Child In Time
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Narrativa - racconto lungo (35 pagine) - Una storia ispirata dalla canzone Child in Time dei Deep Purple. Un racconto su come la musica ci aiuta a interpretare il mondo che ci circonda. E a comprendere la nostra vera anima.
Giada e Davide: una giovane coppia prossima al matrimonio. Così diversi e così fatti uno per l’altra, pare. Due facce della luna fuse alla perfezione tra loro. Lui: biondone dagli occhi cerulei e lineamenti teutonici, con la pelle tendente all’olivastro. Lei: mediterranea in tutto, tranne che nell’incarnato pallidissimo. Brad Pitt e Morticia Addams in giro a braccetto. Lui: corpo scolpito in palestra, cibi sani, alcolici sporadici e moderati. Lei: fisicamente pigra, mai messo piede dal parrucchiere o dall’estetista, amante del cibo spazzatura, della birra e della vodka. Lui: abbigliamento classico, elegante con stile sobrio e sempre appropriato. Lei: a metà strada tra il metallaro e l’hippie. Lui: stimato avvocato. Lei: scrittrice di racconti pornografici. Entrambi però ricchi di famiglia (per motivi ben differenti), fedeli, sinceri, solari, generosi, con valori comuni come l’amicizia, l’attenzione per il prossimo, il rispetto per la natura… Soprattutto: innamorati. Tutto fantastico, perfetto, incastrato, quindi? Eh, no… Perché a mettersi in mezzo arriva un capolavoro assoluto della musica moderna: Child in Time dei Deep Purple.
Un racconto su come la musica ci aiuta a interpretare il mondo che ci circonda. E a comprendere la nostra vera anima.
Milena Contini (Milano, 1981) è professoressa a contratto di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Torino e TD per l’area umanistica dell’Università eCampus, inoltre collabora con l’Universidade de Santiago de Compostela al progetto internazionale Arprego. Dal 2006 ad oggi ha insegnato Letterature comparate, Narratologia e Digital creativity presso diversi corsi di studio dell’Università di Torino (Dams, Lingue Straniere, Scienze della Formazione) e presso il corso di Ingegneria del Cinema del Politecnico di Torino. Ha sempre affiancato alla docenza l’attività di ricercatrice e la scrittura, sia di tipo scientifico sia di tipo creativo: ha pubblicato tre monografie (Le Afriche di Marinetti; Il diario di Emilia Doria di Dolceacqua; La felicità del savio), due edizioni critiche di commedie settecentesche (Il poeta; L’adulatore), oltre quaranta articoli scientifici e numerosi articoli per quotidiani e riviste (Tuttosport; E polis; Minerva; Correre nel verde; On the road; Il Pendolo). Fin dall’adolescenza si diverte a pubblicare in periodici e antologie racconti e poesie. Per Delos Digital, cura la collana Immortali, dedicata alla riproposta di opere della letteratura italiana.
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Anteprima del libro
Child In Time - Milena Contini
Sono una cartolina diretta al mondo
Non chiudetemi nella busta…
Parouir Sévak
1
Che bella coppia!
Tutti ci ripetevano questa frase esclamativa: parenti, amici, semplici conoscenti, camerieri, passanti, nonnette in fila al supermercato, venditori di pannocchie arrostite. Insieme facevamo luce. Due facce della luna fuse alla perfezione tra loro. Eravamo diversi, ma ci completavamo, creando un quadro d’insieme da ammirare. A volte avevo come la sensazione che le persone con cui ci capitava di interagire fossero in realtà accomodate su una confortevole poltrona di velluto bordeaux e ci osservassero sgranocchiando popcorn come al cinema: noi rappresentavamo lo spettacolo della felicità.
Eravamo diversi, dicevo.
Sì, lo eravamo decisamente. A partire dal piano estetico: Davide era un biondone dagli occhi cerulei e i lineamenti teutonici (ereditati di sicuro dalla nonna olandese), ma la sua pelle tendeva all’olivastro, mentre io ero mediterranea in tutto, a parte che nell’incarnato pallidissimo e, a tratti, quasi spettrale. Brad Pitt e Morticia Addams in giro a braccetto. Lui teneva tantissimo al suo aspetto: scolpiva il suo corpo in palestra, mangiava sano, alzava raramente il gomito, mentre io non facevo un passo, non avevo mai messo piede dal parrucchiere o dall’estetista, mi strafogavo di cibo spazzatura e filtravo litrate di birra e vodka di grano. Anche l’abbigliamento era agli antipodi: lui classico, elegante senza l’ombra di affettazione, sobrio e appropriato in ogni situazione, io sempre e comunque fuori luogo con i miei tre vestiti gualciti, dallo stile a metà strada tra il metallaro e l’hippie. Avevo due paia di scarpe (infradito rosa Schiapparelli per la stagione primavera-estate e anfibi dark per quella autunno-inverno), lui pareva ne avesse uno per ogni occasione. Se passiamo all’ambito lavorativo, poi… Davide era uno stimato avvocato che, nonostante i suoi trentatré anni, era già in lizza per diventare partner in un prestigioso studio del centro di Milano, la sottoscritta invece si manteneva scrivendo racconti pornografici e vendendo sculture fatte con la lingua (sì, avete capito bene: usavo materiale non tossico e realizzavo creazioni artistiche utilizzando solo la mia lingua come strumento di lavoro). C’è da dire che entrambi eravamo ricchi di famiglia, solo che suo padre aveva fatto fortuna fondando varie società di consulenza, mentre il mio era un giocatore d’azzardo e un truffatore che si era fatto anche qualche fugace soggiorno nelle patrie galere.
Nonostante le diversità, ci amavamo profondamente e andavamo d’accordo su ogni sfumatura dell’esistenza. Ambedue eravamo fedeli, sinceri, solari, generosi e ci impegnavamo con passione a rendere indimenticabile ogni istante dell’esistenza dell’altro. Condividevamo gli stessi valori (la sacralità dell’amicizia, l’attenzione per il prossimo, l’amore per gli animali, il rispetto per la natura) e ci sentivamo davvero grati nei confronti del destino per aver trovato una persona alla quale abbandonarci con la certezza di essere compresi e accolti. In verità, tra le persone che esclamavano Che bella coppia!
ce n’era almeno una che mentiva: la mamma di Davide, infatti, avrebbe voluto gridare Che bello che sei, bambino mio! Ma che bello? Bellissimo! Perfetto! Peccato tu abbia preso una sbandata per quell’indecente disadattata…
. Ma era troppo ipocrita per verbalizzare i propri pensieri. Non le restava, quindi, che trincerarsi dietro a falsi sorrisi e complimenti di cartapesta. Comunque, non bisognava essere Sherlock Holmes per accorgersi che mi detestava: odiava il mio modo di fare, le mie attività lavorative