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White mountain (eLit): eLit
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E-book341 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Frank Walton, un anziano signore malato e prossimo alla fine, decide di concedersi un'ultima vacanza nel luogo più simile alla sua vecchia patria che si possa trovare negli Stati Uniti: il quartiere di New York soprannominato Little Russia. Ma proprio qui un lontanissimo passato lo raggiunge, sotto le spoglie di un vecchio, cinico agente segreto richiamato dalla pensione e mandato sulle sue tracce. Inutilmente Frank spera di chiudere la partita anticipando di qualche mese, o di qualche settimana, la propria morte. La catena degli eventi si è messa in moto, e toccherà all'agente dell'FBI Jack Dolan scoprire perché le impronte digitali di quella che, a prima vista, sembra la vittima di una rapina finita male appartengono, invece, a uno scienziato ritenuto morto da oltre trent'anni. Ma per farlo dovrà andare molto lontano, incontrare la donna che è la chiave del mistero e rischiare non solo la propria vita...
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2018
ISBN9788858988626
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    Anteprima del libro

    White mountain (eLit) - Dinah Mccall

    successivo.

    1

    Frank Walton stava morendo. Lo sospettava da qualche tempo, ma solo il mese precedente i suoi sospetti erano stati confermati. E anche se avrebbe preferito rimanere su questa terra un po' più a lungo, aveva accettato il suo destino, proprio come aveva affrontato ogni altra avversità incontrata sulla sua strada.

    Affronta le cose, e superale. Quello era il suo motto.

    O, almeno, lo era stato fino ad allora. Avrebbe affrontato più tardi la sua imminente dipartita. Per il momento, il suo pensiero dominante era il bisogno di andare a casa... di tornare nel luogo in cui era nato, vedere la gente, sentire la lingua e la musica. Soltanto una volta. Prima che fosse troppo tardi.

    Solo che non poteva. Per loro, era già morto.

    Tuttavia, aveva sentito la necessità di sapere se era valsa la pena di fare ciò che aveva fatto. Aveva avuto bisogno di guardarlo da un punto di vista diverso. Forse, allora avrebbe saputo.

    Ma per farlo aveva dovuto lasciare il Montana per lo stato di New York, e poi andare a Brooklyn e a Brighton Beach. Era quanto di più vicino possibile alla sua terra natale. Mangiare i cibi della sua infanzia e sentire la lingua del posto che aveva chiamato casa. Adesso, dopo due settimane a Brighton Beach, aveva finito per accettare, a malincuore, che era troppo tardi per far tornare indietro il tempo.

    Walton uscì dal piccolo caffè con il sorriso sulle labbra. Il borscht caldo, rosso scuro e il pane saporito che aveva appena mangiato per pranzo gli avevano rammentato i pasti che sua madre metteva in tavola durante i brevi giorni invernali e le lunghe, fredde serate nella sua patria russa. Il cibo era stato scarso, ma nella sua famiglia l'amore abbondava.

    Anche se la giornata settembrina era quasi tiepida, Frank sapeva bene che gli sarebbe bastato chiudere gli occhi per ricordare ogni sfumatura di quel tempo: suo padre, seduto vicino al focolare con la fisarmonica, che fumava sigarette che si era arrotolato da solo e sorseggiava vodka tra una canzone e l'altra, e lui e i suoi fratelli e sorelle che ballavano disordinatamente, imitando i balzi delle danze cosacche, mentre la risata di sua madre risuonava al di sopra del frastuono.

    Ah, Dio. Aveva rinunciato a tutto questo... e per una causa più alta. Almeno, era quello che si era ripetuto negli ultimi trenta e più anni. Ma ora che era giunto alla fine dei suoi giorni, cominciava a chiedersi se i sacrifici erano valsi la pena. Che cosa aveva conseguito? Che cosa aveva conseguito chiunque di loro?

