Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

The Compton Cowboys: La storia vera di una comunità che lotta per il riscatto sociale
The Compton Cowboys: La storia vera di una comunità che lotta per il riscatto sociale
The Compton Cowboys: La storia vera di una comunità che lotta per il riscatto sociale
E-book309 pagine4 ore

The Compton Cowboys: La storia vera di una comunità che lotta per il riscatto sociale

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Compton, Los Angeles. Dieci uomini neri percorrono a cavallo le strade della città, i cappelli da cowboy inclinati a proteggerli dal torrido sole della California. Sono i Compton Cowboys, e il loro piccolo ranch è l’ultimo sopravvissuto in una zona semirurale della città che per decenni ha visto una nutrita presenza di afroamericani a cavallo.
Per molti Compton è soltanto la città natale di star del rap come gli N.W.A. e Kendrick Lamar, un sobborgo pericoloso e violento in cui spadroneggiano le gang. Eppure è proprio qui che nel 1988 Mayisha Akbar ha fondato la Compton Junior Posse, per offrire ai giovani del luogo un’alternativa alla strada e far conoscere loro il ricco e affascinante retaggio dei cowboy neri nella cultura americana. Dall’iniziativa di Mayisha sono nati i cowboy di oggi: uomini e donne di Compton ai quali passare del tempo nel ranch e prendersi cura dei cavalli ha permesso di sviluppare uno spirito di squadra, allontanarsi dalla violenza, guarire dai traumi e ricominciare dopo essere stati in prigione.

Tra loro ci sono Randy, il nipote di Mayisha, chiamato al difficile compito di crescere una nuova generazione di Compton Cowboys; Anthony, ex spacciatore e detenuto, che ora si è fatto una famiglia ed è diventato un pilastro della comunità; Keiara, una madre single che sogna di vincere un campionato nazionale di rodeo; e c’è anche un piccolo ma unitissimo clan di ventenni – Kennet, Keenan, Charles e Tre – che in sella a un cavallo hanno trovato la libertà, la sicurezza e la dignità che spesso mancano ai giovani di Compton.

Quello che Walter Thompson-Hernández delinea in queste pagine è un ritratto vivido, singolare e inaspettato di Compton, che si allontana dagli stereotipi per rivelare una comunità urbana in tutta la sua complessità e ricchezza. Ma è soprattutto una storia di dolore e trasformazione, di razza e identità, di compassione e, alla fine, di appartenenza, capace di parlare al cuore di ciascuno di noi.

LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2022
ISBN9788830533264
The Compton Cowboys: La storia vera di una comunità che lotta per il riscatto sociale

Correlato a The Compton Cowboys

Ebook correlati

Biografie culturali, etniche e regionali per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su The Compton Cowboys

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    The Compton Cowboys - Walter Thompson-Hernández

    PROLOGO

    Mi sono sempre chiesto come mai, quando facevo le elementari a Huntington Park, una città nella cintura sudorientale di Los Angeles, non abbia mai sentito parlare di cowboy neri. Gli unici cowboy di cui ci parlavano erano bianchi: a scuola si imparava che andavano a cavallo sui sentieri, pascolavano il bestiame e ogni tanto si prendevano a pistolettate con i banditi o i nativi americani. Perfino la signora Sanders, che era una donna di colore oltre a essere la mia insegnante preferita, non ha mai fatto parola dell’esistenza dei cowboy neri, e io ero convinto che la storia del West fosse sempre stata esclusivamente bianca. Non potevo immaginare che proprio dalle nostre parti, a Compton, c’erano gruppi di persone che si prodigavano per riportare i cowboy neri a occupare le pagine dei libri di storia.

