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Wormhole
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E-book392 pagine5 ore

Wormhole

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Thriller - romanzo (284 pagine) - Nell'Atomo, il nucleo era lei. Loro gli elettroni. Tutti votati alla Scienza. Con l'utopia di realizzare qualcosa di tanto straordinario quanto pericoloso. Qualcosa che avrebbe significato confrontarsi con la loro metà oscura.


Chicago 2010. Reda Valente, Julian Emerson e i fratelli Roger e Paul Richardson: i ragazzi dell'Atomo. Uniti non solo dalla passione per la Fisica e i viaggi nel tempo, ma anche da un legame erotico, contorto e paranoico e un antico segreto. Un legame che sembrava indissolubile, spezzato dalla fine tragica di Roger che innescherà una folle ricerca scientifica: il ritorno al passato per scoprire la verità. Una corsa nel tempo che coinvolgerà molte persone, tra cui il generale Aaron Berger, trascinato in una sorta di ispirata pazzia. Un thriller avvincente, con continui colpi di scena da action movie.


Elena Martignoni e Michela Martignoni, sorelle, milanesi, dopo esperienze nell’insegnamento e nella scrittura teatrale, dal 2004 scrivono insieme romanzi storici, tradotti anche all’estero, e firmano con lo pseudonimo di Emilio Martini per l’editore Corbaccio (gruppo Gems Mauri Spagnol) la serie poliziesca del Commissario Berté, giunta al nono episodio. Collaborano inoltre con riviste e blog in cui scrivono articoli di argomenti storico-culturali. Oltre ai romanzi hanno al loro attivo vari racconti pubblicati in diverse raccolte.

Andrea Novelli e Gianpaolo Zarini vivono a Savona e hanno pubblicato per Marsilio i medical thriller, Soluzione finale, Per esclusione, edito anche ne il Giallo Mondadori, Il paziente zero. Per Feltrinelli la trilogia Manticora. Per Frilli Editore gli hard-boiled Acque Torbide, La Superba Illusione, L’essenza della colpa e Dare e Avere, con protagonista l'investigatore privato Michele Astengo. Nel 2020 hanno pubblicato Blind Spot, medical thriller per Ink Edizioni. Innumerevoli i racconti per diverse antologie tra cui: Anime nere reloaded, Medicina Oscura, Bad Prisma. Tra gli altri lavori, la partecipazione alla saga The tube Nomads di Delos Books considerata dagli appassionati del genere il The Walking Dead letterario, con l'episodio Shockwave. Alan D. Altieri li ha definiti il techno-thriller writing team italiano.

LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2020
ISBN9788825412499
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    Anteprima del libro

    Wormhole - Michela Martignoni

    9788867753161

    Wormhole

    Un wormhole (letteralmente buco di verme), detto anche Ponte di Einstein-Rosen, è un cunicolo spazio-temporale. Una scorciatoia da un punto dell'universo a un altro, che permette – in linea di principio – di viaggiare tra di essi più velocemente di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza attraverso lo spazio normale.

    Il termine deriva dalla seguente analogia: si immagini che l'universo sia una mela, e che un verme viaggi sulla sua superficie. La distanza tra due punti opposti della mela è pari a metà della sua circonferenza se il verme resta sulla superficie della mela, ma se invece si scavasse un foro direttamente attraverso la mela, la distanza che dovrebbe percorrere sarebbe inferiore. Il foro attraverso la mela rappresenta il wormhole.

    Nell’Atomo il nucleo era lei.

    Loro gli elettroni.

    Le mani di Reda sul corpo di Roger.

    La bocca di Paul sul collo di Reda.

    Julian tra le braccia avvolgenti di lei.

    Era così da sempre.

    Wormhole 2001

    Newport, Narragansett Bay

    Il vento freddo dell’Atlantico entrò prepotente dalle vetrate aperte.

    Reda cercò di fermare il tremito che la scuoteva, stringendosi le braccia attorno al corpo.

    Il suo disagio non sfuggì a Roger.