    Un terzetto di gabbiani che strideva rumorosamente, volando alto in cerchio, interruppe la concentrazione di Frank. Stringendo gli occhi per ripararli dal sole pomeridiano, piegò la testa all'indietro per non perdersi il loro fulmineo tuffo oltre la passeggiata. Non si vedevano gabbiani, nel Montana.

    Il sole era tiepido sulla sua testa quasi calva. Respirò a fondo, poi emise un sospiro. Per la prima volta in via sua desiderava credere in un potere più alto di quello dell'uomo mortale. La luce del sole non giungeva nel luogo in cui era diretto.

    Una donna si sporse da una finestra al terzo piano e gridò qualcosa rivolta alla strada. Un uomo che stava uscendo dal portone si fermò e le rispose. Le loro voci si mescolarono ai rumori del traffico e dei passanti. Il vapore del sottosuolo saliva dalle grate dei marciapiedi, fra il miscuglio gutturale di vocali e consonanti che formavano la lingua russa.

    Era tutta musica per le orecchie di Frank Walton.

    Avrebbe voluto gridare una risposta, cantare le canzoni della sua gioventù e ballare fino a non avere più fiato. Ma aveva rinunciato a quella parte della sua vita molti anni prima. Neppure adesso, quando era così vicino alla morte, poteva correre il rischio di rivelare la propria vera identità. Perciò ficcò le mani nelle tasche e proseguì per la sua strada, soddisfatto, per il momento, solo di essere in quel luogo.

    Vasili Rostov maledisse il dolore al ginocchio, mentre si fermava in una rientranza riparata dal vento per accendersi una sigaretta. Quando il tabacco cominciò a bruciare, aspirò una profonda boccata e aspettò che la nicotina facesse il suo effetto.

    Agì rapidamente, avvolgendosi attorno ai suoi sensi e allentando la tensione della sua mente. Espirò adagio, lasciando uscire il fumo dalle narici, mentre si voltava.

    Il vecchio che stava seguendo era ancora in vista, perciò aspirò un'altra boccata prima di riprendere a muoversi, restando sempre ad almeno un isolato di distanza.

    Mentre camminava, il suo sguardo si spostava da una finestra all'altra, adocchiando l'opulenza e l'abbondanza che era l'America. Non per la prima volta, pensò di restarci. Dopo avere finito il lavoro, naturalmente. Amava la sua terra natale, ma il perpetuo caos nel governo lo disgustava. Non era come ai vecchi tempi. Allora, lui era stato uno dei più giovani e dei migliori agenti della Russia, apprezzato in alto loco, fiero della sua posizione nel KGB e dell'efficienza del suo corpo. Le donne sbavavano per lui. Altri agenti lo invidiavano. I suoi superiori contavano su di lui.

    Ora non faceva nulla. Lo chiamavano pensionamento. Per Rostov era come essere stato mandato alla tomba prematuramente.

    Benché avesse ormai varcato la sessantina, era ancora forte. I suoi muscoli erano saldi, il ventre piatto, e gli anni avevano aggiunto carattere alla sua faccia, più che invecchiarla.

    Ironicamente, non era l'età che lo aveva messo da parte. Era la sua incapacità a tenere il passo con le moderne tecnologie e i loro rapidi cambiamenti. Al giorno d'oggi, una buona parte del gioco dello spionaggio era basato sulla capacità di capire un'infinità di cose, dai raggi laser ai microchip dei computer, e questo lo tagliava fuori dalla corsa. Perciò passava le sue giornate in qualche bettola, rivivendo il passato con altri relitti come lui, e le notti nel suo monolocale, guardando la televisione di stato su un apparecchio in bianco e nero da dodici pollici, con l'odore dei cavoli bolliti del suo vicino che filtrava da sotto la porta.

    Il comunismo era stato vantaggioso per lui e la sua famiglia. Aveva reso forte il suo paese. Con l'arrivo della democrazia, il suo mondo era crollato come il muro di Berlino.