    Però, in tutto questo, c’era qualcosa che non mi tornava: mi sembrava di rendere omaggio a uomini che spesso si erano aperti la strada nelle comunità native del West a forza di terrorizzarle. I cowboy, come avrei appreso più avanti, erano uomini bianchi che attraversavano le cittadine senza rispettare regola alcuna e si lasciavano alle spalle una scia di distruzione. Niente di tutto ciò mi stava bene, non ero il tipo, tant’è che in terza elementare decisi di boicottare i tradizionali festeggiamenti scolastici per il Ringraziamento saltando sul banco a gridare che Cristoforo Colombo era un assassino che aveva ucciso migliaia di indigeni nelle Americhe. Quell’episodio mi valse due settimane di sospensione, ma anche l’approvazione entusiasta di mia madre, che allora aveva ventisei anni, era un’attivista per la giustizia sociale e anche dottoranda in Letteratura presso la sede losangelina della University of California.

    Quando ho sentito parlare per la prima volta dei cowboy neri di Compton, tutti questi elementi si sono sommati e mi hanno mandato in confusione. Avevo sei anni, era sabato pomeriggio e stavo andando con mamma al Compton Swap Meet, un enorme mercato delle pulci che frequentavamo regolarmente. Quando non doveva studiare, scrivere o preparare qualche tesina, mamma faceva la posteggiatrice in un elegante albergo di Santa Monica e io passavo molto tempo con le mie zie, che invece lavoravano vicino a casa, quindi a volte il fine settimana era l’unico momento in cui riuscivamo a vederci.

    Era il 1991 e abitavamo in un appartamento con tre stanze da letto, che condividevamo con mia nonna, due zie, uno zio e due cugini. In giro per il nostro quartiere era facile sentire La Raza, un grande successo del rapper Chicano Kid Frost, sparato a tutto volume dalle casse di un’autoradio o di uno stereo portatile. A Watts o a Compton, a circa dieci minuti di distanza, era più probabile sentire dischi degli N.W.A tipo Express Yourself, o magari il soul di Teddy Pendergrass che risuonava dalla Cadillac sgargiante di qualche vecchietto.

    A quel tempo, tutta South Central in generale e la città di Compton erano in continuo tumulto. Le violenze tra gang spesso degeneravano in omicidi, l’uso dilagante del crack distruggeva intere famiglie e il tasso di disoccupazione in costante aumento costringeva le famiglie nere ad abbandonare la zona in cerca di lavoro e abitazioni più economiche nelle cittadine fuori Los Angeles. Intanto, gli immigrati messicani in fuga dai mercati economici in continuo peggioramento del loro paese si stavano a poco a poco immettendo nelle stesse comunità abbandonate dai neri, motivo per cui a volte si scatenavano tensioni razziali. Spesso i neri accusavano i messicani di rubare loro il lavoro e invadere i quartieri, mentre i messicani – che in parte avevano dei pregiudizi a loro volta – si mostravano sprezzanti nei confronti dei vicini neri, i quali ai loro occhi non lavoravano abbastanza. Entrambi gli stereotipi erano radicati in una serie di profonde incomprensioni e di false immagini proiettate dai media.

    Quando io e mamma andavamo a Compton e attraversavamo i binari di Alameda Street, che segnavano il confine tra la comunità latina in cui abitavamo e quella nera in cui stavamo entrando, lei mi faceva sempre alzare i finestrini e chiudere le portiere con la serratura. Allora i furti d’auto erano frequenti e nel corso degli anni molti nostri parenti erano stati derubati in qualche modo, perciò mia madre era diventata piuttosto prudente.

    Crescendo, però, mi sono reso conto che in realtà le sue precauzioni derivavano da questioni ben più complesse: perfino tra amici e parenti c’erano persone razziste nei confronti dei neri. Mayates, una parola spagnola usata in maniera dispregiativa per descrivere le persone di origine africana, è stata una delle prime definizioni dei neri che ho sentito e che mi ha fatto interiorizzare il messaggio che fossero gente pericolosa e incline alla violenza, eppure mi sentivo fortemente legato a Compton.