    – Vado a prenderti lo scialle – le disse scambiando uno sguardo d’intesa con Paul e Julian che sedevano accanto a lei. Vuotò il bicchiere di bourbon che teneva tra le mani e lo appoggiò sopra una mensola, prima di allontanarsi.

    Due ore prima, mentre guidava per raggiungere la villa a picco sulla scogliera, dallo specchietto retrovisore aveva spesso osservato Reda che sedeva dietro, accanto a Julian.

    Aveva notato il gesto sensuale con il quale lei si era sfilata lo scialle lasciandolo scivolare sul sedile. Quel pezzo di stoffa costoso che accompagnava l’abito rosso lacca serbava il profumo del suo respiro.

    Roger attraversò barcollando il salone della villa affollato di universitari che si dimenavano al suono di una cover dei The Restraints, suonato con commovente impegno, ma scarso risultato, dal gruppo ingaggiato per la festa

    Si guardò intorno: impossibile trovare qualcuno sobrio. Lo sballo era il diktat della serata.

    Sui divani e sulle poltrone si faceva sesso e non mancavano le professioniste e i professionisti. Speed, XTC, mescolati ai drink e, per i più creativi, miscugli con dosaggi a piacere di Roipnol e Oxycontin. C’era anche chi sniffava Flatliner su vassoi d’argento, dopo averlo ridotto in polvere.

    Un paese dei balocchi per tossici.

    Sesso, droga e rock’n’roll.

    Quella trasgressiva festa di laurea era il momento di gloria del padrone di casa, un compagno del corso di fisica nucleare. Peccato per lui che da un quarto d’ora vomitasse in uno dei bagni dorati della villa di suo padre.

    Riduttivo chiamarla villa.

    Era una sorta di maniero, non lontano dalle semplici case bianche dal tetto rosso che popolavano la baia e soprattutto l’area intorno al piccolo faro. Si ergeva a ridosso della scogliera, circondato da un grande parco con l’erba rasata alla perfezione e attraversato da un intrico di stretti viali in cui la brezza si insinuava portandosi dietro il sapore del mare. L’oceano picchiava duro sugli scogli, rumore di fondo sotto la musica della festa.

    Roger si districò tra gemiti di corpi, violenti colpi di tosse e inspirazioni da guinness che mandavano il cervello in frantumi.

    Aveva in corpo una buona dose di alcol, ma niente droga. La detestava e non gli piaceva perdere l’autocontrollo in quel modo.

    Uscì dal salone e scavalcò un muretto divisorio con un salto mal riuscito, finendo addosso a tre ragazzi che mandavano alle stelle l’inno dell’università con variazioni colorite al testo.

    – Ehi! Che cazzo fai?

    Mentre si rialzava Roger avvertì su di sé i loro sguardi acidi.

    Era conosciuto grazie al suo cognome importante, indigesto a molti. La strofa della canzoncina che i tre gli dedicarono includeva un refrain con insulto donato di cuore a lui e alla sua famiglia.

    – Vaffanculo! – urlò Roger mostrando il medio mentre si allontanava.

    Solo tre idioti. In quella notte si credevano esseri superiori, ma la mattina dopo sarebbero tornati quello che erano: nullità.

    Non erano certo come lui. Roger Richardson.

    Primogenito di uno degli imprenditori più facoltosi del Paese, dotato di un notevole cervello che gli aveva permesso di laurearsi brillantemente in fisica, e la prospettiva di un futuro sfavillante. Era soddisfatto di sé… fatta eccezione per la sua corporatura non proprio prestante.

    Provava di tutto per mettere su muscoli, senza riuscirci. Gli restava un corpo ibrido, con spalle larghe e gambe esili. Una sproporzione che tornava anche nel viso: occhi e naso un po’ ingombranti rispetto alle labbra sottili. I capelli erano cortissimi con un ciuffetto ispido fuorilegge al pettine. Ma quando ci si chiama Richardson, pensava Roger, i piccoli difetti sono particolari insignificanti.