    Per diversi anni la gente aveva venduto i propri oggetti personali per strada solo per evitare di morire di fame. I senzatetto si erano moltiplicati, e le lunghe file alle panetterie e ai supermercati erano rese ancora più tragiche dal fatto che c'era poco cibo da comprare anche per coloro che avevano ancora denaro.

    Adesso le cose andavano meglio, ma non sarebbero mai più state come prima. Democrazia era una parola oscena, per lui, e ora la mafia russa aveva più potere del governo.

    Rostov aveva imparato ad adattarsi, perché era la cosa che sapeva fare meglio. Si era abituato a uno stile di vita che, se era meno stimolante, era anche più agiato di quello che aveva conosciuto da bambino.

    E poi, una settimana prima, qualcuno aveva bussato alla sua porta. Aprendo, si era trovato davanti quattro uomini dall'aria acida, che gli avevano ordinato di preparare una valigia. Nel giro di poche ore gli erano state impartite le istruzioni, gli era stato consegnato un telefono satellitare e del denaro americano, ed era stato messo su un aereo diretto a New York. La ragione era quasi comica, per Rostov. Era di nuovo in azione per la semplice ragione che faceva parte del passato. Era andato in America con un solo scopo. Trovare un fantasma.

    E adesso, eccolo là a seguire un vecchio dalle spalle curve e con una predilezione per il borscht. A Rostov non sembrava affatto un fantasma, ma a giudicare dal suo colorito non era lontano dal diventarlo.

    Quando il vecchio si fermò a un semaforo, anche Rostov si fermò, voltandosi verso la vetrina di una gioielleria davanti alla quale si trovava. Ai passanti sarebbe sembrato un tizio interessato all'esposizione di rubini e perle, ma in realtà la vetrina era lo specchio in cui controllava il marciapiede dall'altra parte della strada.

    Rimase là fino a quando il semaforo, diventato verde, non cominciò a lampeggiare, poi girò rapidamente su se stesso e schizzò attraverso la strada, scansando il traffico, e si perse nel fiume di pedoni attraverso cui il vecchio si muoveva.

    Sapeva che il nome del suo uomo era Frank Walton, in teoria un botanico in pensione di Braden, Montana, che era andato a Brighton Beach per una vacanza. Ma c'era una ragione particolare per cui Vasili Rostov era stato ripescato dal suo pensionamento e mandato in quella missione, e la fotografia che aveva in tasca faceva parte del mistero.

    Quella sera avrebbe incontrato il vecchio a faccia a faccia. Se ciò che Rostov sospettava era vero, il suo nome sarebbe stato pronunciato di nuovo con rispetto.

    Frank posò il rasoio di sicurezza vicino al lavabo e si guardò allo specchio appannato, prima di decidere che era rasato a dovere. Aveva un dolore all'addome, conseguenza del cancro che cresceva dentro di lui e lo stava divorando a poco a poco, e tuttavia era deciso a non lasciare che gli rovinasse la serata.

    Il portiere dell'albergo gli aveva parlato di un favoloso ristorante a soli pochi isolati di distanza, che offriva anche uno spettacolo, all'ora di cena. L'occasione di sentire la musica del suo paese era troppo bella per perdersela.

    Ignorando il dolore, si passò sul viso un asciugamano, poi il dopobarba, e finì di vestirsi.

    L'indomani sarebbe tornato nel Montana, dai suoi amici e da Isabella. Sorrise al pensiero di Isabella, dei suoi occhi scuri ridenti e del suo bel viso ovale. La figlia che non aveva mai avuto. Lo chiamava zio, come faceva d'altra parte con tutti gli altri amici di Samuel.

    Samuel Abbott era il padre di Isabella. Era stato il loro capo fin dall'inizio.

    Frank corrugò la fronte, guardando il telefono. I suoi amici non avrebbero voluto che lasciasse Braden, e tuttavia lui non era stato capace di rivelargliene il motivo. Non sapevano del cancro. Gliene avrebbe parlato più tardi, quando non fosse più riuscito a nascondere la sofferenza.

