito uomini d’arme, politici, medici e giuristi. Non lavorare
, almeno nell’accezione più prosaica del termine, aveva consentito al conte Giovanni di dedicarsi agli interessi più disparati, comprese quelle febbrili ricerche archeologiche che nel tempo diventarono la sua quotidiana ossessione. A lui, peraltro, si deve anche il primo studio rigoroso delle torri gentilizie di Bologna, essenziale per avere un’idea di quanti esemplari svettassero sopra la città in epoca medievale.
Per due anni il ricco possidente condusse scavi meticolosi, riportati in un diario prodigo di dettagli: «La relazione del mio scavo, che mi ha costate non so di quante noie, è già compiuta», scrive nel 1854 per annunciare la pubblicazione della sua prima opera su Villanova, «il manoscritto sta per diventare una stampa, il dado è ormai tratto. E quale ne sarà il risultato?». La novità dell’opera consisteva nell’ampia illustrazione, anche grafica, di un grandissimo numero di materiali appartenenti a un sepolcreto con caratteristiche omogenee riferibili al popolo degli Etruschi
, tesi ardita, che non mancò di suscitare durissime reazioni in ambito accademico. Il volume ebbe inizialmente una circolazione limitata agli addetti ai lavori e alla cerchia di amici, ma fu presto oggetto di recensioni sulle principali riviste scientifiche del tempo. Si aprì così un ampio dibattito destinato a durare ben oltre la seconda campagna di scavi, avviata