    Da figlio di padre afroamericano che ho incontrato dopo i vent’anni, sentire insulti del genere sui neri mi ha costretto a fare i conti con l’idea che una parte del mio retaggio etnico fosse da appoggiare, mentre altre potevano finire per danneggiare me stesso o gli altri. Non avevo contatti con mio padre né con nessun altro del ramo nero della mia famiglia, e questo complicava i nostri giri a Compton più di quanto non sembrasse; mi era stato messo in testa che i neri erano pericolosi e dunque credevo di essere pericoloso io stesso, ma quelle gite erano anche un’opportunità per sognare, perché ogni volta che andavamo a Compton in macchina – com’ero ingenuo – credevo che magari, per un caso fortunato, avremmo incontrato mio padre o qualche altro parente nero. La mia visione del mondo era limitata, e nella mia testa Compton era l’unico posto in cui si trovavano dei neri. Guardavo fuori dal finestrino mentre ci dirigevamo a sud, su Long Beach Boulevard, oltrepassando Martin Luther King Jr. Boulevard e poi sotto il cavalcavia dell’autostrada 105, e non vedevo i criminali di cui parlava la mia comunità. Vedevo la mia famiglia.

    Durante alcuni di quei giri in macchina del fine settimana, agli incroci mi capitava di vedere i cowboy neri di Compton. Ogni tanto costeggiavano i binari di Alameda Street, su cui passavano i treni merci diretti dalle piattaforme di carico di Long Beach ai depositi in centro a Los Angeles e viceversa. «Guarda i cowboy neri, mijo» diceva mamma, salutandoli con gli occhi spalancati e pieni di soggezione. Io li osservavo e, nella mia innocenza, mi chiedevo: Ma questi uomini a cavallo saranno miei parenti?

    Non eravamo i soli a subirne il fascino: quei cowboy erano amati da tutti. Al loro passaggio, i guidatori suonavano il clacson e agitavano le mani per salutarli ammirati. I loro unici rivali erano i membri dei club di auto d’epoca che sfilavano su quelle stesse strade ogni fine settimana al volante di qualche Chevrolet Impala del 1964, o magari di una El Camino Super Sport.

    I cowboy esercitavano un’attrazione che andava oltre le parole. Avevano un aspetto etereo, come fossero supereroi sul dorso di creature mistiche che, nella mia mente, comunicavano in un linguaggio a me sconosciuto. Erano uomini diversi dai classici cowboy bianchi che vagavano per il West con la sigaretta in bocca che avevo visto in televisione nei film con Clint Eastwood o nelle pubblicità Marlboro. L’unica altra immagine di cowboy che avevo era quella dei messicani che andavano a cavallo e lavoravano nei ranch a Magdalena, la cittadina rurale dello stato del Jalisco da cui veniva mia madre che era piena di rancheros. La vista di un gruppo di cowboy neri che attraversavano un’area metropolitana come Compton era un evento rivoluzionario, in contrasto con ogni mia idea convenzionale del tempo. Quelli non erano i cowboy di cui avevo letto nei libri di storia o che avevo visto al cinema, eppure, mentre li guardavo cavalcare al tramonto sulle stesse strade secondarie in cui sapevo essere cresciuti rapper come Eazy-E e Dr. Dre, riconoscevo in loro qualcosa di connaturato a ogni film western e canzone hip-hop: quegli uomini neri erano anticonformisti, indipendenti, forti, si facevano notare e incarnavano uno spirito ribelle, e soprattutto erano fonte di entusiasmo e ispirazione.

    Anni dopo, da giornalista del New York Times, ho contattato un gruppo di giovani neri noti come Compton Cowboys: al pari dei loro predecessori, continuano a cavalcare per la città con spirito libero e ribelle. Tutti hanno imparato a montare a cavallo in un ranch del quartiere di Richland Farms, a Compton. Tuttavia, questo gruppo non va a cavallo solo per divertimento, ma anche per affrancarsi dai pericoli della vita di strada e delle gang, e per superare i traumi che tormentano le loro esistenze. Il loro motto è eloquente: Cresciuti dalla strada, salvati dai cavalli. Ho deciso che volevo saperne di più.