    Guardò di nuovo il telefono. Avrebbe proprio dovuto chiamarli e avvertirli che sarebbe tornato a casa l'indomani. Ma poi guardò l'orologio sulla parete e cambiò idea. Si stava facendo tardi, e se non si sbrigava sarebbe stato in ritardo per la prenotazione. Non voleva perdere l'inizio dello spettacolo.

    In realtà, si disse, non aveva importanza. L'indomani a quell'ora sarebbe stato a casa, e allora avrebbe potuto parlare quanto voleva con i suoi amici.

    Pochi minuti dopo era nella hall dell'albergo, e poi fuori, in strada. Sul marciapiede c'erano più di una dozzina di persone in attesa di un taxi. Frank si rese conto che avrebbe fatto meglio a chiamarne uno in anticipo. Consultò l'orologio. Se aspettava ancora, sarebbe arrivato in ritardo. Il ristorante era a una ventina di isolati di distanza. Nel suo stato di debolezza, era come se fossero chilometri e chilometri, tuttavia decise di andare a piedi.

    Era una bella serata di settembre. L'aria si era rinfrescata, dopo il tramonto, rendendo la camminata più piacevole. Era evidente che non era il solo a pensarla così. Il traffico di pedoni sui marciapiedi era intenso quanto quello delle automobili nelle strade. Frank camminava a testa alta, con le spalle diritte, e per un po' si concesse di credere di essere giovane e forte... e a casa.

    A circa cinque isolati dalla sua destinazione, si sentì chiamare. Sulle prime non se ne rese conto, e continuò a camminare. Ma poi lo sentì di nuovo.

    Vaclav Waller. Qualcuno aveva gridato il nome Vaclav Waller.

    Barcollò, poi si immobilizzò... timoroso di voltarsi e timoroso di non farlo. Prima che potesse muoversi, un uomo sbucò da un vicolo alla sua destra. L'uomo parlò di nuovo, e solo allora Frank si rese conto che gli stava parlando in russo.

    «Mi scusi» disse, fingendo di non capire. «Stava parlando a me?»

    Stavolta, la risposta gli giunse in perfetto inglese.

    «Tu che cosa credi, vecchio?»

    Quando Vasili Rostov comparve in piena luce, Frank Walton rabbrividì. Non lo conosceva, ma conosceva il tipo. Aveva visto quello sguardo freddo, inespressivo, anche troppe volte in gioventù per non sapere chi aveva di fronte.

    E, con il riconoscimento, lo colpì la consapevolezza che lo avevano trovato... dopo tutti quegli anni, quando era ormai giunto quasi alla fine della vita.

    «Credo che mi confonda con qualcun altro» borbottò, e fece per allontanarsi.

    Aveva fatto solo tre passi quando l'uomo lo afferrò per un braccio.

    «Niente affatto» disse Rostov, esprimendosi di nuovo in russo. «Devo parlarti.»

    Prima che Frank potesse chiedere aiuto, l'uomo gli puntò un coltello alla gola e lo trascinò nel vicolo buio. Sempre parlando in russo, abbassò la voce e gli ordinò di tacere, poi aumentò la pressione della lama contro la gola.

    Un bruciore improvviso disse a Frank che la lama aveva intaccato la pelle. La paura gli impedì per un attimo di parlare, ma subito dopo la rabbia prevalse. Poteva anche essere vecchio e moribondo, ma non si sarebbe lasciato minacciare... non ora, e non da un uomo come quello.

    «So chi sei» disse l'altro.

    Frank rispose in inglese.

    «Non so di che cosa stia parlando.»

    La pressione della lama divenne più dolorosa.