    Si lasciò alle spalle i canti dei goliardi e invece di scendere al posteggio, imboccò il vialetto che portava allo strapiombo sulla scogliera. Aveva bisogno di snebbiare la mente persa nello scotch e nei dannati intrugli che aveva bevuto.

    Incontrò due ragazze, mezze svestite, che trattenevano un cameriere imbarazzato promettendogli paradisi di sesso. Cercarono di fermare anche Roger, ma lui le evitò mandandole al diavolo. Girandosi vide che seguivano il cameriere che correva verso la villa.

    Solo insignificanti puttane.

    Scrutò davanti a sé. Notte livida, odore di oceano.

    Perché era finito lì, a ridosso di quel precipizio?

    Forse voleva caricarsi, dimostrare a se stesso di avere le palle. Gli sarebbe piaciuto avere il coraggio di sporgersi a guardare i flutti rabbiosi e lo avrebbe fatto se ci fossero stati una protezione, un parapetto, qualcosa a cui aggrapparsi.

    Il rimbombo delle onde nere lo colpì come un pugno nel petto.

    Fece un respiro profondo e avanzò di una decina di passi. Il terreno era molle, cedevole, e le suole di cuoio dei mocassini scivolavano sull’erba viscida. La sensazione era quella di camminare sopra un pavimento incerato.

    Roger tentò di ignorare il battito accelerato del cuore e si spinse fino al bordo estremo. Sotto di lui l’Atlantico si incattiviva contro gli scogli. Strinse i denti, resistendo alle folate del vento, ma lottò solo per pochi attimi, poi un conato di vomito gli strinse la gola.

    Arretrò di qualche metro dal precipizio, a distanza di sicurezza.

    Il rumore del mare incazzato però lo eccitava.

    Si sentiva euforico… forse doveva ritentare… ignorare i limiti e superarsi.

    L’intraprendenza la metteva in ogni cosa, spingendola fino alla prevaricazione. Per lui non esisteva il termine sognare, ma uno più pragmatico: realizzare. Si riteneva un tiranno col sorriso, un tipo da prendere con le molle.

    L’unica incrinatura nella sua convinzione di onnipotenza era Reda.

    Roger scrollò la testa per liberarsi da quel pensiero.

    No, Reda non era un pensiero. Reda era un’ossessione.

    L’ossessione di volerla soltanto per sé.

    Niente di più allettante che immaginarla in una bella casa, luci soffuse, arredamento hi-tech… lei che lo aspettava sdraiata sul letto coniugale e che gli si offriva come sapeva fare… solo sua. Senza doverla dividere con nessuno, nemmeno con gli altri dell’Atomo.

    Paul e Roger Richardson, Reda Martini e Julian Emerson. L’Atomo, così li chiamavano ai tempi della high school.

    Al college erano diventati inseparabili e in seguito si erano laureati in fisica nucleare con il massimo dei voti. Amici fino a conoscere ogni intimo desiderio l’uno degli altri. Amici nel bene… e nel male.

    Adesso però si era stancato di quella storia. Da mesi lo ripeteva a Reda: era logico, naturale, che diventasse sua moglie. L’età dei giochi a quattro era terminata, era stato da sballo scopare tutti insieme, ma l’adolescenza era finita da un pezzo… al diavolo l’Atomo e le sue regole!

    Doveva fare un discorso chiaro a Paul e Julian: era il maggiore dei tre ed era ovvio che fosse lui a decidere la fine di quel rapporto complesso. Reda lo preferiva agli altri, la loro complicità e il loro accordo erano evidenti… avevano accettato quel groviglio di relazione solo perché… perché era stato un gioco eccitante venerare il corpo di lei, gareggiando per accontentarla, vincendo i pregiudizi solo perché lei non fosse costretta a scegliere.

    Ora basta con le stronzate da ragazzini!

    E poi lui si era stancato anche di dividerla con la scienza.

    Già, la scienza…

    Un altro ostacolo da superare per avere Reda tutta per sé.