    1

    LA SFILATA

    Una forte ondata di bassa pressione si stava avvicinando da ovest e le previsioni meteo confermavano quanto i cavalli del ranch avevano già percepito: era in arrivo uno dei temporali peggiori dell’anno, diretto proprio verso il quartiere di Richland Farms. In qualunque altro fine settimana la pioggia non sarebbe stata un problema: dopo cinque anni di siccità, la California era ormai inaridita, ma il weekend della sessantacinquesima sfilata natalizia di Compton era il momento in assoluto più inopportuno per il maltempo.

    La sfilata era l’orgoglio di una città in stato di assedio: decenni di negligenza economica e una lunga serie di scandali legati alla corruzione – truffe nel settore energetico, appalti comunali irregolari e lo smantellamento del dipartimento di polizia di Compton – avevano lasciato il segno. Fino al 2013, anno dell’elezione di Aja Brown, secondo sindaco della città e la più giovane in assoluto a ricoprire la carica, la sfilata era stata ridotta all’ombra di se stessa. Però la vittoria di Brown aveva fatto rinascere la speranza in una delle città con il più alto tasso di omicidi per arma da fuoco degli Stati Uniti, portando persone famose originarie di Compton come il rapper Kendrick Lamar a presentarsi in qualità di gran cerimonieri alla guida della sfilata: cancellarla avrebbe mandato in rovina mesi di meticolosa pianificazione e instancabili raccolte fondi da parte di intere squadre di organizzatori solerti; e, soprattutto, avrebbe privato di un momento di gioia famiglie come quella dei Johnson, uno dei tanti nuclei afroamericani fuggiti da Compton negli anni Novanta perché non potevano più permettersi di viverci, ma che ogni anno tornavano per la sfilata – nel loro caso, addirittura da Las Vegas.

    Molti dei cavalli iniziarono ad agitarsi ore prima che le nuvole grigie cominciassero a addensarsi sopra la città. Nitrivano forte e sbattevano le lunghe code ruvide, suscitando una serie di rumorose risposte da parte degli altri cavalli nei ranch vicini. Quando comparvero, le nubi si fecero avanti come esseri senzienti, misteriosamente consapevoli del loro potenziale di alterare migliaia di progetti per quel fine settimana. Infine arrivò l’acqua: prima una pioviggine leggera, delicata e poi, nel giro di un’ora, uno scroscio violento. Rovinati da anni di trascuratezza, i canali di scolo della zona accusarono subito il colpo e strariparono, intasati dai rifiuti della città che l’impeto della corrente spingeva a sud, verso il Los Angeles River e l’oceano Pacifico.

    Dopo aver ascoltato il meteo su una stazione radio ispanica a inizio giornata, il signor Sanchez si ricordò di prendere il telone cerato blu e di caricarlo sul pick-up pieno di carne fresca, tortillas e verdura che aveva comprato al mercato del quartiere di buon mattino. Quando pioveva i clienti diminuivano, e se il chiosco mobile in cui vendeva i taco non fosse stato ben riparato avrebbe lavorato anche meno.

    Tuttavia, quando la pioggia cominciò a filtrare dalla cerata e a bagnare i tavolini e le sedie, capì che era ora di smontare e di tornare a casa prima di sera. «Oggi si chiude qui, amigo» disse a Jerome Jordan, un sessantacinquenne nero che da due anni lavorava per lui come posteggiatore, facendo parcheggiare le auto in un terreno abbandonato poco distante in cambio di qualche dollaro e un piatto di taco al pastor a fine giornata. Come altri suoi coetanei, Jerome aveva assistito ai disordini di Watts del 1965 e poi a quelli di Los Angeles del 1992. Aveva visto la sua città subire una serie di trasformazioni di cui, con il passare degli anni, stava cominciando a perdere il conto.

    «Stasera Dio ce l’ha con noi» disse Sanchez, guardando sbalordito il cielo insieme all’amico.