    «Non mentire con me, vecchio. Ti ho conosciuto a Minsk. Ero la tua guardia del corpo a un simposio medico. Sei nato e cresciuto in Georgia e hai studiato a Mosca. Sei Vaclav Waller. Sei stato candidato al premio Nobel nel millenovecentosessantanove, e sei stato dichiarato morto in un incidente aereo al largo della costa meridionale degli Stati Uniti nel millenovecentosettanta.»

    Frank soffocò un gemito. Non sapeva come tutto questo fosse accaduto, ma poteva incolpare solo se stesso. Qualcuno doveva averlo riconosciuto. Era andato a Brighton Beach a rendere omaggio alle sue radici, e invece aveva fatto crollare il fragile castello di carte che si era costruito.

    «Che cosa vuole?» chiese. «Ho del denaro. Prenda il mio portafogli. È nella tasca della giacca.»

    Rostov imprecò.

    «Non voglio i tuoi soldi, vecchio. Voglio la verità.»

    Frank sbatté le palpebre. Stavolta, l'uomo aveva parlato di nuovo in inglese. Cominciava a credere alla sua storia, o stava solo prolungando il gioco?

    «Non so di che verità parli» affermò Frank. «Prenda il denaro e mi lasci andare. Non voglio guai.»

    In quel preciso momento, una macchina sfrecciò all'esterno del vicolo. Dietro, si sentì un suono di sirene che si avvicinavano, e la stretta di Rostov si accentuò.

    Frank capì che le sirene lo innervosivano. La polizia stava evidentemente inseguendo qualcun altro, ma forse lui poteva approfittarne.

    «Sta arrivando la polizia» disse. «Qualcuno l'ha vista trascinarmi in questo vicolo. Mi lasci andare, e non dirò nulla. Sono vecchio. Non voglio guai.»

    «I tuoi guai sono appena cominciati» ribatté Rostov. «Non devi parlare con me. Parlerai con i miei superiori... quando torneremo a Mosca.»

    Frank lo vide portarsi una mano alla tasca. Conosceva la procedura. Nella tasca doveva esserci una siringa ipodermica piena di una qualche droga che gli avrebbe fatto perdere conoscenza.

    Impiegò solo un momento a prendere la sua decisione. Sì, aveva desiderato tornare ancora una volta a casa, prima di morire, ma non così. Sarebbe morto in ogni caso. Quello era un momento buono come qualunque altro.

    Prima che Rostov capisse che cosa stava succedendo, Frank gli afferrò la mano e si lasciò cadere in avanti, conficcandosi la lama nel petto.

    Sorpreso, Rostov fece un passo indietro, ma era troppo tardi.

    «Che cosa hai fatto?» esclamò, mentre Frank Walton scivolava a terra.

    «Ho ucciso il messaggero» mormorò Frank.

    Poi, esalò lentamente un sospiro. Così, questo è morire. Ogni pensiero cessò. Aveva battuto il cancro, dopotutto.

    Due macchine della polizia sfrecciarono davanti all'entrata del vicolo, evidentemente inseguendo l'auto passata poco prima. Ma Rostov era in preda al panico. Aveva sottovalutato quel vecchio pazzo. Chi avrebbe mai pensato che avesse ancora tanta energia?

    Inginocchiato accanto al cadavere, rimosse rapidamente tutti i documenti, poi usò il fazzoletto di Walton per ripulire le impronte dal coltello. Nervoso, adesso, e non volendo essere visto in un vicolo dove giaceva un morto, gettò il coltello in un cassonetto dell'immondizia, poi scavalcò la recinzione in fondo al vicolo.

    A dieci isolati di distanza, sfilò il denaro e i documenti dal portafogli, si mise in tasca la chiave della stanza d'albergo di Frank e gettò il portafogli vuoto in un cestino dei rifiuti vicino a una fermata dell'autobus.

    Il corpo con sarebbe stato trovato fino all'indomani mattina, e ci sarebbe voluto un bel po' per identificarlo. Fiducioso che Walton sarebbe stato considerato vittima di una rapina, Rostov si diresse verso il suo albergo. Il vecchio pazzo aveva sconvolto completamente i suoi piani. Ora, sarebbe stato costretto o a mentire ai suoi superiori, o ad ammettere che era troppo vecchio per quel lavoro, dopotutto.