    La fisica era diventata un martellante ritornello fin da quando erano adolescenti. Era una barriera tra i loro sentimenti e la completa felicità. Andava rimosso. Senza rimpianti e senza indugi.

    Sentì un rumore di passi e si voltò d’istinto.

    – Un Margarita?

    Roger lo prese e se lo scolò.

    Fra le sue dita i capelli fini e biondi di Reda si aprivano come sabbia. Non si stancava mai di accarezzarli, di sentirne la morbidezza, di coglierne i riflessi ambrati. Julian la baciò sul collo.

    Erano soli, seduti sopra un tappeto.

    Roger era sparito da quasi un’ora e Paul era scappato in bagno a vomitare l’anima.

    Lui e Reda si erano ritrovati in quella sala tappezzata di quadri d’arte contemporanea e strapiena di sculture pop art. Una stanza kitsch di cui ridere, se non fosse stato per il valore spropositato delle opere.

    Ogni volta che restava solo con lei Julian doveva lottare contro l’istinto di baciarla. E anche a quello di strapparla agli altri… ma questo significava tradire le regole dell’Atomo e lui non era pronto a farlo.

    Reda socchiuse gli occhi verde chiaro, grandi nel volto fine.

    – Non è stata una buona idea.

    Parlava con voce roca e in tono smorzato.

    A cosa si riferiva? Alla seduta spiritica per cercare di rincontrare Bill o al loro modo di essere gruppo?

    Era bastato che una delle ragazze della festa accennasse alla sua capacità di comunicare con l’aldilà per scatenare l’entusiasmo. Recuperare un tavolo rotondo non era stato difficile. Trovare altri partecipanti per formare la catena nemmeno. Non ricordava chi avesse proposto di rievocare Bill. Julian però, si era rifiutato di farlo. Si era seduto sul divano con una bottiglia di whisky in grembo cullandola come un bambino. Con l’attenzione alterata di un ubriaco aveva fissato l’esperta cadere in trance dopo essersi fasciata la testa con una tovaglia.

    La rievocazione di Bill era riuscita con un botta e risposta da sketch televisivo. Un Saturday Night Live per dementi. Uno della catena aveva anche fatto piedino a Reda sotto il tavolo, mentre Bill rispondeva dall’Aldilà con la voce squillante di Paperino.

    Una tragicomica di pessimo gusto.

    Reda era stata la prima a spezzare la catena e ad alzarsi tra i seccati richiami degli altri.

    Aveva guardato Julian che teneva le labbra attaccate alla bottiglia e gli occhi semichiusi. Nessun risentimento, almeno all’apparenza.

    Lo stava osservando anche ora e vedeva quello che aveva sempre visto da quando si erano conosciuti. Una persona impalpabile, spesso assente. Un atteggiamento neutro e passivo che faceva scomparire anche il fisico longilineo e muscoloso, ravvivato da una ondeggiante chioma castano chiara.

    Lo sguardo si spostò sulla bocca. Il suo sorriso accattivante non si illuminava al di fuori dell’Atomo.

    Si accorse di un gioco di luce che si spense nelle tinte scure della camicia.

    I colori accesi non facevano parte del suo guardaroba, come le passioni del suo carattere. Centellinava le sensazioni, le teneva a freno, severo addestratore delle sue debolezze. Soltanto un sentimento non riusciva a zittire: l’amore per lei.

    – Sì, non è stata una buona idea… – rispose lui senza smettere di accarezzarle i capelli. – Bill è ancora tra noi.

    – No, è morto.

    – Non ne parlavamo da secoli, perché farlo proprio stasera?

    – Perché abbiamo bevuto più del solito.

    Reda fermò con decisione la mano di Julian e se la portò alle labbra. La baciò sul palmo, passando la lingua tra i solchi della pelle senza smettere di guardarlo negli occhi. Iniziò poi a succhiarne la punta delle dita.

    Julian sentì esplodere l’erezione. La prese tra le braccia rovesciandola sotto di sé. Ma Reda si liberò con delicatezza dall’abbraccio e si alzò.

    – Dove vai? – le chiese in un sussurro Julian, cercando di trattenerla.