    Qualche isolato più in là, all’incrocio tra Tamarind e Alondra, di fronte alla sede dei servizi sociali, i semafori in cortocircuito lampeggiavano ininterrottamente di rosso, costringendo i guidatori ad attraversare l’incrocio a turno con cautela; nel frattempo, cominciava a salire uno spesso strato di nebbia.

    Quella notte la pioggia si abbatté con violenza sugli edifici di metà secolo della città, che non erano stati progettati per sopportare fenomeni del genere, costringendo la gente ad allineare sfilze di secchi nei soggiorni e nelle camere da letto. Con il proseguire del nubifragio, il petricore che si spandeva dai giardini fioriti della zona riempì l’aria notturna dello stesso profumo che si sentiva in primavera davanti alle bancarelle dei fiorai. Quell’odore delicato fu come un tuffo nel passato per Diego, un senzatetto di mezz’età di Città del Messico che quando era poco più che ventenne aveva lavorato in un mercato dei fiori e ora ricordava i profumi che più di trent’anni prima aveva abbandonato per inseguire la promessa oltre il confine. Per tutta la notte Diego rimase aggrappato a una lattina di birra, accanto ad altri latinos che avevano inseguito il suo stesso sogno, ma la sua bocca fu l’unica a curvarsi in un sorriso.

    Intanto, al ranch, la pioggia continuava a cadere sui tetti di lamiera malandati che proteggevano i cavalli dal maltempo. Nei box si formarono pozze di acqua fredda e fangosa, le condizioni ideali per il proliferare della candida, un fungo che danneggia gli zoccoli dei cavalli.

    Helio, uno dei purosangue più maestosi del ranch, nitriva sopra a tutti e si agitava nel box. Chocolate, un pony canadese nero più anziano, si rotolava senza sosta nel fango, tanto che il suo manto ne usciva via via più scuro. Sonny, un quarter horse, mordeva con forza il cancello metallico che lo separava da Fury. Dalla parte opposta del ranch, Red Dog, un pastore australiano che faceva la guardia alla proprietà e che spesso abbaiava ai cavalli, schizzò nel fienile in cerca di riparo, per poi passare il resto della notte acciambellato accanto a una balla di fieno.

    Byron Hook si girava e rigirava nel letto, nella sua stanza con la moquette marrone, e cominciava a sentirsi nervoso. A metà nottata aveva smesso di piovere e il mattino era spuntata una lama di sole. Byron era alto un metro e ottanta, pesava quasi centodieci chili e il letto singolo in cui dormiva era di legno, quindi scricchiolava rumorosamente ogni volta che si muoveva. L’unica cosa più rumorosa del letto era il canto del gallo dei Gutierrez, i vicini, che gli segnalava che era ora di alzarsi per la prima sigaretta della giornata.

    Di solito, al ranch, Byron era il primo a svegliarsi e anche il primo ad andare a letto, di norma dopo aver guardato i western con i cowboy che da piccolo si godeva con i suoi genitori nella limitrofa Harbor City. Era uno degli ultimi esponenti delle gang originarie della zona e aveva visto l’area di Richland Farms trasformarsi continuamente. Come le querce e i platani che fiancheggiavano orgogliosi entrambi i lati delle strade, aveva visto più di quanto avesse mai avuto bisogno di vedere.

    Alla fine degli anni Ottanta, quando l’area era per lo più afroamericana, Byron era famoso per la sua bicicletta lowrider dai colori sgargianti, il lungo sellino a banana e il manubrio cromato alto e ricurvo che sotto il sole di Compton luccicava, facendo spiccare il blu brillante di cui erano verniciati i lati. A un certo punto, Byron aveva piazzato sulla parte posteriore delle casse artigianali per riprodurre i cd che masterizzava e rivendeva nei mercatini delle pulci della zona o alle sfilate di automobili lowrider con le sospensioni modificate.