    Fu solo quando si fermò a un semaforo in attesa del verde che si rese conto che il vecchio aveva pronunciato le sue ultime parole in perfetto russo.

    Imprecò fra i denti, attraversando la strada. Non poteva che sperare di trovare nella camera d'albergo di Walton un indizio che gli permettesse di riabilitarsi agli occhi dei suoi capi.

    Pochi minuti dopo entrò nell'albergo e andò direttamente all'ascensore, fidando di non essere notato. Aveva seguito il vecchio più di una volta, perciò conosceva già il piano e l'ubicazione della camera.

    Non c'era nessuno nel corridoio, quando uscì dall'ascensore. Si diresse verso la stanza 617 senza esitazione.

    Una volta dentro, cominciò un'accurata perquisizione, sperando di trovare qualcosa che aiutasse a spiegare perché Vaclav Waller aveva inscenato la propria morte, e che cosa aveva fatto negli ultimi trent'anni.

    Tutto quello che trovò furono alcuni indumenti fuori moda e un biglietto aereo per Braden, Montana. Il volo partiva alle nove e quarantacinque dell'indomani.

    Rostov rimase un momento in mezzo alla stanza, riflettendo sulla saggezza di ciò che stava pensando. Poi, un mezzo sorriso comparve sul suo viso troppo serio. Aveva i documenti di Walton. Sarebbe stato facile sostituire la propria fotografia alla sua e volare a Braden con il suo biglietto.

    Annuì fra sé, si fece scivolare in tasca il biglietto aereo e cominciò a riporre metodicamente gli indumenti di Walton nella valigia. Non voleva che la direzione dell'albergo si mettesse in allarme scoprendo che il vecchio era sparito.

    Non doveva fare altro che lasciare la chiave della camera sul letto e andarsene con il bagaglio di Walton. L'albergo avrebbe concluso che il cliente se n'era andato, avrebbe addebitato il conto alla carta di credito che senza dubbio Walton aveva dovuto esibire all'arrivo, e nessuno avrebbe avuto sospetti.

    Meno di un'ora dopo, la stanza 617 era vuota e Rostov se n'era andato, portando con sé le ultime vestigia della presenza di Frank Walton a Brighton Beach.

    Il detective Mike Butoli soffriva per le conseguenze di una sbronza e di una frattura all'alluce, quando giunse al lavoro. Il caffè che aveva preso al bar all'angolo, e portato con sé in un bicchiere di carta, era troppo lungo per le condizioni in cui si trovava. Quella mattina, aveva bisogno della ricetta di suo padre, con una buona dose di whisky, e allora, forse, sarebbe riuscito ad arrivare alla fine della giornata. Comunque, suo padre era morto da anni... e per colpa di un momento di debolezza, la sera prima, Mike avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo in un nuovo giorno di sobrietà.

    Ce l'aveva fatta per quasi sei mesi, stavolta, ed era infuriato con se stesso per avere ceduto alla tentazione. Quando beveva, aveva dei blackout, perciò non aveva idea di che cosa fosse venuto prima, il dito rotto o il primo bicchiere; ma visto come si sentiva, in realtà non aveva importanza. Quel maledetto piede gli faceva male quasi quanto la testa.

    «Ehi, Butoli, hai un gran brutto aspetto.»

    Butoli guardò male Larry Marshall e pensò di versare quel caffè da quattro soldi sulla camicia bianca del collega. Poi decise di non farlo. Doveva ancora capire come quel tizio era riuscito a diventare detective.

    Posò il caffè sulla scrivania e fece per togliersi la giacca.

    «Non metterti troppo comodo» disse Marshall. «Ti vuole Flanagan.»

    Butoli girò sui tacchi e si diresse verso l'ufficio del tenente, zoppicando.