    Reda gli sorrise e gli passò quasi con violenza una mano sulle labbra.

    – Non vorrai seguirmi anche in bagno?

    – Fai in fretta… piccola… non lasciarmi così…

    – Mentre mi aspetti vai a prenderti qualcosa da bere e vedi se in questo casino riesci a trovarmi del Krug.

    Julian assentì mentre lei usciva dalla stanza sistemandosi l’abito con mosse sensuali e si guardò la mano dove Reda aveva appoggiato le labbra.

    Possibile che bastasse così poco per sentire quel desiderio feroce che non si esauriva mai?

    Si diede una sistemata ai capelli e si alzò dirigendosi verso un tavolo pieno di bottiglie. Meglio stordirsi con qualcosa di forte che farsi domande senza risposte. Meglio scolarsi un cocktail bello tosto e uscire a prendere una boccata d’aria che non puzzasse di alcol e di corpi eccitati.

    Una spallata lo fece sussultare e i due calici che aveva in mano cozzarono tra loro. Julian si voltò seccato.

    Benny!

    Qualcuno gli aveva detto che era stato in Europa a studiare e infatti erano anni che non lo vedeva. Era cambiato: negli occhi obliqui brillava una luce diversa, decisa. Vestiva come un hippy: maglietta arancione lunga e sfilacciata, pantaloni sformati e sandali di cuoio. Non era un look… da Benny. Lo ricordava come uno studente modello un po’ sfigato, in golfino e camicia, calze bianche e mocassini. Che strano vederlo così.

    Il cinoamericano non disse nulla e proseguì verso il centro della sala. Forse non lo aveva nemmeno riconosciuto.

    Paul entrò di corsa. Scaraventò a terra il bicchiere che teneva in mano e si appoggiò al lavandino. Nel bagno rivestito di marmi e cromature da design, qualcuno era stato male prima di lui. L’inconfondibile odore di vomito lo stimolò a rivuotare una seconda volta nella tazza il fuoco che aveva nello stomaco.

    Che schifo! Aveva davvero esagerato.

    La seduta spiritica, poi! Roba da adolescenti. A chi era venuta l’idea? A una balorda con l’exstension porpora che si spacciava per medium.

    Lui non ne voleva sapere, ma l’avevano sollevato di peso e portato al tavolino. Per sentirsi meno ridicolo aveva continuato a bere e sniffare la roba che gli portavano sui vassoi senza risparmiarsi.

    Una sorta di missione che si era ripromesso di portare a termine in quella serata selvaggia.

    Temeva di passare per mediocre, anche se intimamente aveva la certezza di non esserlo. Una prova era la sua strepitosa abilità matematica che gli aveva procurato numerosi riconoscimenti scolastici. Ma a volte questo non gli bastava per vincere l’insicurezza che lo bloccava.

    Allora, per non restare in ombra davanti all’intraprendenza di Roger, faceva lo strafottente, usciva dalle righe ed esagerava.

    Tanto se lo poteva permettere, era un Richardson!

    Il suo mascellone steroideo, da divoratore incallito di hot dog, e il suo fisico da palestrato – quello che suo fratello sognava e non aveva – gli impedivano comunque di scomparire nell’anonimato della massa. E di donne ne aveva anche troppe. Gli stavano sempre addosso, attirate dai suoi muscoli e dai suoi quattrini. E lui non si tirava indietro, però… con quelle era diverso. Si divertiva, certo, ma non come con Reda… con lei saltavano i circuiti. Forse perché mentre godeva non si dava completamente, perché non era sua fino in fondo, perché era così candida e perversa.

    Solo in laboratorio cambiava. Lì era la dottoressa Reda Martini, un cervello leonardesco, una competenza da Nobel, una volontà da kamikaze.

    Paul si sciacquò la faccia e, vincendo il ribrezzo, si asciugò con l’unico lembo pulito di un asciugamano stazzonato.