    A quei tempi, un album si comprava con cinque dollari, con dieci se ne compravano due, e con venti se ne portavano a casa cinque. In quel modo Byron guadagnava qualche soldo, riusciva a pagarsi la droga e si faceva amici nel quartiere. Se erano fortunati, ai suoi nipoti, Randy e Carlton, concedeva ogni tanto di mettersi in piedi sulle pedane posteriori, aggrappandosi alle sue spalle, per fare su e giù lungo Caldwell Street.

    Però a cinquantasei anni Byron era diventato l’ombra di quel giovane fiero, ormai gravemente indebolito da una serie di interventi chirurgici al braccio sinistro, per via di un difetto congenito, e dai sintomi di una demenza incipiente. Spotify e gli altri servizi di streaming musicale avevano annientato i suoi affari e lui, privo di altre fonti di guadagno, aveva cominciato a mendicare; certe volte tornava a casa con qualche dollaro in tasca, altre no. Quando le sue richieste di spiccioli andavano a vuoto e aveva già prosciugato l’assegno sociale mensile, ricorreva a misure più drastiche e si aggirava per le strade in cerca di auto con le serrature sbloccate, nella speranza di mettere le mani su qualunque cosa si trovasse al loro interno.

    Il filtro della sigaretta bruciava lento, intanto Byron si dondolava sulla sedia sotto il portico, stretto nella maglia blu a maniche lunghe, cercando di combattere il freddo. Sul lato sinistro, i capelli ingrigiti erano piatti, mentre su quello destro erano gonfi: al ranch, tutti capivano su quale lato avesse dormito a seconda di dove si erano appiattiti i capelli. Solo le sopracciglia cespugliose sale e pepe avevano un aspetto ordinato.

    Dopo aver fatto un lungo tiro dalla sigaretta Newport che si stava godendo da mezz’ora, Byron borbottò una serie di parole comprensibili solo a lui. La sua capacità di parlare era ormai rallentata e peggiorava di giorno in giorno, proprio come il resto del suo corpo.

    La zanzariera della porta d’ingresso si spalancò, mancandogli di poco la faccia. «Com’è, Byron?» domandò suo nipote Carlton, in canotta bianca aderente, pantaloni della tuta neri, calze bianche e ciabatte; non si era minimamente accorto di aver rischiato di prenderlo in pieno.

    Carlton si mise a sedere sui gradini del portico, all’ombra della tettoia. I dreadlocks erano sciolti, tirati appena indietro per non ricadere davanti agli occhiali, ma abbastanza lunghi da sfiorare la C e la H che Keenan Abercrombia gli aveva tatuato sulle spalle magre e muscolose qualche anno prima, nel cortile dietro casa.

    «Tu-tu… mi ha-hai quasi pre-preso, coglione del ca-ca-cazzo» tartagliò Byron in modo disastroso. Ogni parola era una lotta.

    «Oh, ma di che parli?» sbottò Carlton, guardandolo sconcertato. «Sei fuori.»

    Come Byron, il nipote non cambiava mai una virgola della sua routine mattutina: seguiva un rituale per cui si svegliava e immediatamente fumava un blunt, un sigaro alla marijuana. Per lui era un’abitudine, tanto quanto lavarsi i denti o fare colazione; se non fumava ogni mattina, il suo umore e le sue capacità di agire ne risentivano negativamente per tutto il giorno.

    «Oh, ce l’hai l’accendino?» chiese a Byron sottovoce, con in mano il mezzo blunt avanzato dalla sera prima. Nell’altra reggeva il suo iPhone con lo schermo crepato, da cui arrivava il ritmo cadenzato e rapido di una southern trap melodica.

    La voce di Carlton non superava quasi mai la soglia del sussurro. Era il più piccolo di due gemelli e di solito lasciava che a esporsi fosse suo fratello Randy. Era un tipo tranquillo e riservato, e preferiva le voci degli altri alla sua.