    «Ehi, tenente, voleva vedermi?»

    Barney Flanagan alzò gli occhi, poi corrugò le sopracciglia. Butoli era un poliziotto maledettamente in gamba, quando non si attaccava alla bottiglia, ma qualcosa gli diceva che la sera prima aveva avuto un momento di debolezza.

    «Sei sbronzo?» ringhiò.

    «No, signore. Non adesso, signore.»

    «Allora perché diavolo ti appoggi alla mia porta? Stai dritto, maledizione.»

    «Il fatto è che mi sono rotto l'alluce. Mi spiace tanto, ma non posso stare più dritto di così.»

    Flanagan brontolò fra i denti, posando una pratica sulla scrivania.

    «La nettezza urbana ha trovato un morto nel vicolo dietro l'Ivana's Bar and Grill. Vai a fare il tuo lavoro.»

    Butoli prese la cartella senza commenti e fece per uscire.

    «Butoli!»

    Lui si fermò e si voltò.

    «Sì, signore?»

    «Non mi importa un accidente di quello che fai nel tuo tempo libero, ma farai meglio a non bere nel mio, o te la farò pagare.»

    Lo stomaco di Butoli si contrasse. Buon Dio, aveva bisogno di qualcosa di più forte del caffè.

    «E adesso vai a trovarmi l'assassino, e porta Marshall con te» concluse Flanagan.

    «Ma il mio compagno è Evans.»

    «No, da ieri sera. È morto il suo vecchio. È andato nel Tennessee e non tornerà per almeno una settimana.»

    Butoli gemette.

    «Maledizione, tenente, Marshall no. È un rompiscatole.»

    «Sì, ma un rompiscatole sobrio. Ora vai a lavorare, e comportati bene, già che ci sei.»

    Butoli represse un'imprecazione e tornò zoppicando alla propria scrivania.

    «Ehi, Marshall, dobbiamo fare un lavoretto insieme, perciò prendi l'occorrente e vieni con me.»

    Larry Marshall lo guardò male.

    «Questa è molestia sessuale» borbottò, prendendo la pistola dalla scrivania e infilandola nella fondina a spalla.

    «Sei gay?» chiese Butoli.

    Marshall lo fulminò con lo sguardo.

    «No.»

    «Allora non è molestia sessuale. È solo una battuta. Ah... già che ci siamo, guida tu.»

    Marshall sogghignò, mentre andavano all'ascensore.

    «Troppo sbronzo per guidare?»

    «Non ancora» ribatté Butoli, e indicò il buco che aveva tagliato sulla punta dei suoi migliori mocassini. «Mi sono rotto l'alluce, ieri sera.»

    «Peccato che non fosse la testa» borbottò Marshall.

    Uscirono dall'ascensore e si diressero verso il posteggio.

    «Ti ho sentito» lo informò Butoli.

    «Bene. Almeno le orecchie ti funzionano» ritorse Marshall, salendo al volante. «Dove andiamo?»

    «Nel vicolo dietro l'Ivana's Bar and Grill

    Marshall premette l'acceleratore a tavoletta, ricavando un piccolo piacere dal fatto che la faccia di Mike Butoli avesse tutta l'aria di tendere al verde.

    Braden, Montana. Lo stesso giorno.

    Un forte vento sollevò l'orlo del vestito di Margaret Watson, poi minacciò di strapparle il capello nero a tesa larga che aveva deciso di indossare. Afferrò la gonna con una mano e il cappello con l'altra, e si chinò verso la sua migliore amica, Harriet Tyler. Abbassando la voce, guardò la giovane donna in nero seduta vicino alla fossa aperta.

    «Poverina. Ora che suo padre è morto, è completamente sola. Niente marito. Niente bambini. Solo quel grande, vecchio albergo fuori città.»

    Harriet guardò a sua volta la donna in questione, sussurrando: «Non è proprio sola. Ci

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