    Uscendo dal bagno incontrò Julian che non sembrò contento di vederlo. Teneva in una mano un Margarita e nell’altra un calice pieno di un liquido paglierino dal persistente perlage. Senza dubbio uno champagne di ottima marca.

    – Ehi, hai visto gli altri?

    – Reda è in bagno e Roger non l’ho più visto da quando è andato a prendere lo scialle in macchina. Visto quanto ci mette, avrà trovato qualcosa di meglio da fare!

    – Questa festa è una vera palla… più che bere e sniffare non c’è altro da fare…

    – Forse non hai bevuto abbastanza… a me non sembra male.

    – Hai ragione, dovrei fare un altro pieno… dove hai preso quella roba?

    Julian gli indicò un tavolo poco lontano.

    – Krug?

    Julian annuì.

    – Per Reda?

    Julian annuì di nuovo. Paul fece un sorrisetto.

    – A lei piace solo quello…

    Una ragazza bruna gli si parò davanti.

    – Paul Richardson? Che ci fai qui?

    Paul la guardò per un attimo. Dove aveva già visto quel nasino all’insù e soprattutto quelle tette sublimi? Poi il suo sguardo si illuminò.

    – Fiona Ross! È dal campeggio scout che non ti vedo! Sei cresciuta, bambina!

    – Sì, lupetto, me lo dicono tutti. Anche tu non scherzi… – Gli lanciò uno sguardo sfrontato. – Adesso mi racconti cosa hai fatto in questi dieci anni…

    Lo prese sotto braccio e lo trascinò via.

    Julian bevve una sorsata e sorrise vedendo Reda che lo raggiungeva mimando un passo di danza.

    – Bravo, il Krug!

    – Per la mia regina – disse Julian porgendole la flute.

    Reda ebbe un piccolo tremito.

    – Hai ancora freddo?

    – No, solo qualche brivido. Intanto posso bere questo per riscaldarmi.

    La punta della sua lingua cercò l’aroma capriccioso dello champagne sulle labbra sensuali.

    – Ti voglio – le sussurrò Julian.

    La bocca di lei indugiò sull’orlo del bicchiere.

    Un sorriso, quindi un altro sorso.

    Lento e incantevole.

    Non la paura o l’istinto di sopravvivenza.

    La sorpresa, fu la prima, devastante, sensazione per Roger.

    Capì di non avere il tempo per rivedere la sua vita prima di morire.

    I suoi pensieri erano polvere, frammenti di quello che era stata la sua mente.

    Rimaneva solo la percezione di volare.

    Movimenti parossistici di braccia e gambe che cercavano di rallentare la caduta verso l’abisso e consapevolezza che agitarsi era inutile.

    Poi il primo urto contro la roccia. Urlo, dolore, rumore di ossa che si spezzano, carne che si lacera, tendini che saltano.

    Infine le acque livide, avvolgenti, fredde, rigeneranti, ma solo per un istante, prima dell’anestesia della morte.

    Gli occhi rivolti verso l’alto, verso quelle mani ancora protese. Le mani che lo avevano spinto.

    Nel buio dell’eternità.

    Non fu un bel risveglio. L’ululato delle sirene spaccava l’aria frizzante del mattino e si incuneava feroce nella sua testa ancora avvolta nel sonno.

    Paul aprì a fatica gli occhi e si alzò appoggiandosi a un gomito. Il rumore insistente gli penetrava nelle tempie come una raffica continua di spilli. Si guardò intorno. Era sdraiato sopra un letto matrimoniale e accanto a lui dormivano due ragazze nude.

    Com’era finito lì non se lo ricordava. Così come non ricordava niente della festa, se non la sbronza epocale e gli eccellenti fuoripista di neve bianca.

    Si alzò barcollando e si affacciò alla finestra.

    Lo schieramento di poliziotti presente nel giardino lo impressionò. Doveva essere successo qualcosa di grave per movimentare tutti quegli agenti.

    – Ehi, che fai?

    Una delle ragazze, quella bionda e rifatta, si era svegliata e si stropicciava gli occhi stiracchiandosi.