    «B-bello, mi f-f-freghi sempre il mio c-c-cazzo di ac-cendino» rimbrottò Byron. «Q-q-q-questo l’ho appena p-preso. Perché c-c-cerchi sempre di f-fotterti la m-mia roba?»

    Di accendini non ne giravano molti, lì al ranch, e costavano troppo per comprarne di nuovi. L’ultima volta che Byron ne aveva prestato uno a Carlton, non lo aveva più rivisto.

    Carlton ripeté la domanda, stavolta tendendo la mano, gli occhi sempre fissi sul telefono, impassibile di fronte alla supplica lamentosa dello zio. Mentre continuavano a parlare, dall’incrocio tra Caldwell e South Central in fondo alla strada si sentì un rimbombo di zoccoli di cavalli che battevano sull’asfalto.

    «Toh» disse infine Byron, avvilito, tirando fuori un accendino giallo dalla tasca dei jeans; sapeva che Carlton non avrebbe smesso di chiedere finché non avesse ottenuto quel che voleva. «Ma me lo rid-d-dai subito, capito?»

    «Grazie, bello» rispose Carlton.

    Carlton riaccese il sigaro, fece un tiro ed espirò una nuvola di fumo, poi tornò in casa e si diresse in camera sua, cantando a squarciagola la canzone di Young Dolph Major che risuonava dalle casse.

    Il ventottenne era di ottimo umore e in vena di festeggiare: la sera prima lo avevano pagato per il lavoro al ranch e aveva passato tutta la notte con una donna conosciuta su Instagram qualche giorno prima. Carlton guadagnava poche centinaia di dollari al mese, ma gli bastavano per la marijuana e per le donne che conosceva online: certe volte ne incontrava anche tre o quattro alla settimana.

    Anche se era basso, Carlton preferiva le donne robuste, alte il doppio di lui e qualche volta anche più massicce: questa sua passione era motivo di ilarità per gli altri nove componenti del gruppo dei cowboy, ma di certo non faceva scomporre uno che sognava di sfondare nel porno con lo pseudonimo di Carl Cazzodicavallo. La donna con cui aveva passato la notte non aveva chiesto denaro, ma solo di pagarle un McDonald’s e una corsa con Uber per tornare a casa. Ho fatto jackpot, aveva pensato Carlton tra sé, mentre attendevano pazienti al McDrive i loro Big Mac e due fette di torta di mele.

    Passò il resto della mattinata a guardare le foto di donne nude che aveva ricevuto e a scorrere i suoi account sulle app per incontri, pianificando chi sarebbe stata la prossima.

    Nel 1888 Compton venne incorporata grazie al fondatore Griffith D. Compton, con la previsione di diventare un centro agricolo; nel giro di poco vi si stabilì una trentina di famiglie di pionieri, che diede vita a una comunità compatta fondata sulle conoscenze in ambito contadino immagazzinate vivendo nel Midwest e nel Sud.

    Ben presto da piccola cittadina rurale Compton crebbe: la concessione di grandi appezzamenti di terreno dava a persone provenienti da ogni parte della California la possibilità di farsi una famiglia, coltivare la terra e allevare bestiame. La zona di Richland Farms era una comunità di dieci acri destinata a uso specificamente agricolo e si trovava proprio al centro di Compton, a pochi isolati di distanza da dove poi sarebbero sorti il tribunale e il complesso scolastico; divenne così una comunità nella comunità, che consentiva alle famiglie di vivere una parvenza delle loro vite di un tempo.

    Le piogge erano sempre gradite in quella che era una delle poche aree rurali rimaste a Los Angeles, e mentre la maggior parte degli abitanti della città guidava nervosa e di fretta, lamentandosi dell’acqua, chi stava a Richland Farms ne festeggiava l’arrivo. Quasi tutti i residenti arrivavano da contesti rurali del Sud o dal Messico; famiglie come gli Hook, una delle ultime dinastie di cowboy, erano emigrate dall’Arkansas a metà del XX secolo nel corso della Seconda

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1