    – C’è la polizia qua sotto… – le disse Paul raccogliendo i vestiti da terra – …è meglio che tu e la tua amica vi rivestiate.

    Si infilò pantaloni e camicia e ancora scalzo corse giù per la scalinata. Stava per uscire in giardino quando un peso massimo in divisa lo prese per un braccio.

    – Dove vai?

    – Fuori!

    – Non fare lo spiritoso e vai con gli altri nel salone.

    – Posso almeno sapere…

    – Le risposte dopo le nostre domande. Adesso dentro!

    Paul si ritrasse. Discutere con l’energumeno non sarebbe servito. Si guardò intorno e si accorse che gli altri erano davvero riuniti nel salone. Finita l’allegria, finita la festa. Si sentiva solo un brusio sommesso. Un numero imprecisato di agenti si aggirava interrogando gli invitati.

    Paul cercò l’Atomo con lo sguardo.

    Scorse Julian che stringeva Reda e le asciugava le lacrime. Si avvicinò di corsa a loro. Reda vedendolo gli si buttò fra le braccia.

    – Paul! Paul! Dov’eri? – domandò disperata.

    – Cos’è successo?

    Paul la allontanò da sé prendendola per le braccia e scuotendola.

    – Parla, Reda!

    Ma lei non riusciva a rispondere. Tremava e piangeva con singhiozzi che le impedivano quasi di respirare.

    Paul guardò sconvolto Julian.

    – Spiegami, almeno tu!

    – Si tratta… si tratta di Roger.

    – Roger?

    – È caduto dalla scogliera… stamattina un giardiniere ha visto un corpo sugli scogli… con una polo arancione… è lui…

    Paul spalancò la bocca, ma non usciva nessun suono dalla sua gola diventata di colpo stretta, incapace di parlare.

    – Roger è morto. – concluse Julian.

    Un agente si avvicinò a Paul.

    – Chi è lei?

    Paul non lo guardò nemmeno. Pensava a Roger che volava dalla scogliera, che si schiantava sulle rocce. Immaginò suo fratello ridotto in brandelli…

    Roger morto? No, non poteva essere! Poche ore prima erano… dov’erano? Stavano parlando di… cazzo! Non riusciva a ricordare quando l’aveva visto l’ultima volta.

    – Allora? Mi ha sentito? – L’agente si faceva incalzante.

    – È Paul Richardson… il morto è suo fratello – rispose per lui Julian. – L’ha saputo adesso… cerchi di capire…

    Il poliziotto si fece meno minaccioso.

    – Non muovetevi di qui, sta arrivando l’ispettore.

    L’ispettore Frank Taylor non doveva aver dormito bene quella notte. Forse non aveva dormito affatto.

    Incarnito grigiastro, borse sotto gli occhi ridotti a fessure blu, circondate da umore rosso e corrosivo. Era sbarbato di fresco, saturo dell’odore di un dopobarba acquistato nello stesso drugstore dove era stata comprata la cravatta da pochi dollari che cadeva su una camicia azzurro sbiadito. E saturo anche di fumo.

    Quello della West Blue che si ostinava a consumare in tirate svogliate.

    Li aveva interrogati per un’ora, ascoltando senza commentare le loro dichiarazioni sulle ultime ore.

    Li disprezzava. Erano ricchi, viziati e viziosi.

    Odiava il loro modo autodistruttivo di divertirsi, la loro puzza di quattrini, di scotch invecchiato, di droga non tagliata.

    Reda aveva smesso di piangere, ma dalle labbra pallide usciva a tratti un singulto che la faceva sobbalzare. Julian le circondava le spalle con un braccio e le baciava una tempia, sussurrandole parole incomprensibili. Paul, seduto su una sedia, si teneva la testa con le mani come se temesse di vederla scoppiare da un momento all’altro.

    – Bene… – si decise alla fine Taylor – non avete più rivisto Roger Richardson. Si era allontanato per prendere lo scialle della signorina dimenticato in macchina… ma pur non vedendolo tornare in un tempo ragionevole, voi avete continuato a divertirvi come se niente fosse…

    – Mio fratello non era un bambino! – esclamò Paul cercando di trattenere la rabbia.

    Taylor assentì con un sorriso simile a una smorfia di spregio e tirò un’altra boccata di fumo.

    – Roger era un po’ brillo, ma era lucido – intervenne Julian. – Tutti andavano e venivano senza controllo.

    – Quindi ve ne siete fregati di sapere dove fosse finito.

    – Perché avremmo dovuto preoccuparci? – scattò Paul.

    – Era ubriaco… fatto come gli altri – insinuò Taylor.

    Paul si alzò facendo cadere la sedia dietro di sé.

    – No! Roger non prendeva droghe… beveva forte, questo sì, ma niente pasticche o altro.

    Nelle fessure blu del tenente si accese un lampo di interesse.

    – Sbronzo comunque lo era. L’hanno visto dirigersi barcollante verso la scogliera… – La domanda che seguì era carica di ironia. – Forse voleva prendere una boccata d’aria fresca?

    – La vuole smettere di fumarmi in faccia? – si irritò Paul.

    – No – gli rispose secco l’ispettore.

    – No?

    – Mi aiuta a pensare.

    – Sì, ma non addosso a me, mi da fastidio – confessò Paul.

    – Peccato – chiuse la faccenda Taylor.

    Reda lo fissò con gli occhi pieni di lacrime, ignorando il suo sarcasmo.

    – Mi sento in colpa… si è allontanato solo per prendere il mio scialle… e… e non è più tornato…

    Lo sguardo che Taylor le rivolse era la cosa più simile alla comprensione umana che in quel momento riuscisse a esprimere.

    – Pensa che qualcuno lo abbia attirato alla scogliera? – proseguì.

    – Come attirato? – Paul lo guardò allibito. – Non penserà che sia stato spinto di sotto?

    – È mio dovere non scartare nessuna ipotesi.

    – E chi mai…? È assurdo!… Ehi, ma lei è della Omicidi? – si inalberò Paul.

    – Sì.

    – Allora per la polizia non è stata una disgrazia? – suppose Paul.

    – È prassi che intervenga subito la Omicidi, così si risparmia tempo. Se si tratta di altro, io mi faccio da parte e il caso passa in altre mani.

    Paul avrebbe voluto ribattere, ma il tono di Taylor lo convinse che non avrebbe trovato comprensione in lui. Per il poliziotto era soltanto un fottuto lavoro e niente di più.

    – Anche se fosse, chi poteva odiare Roger fino a quel punto? – Julian guardava gli amici disorientato.

    – Dovreste dirmelo voi.

    Li fissò uno per uno, nessuno di loro parlò.

    – E adesso? – chiese infine Julian.

    – Aspetto gli esiti della scientifica e poi sarò più preciso.

    Reda scoppiò di nuovo in singhiozzi. Taylor si lasciò sfuggire un sospiro. Dopo trent’anni di polizia, non ne poteva più di lacrime.

    – Devo chiamare mio padre! – gridò Paul picchiando un pugno contro il muro.

    – Stia calmo! L’abbiamo già chiamato noi, suo padre.

    – Quando?

    – Mentre lei era ancora nel mondo dei sogni – rispose Taylor con un accenno di accusa. – Sarà qui tra poco. Voi non vi allontanate. Questa è la scena del crimine, fino a prova contraria – sibilò a conclusione.

    Girò le spalle e ordinò a due agenti di restare con loro.

    – Chi comanda qui dentro?

    Una voce da girone dantesco e una mano come un arpione attorno al braccio destro costrinsero Taylor a fermarsi.

    Davanti a lui la maschera tragica di un uomo.

    – Voglio vederlo – pretese.

    Taylor lo fissò cercando nella sua esperienza parole adeguate.

    – Non sarà uno spettacolo piacevole, signor Richardson.

    – Mi porti subito da lui.

    Un’ampia zona del parco era stata circoscritta dalla polizia con il nastro giallo, impedendo ai non

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