A caval donato
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Info su questo ebook
Le vicende attuali si intrecciano con quelle del passato, ricalcandole pressoché esattamente e facendo rivivere, quasi in senso stretto, un antenato di Stefano noto per i suoi eccessi.
Lorenzo, con l’aiuto dell’amico Alessandro e, marginalmente, del gatto Konrad, riesce a scoprire una serie di misteri, usando le proprie conoscenze psichiatriche.
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Anteprima del libro
A caval donato - Franca Pezzoni
Personaggi principali
Konrad: gatto
Lorenzo Pedemonte : padrone di Konrad e psichiatra
Stefano De Marini: ex compagno di scuola di Lorenzo
Ada De Marini: madre di Stefano
Simonetta De Marini: sorella di Stefano
Chiara De Marini: sorella di Stefano
Sergio Terrile: antiquario
Don Filippo: professore di filosofia
Don Raimondo: direttore di un’ente benefico
Alessandro Delfino: ingegnere della AMT
Giacomo Canepa: direttore di banca
Sergio di Matteo: amministratore di condominio
scia Texu: colf
Caterina: colf e cognata di scia Texu
1
Una settimana fa le cose erano molto diverse.
Dovrei dire totalmente diverse, ma la tendenza all’understatement che tutti in città abbiamo nel sangue mi impedisce di usare espressioni troppo emotive.
Ricordo di aver letto, tanti anni fa, un’intervista a un genovese emigrato a San Francisco, subito dopo il terremoto.
Scene di distruzione, apocalissi, lui stesso era dovuto andare a vivere in albergo. Beh, non è che le scosse siano poi state così forti...
.
E un’altra volta un vecchio, all’Euroflora, davanti a un trionfo di fiori tropicali:
Che esagerazione di orchidee
.
(Io stesso, mi ricordo, avevo girato qua e là alquanto a disagio, finché non mi ero fermato davanti a un’aiola, pensando tra me: Che bello
; poi avevo letto la didascalia: Riproduzione di sottobosco ligure
).
Tornando all’argomento, tutto mi sembra diverso: la mia stessa casa, i mobili, i libri in disordine, che prima mi parevano così normali da essere noiosi.
Vado da una stanza all’altra, poi prendo la porta per uscire, ma torno dopo aver fatto il giro dell’isolato.
So che non è un buon segno, quando gli oggetti familiari cominciano a sembrare estranei: si rischia di andare verso la depersonalizzazione, sintomo che mi hanno raccontato parecchi pazienti, ma che non ho mai provato.
Eppure nella mia esistenza personale, in fin dei conti, non è cambiato veramente nulla. Fino a una settimana fa la mia vita è stata tranquilla, per quello che può consentirlo il mio lavoro, tranquilla come volevo io e come si augurano tutto sommato tutti i cittadini di Genova.
Poi, venerdì scorso, mi misi un paio di jeans un po’ più nuovi, una maglietta di marca nota ma vecchia, scesi in piazza Colombo a comprare una bottiglia di Pigato e andai a piedi fino a De Ferrari, poi giù in piazza Matteotti e ancora più giù in salita Pollaioli, per andare a trovare il mio ex-compagno di scuola De Marini.
Negli ultimi due mesi lo avevo visto qualche volta.
Ci eravamo incontrati per caso al cinema, dopo anni che non ci vedevamo.
Io me lo ricordavo molto diverso: mingherlino, taciturno e non esente da acne giovanile.
Eravamo stati compagni di scuola, al Simon Boccanegra (il nome del liceo è un altro, l’ho cambiato).
A scuola quasi ci ignoravamo, io, a dire la verità, ero molto più amico di quelli della sezione vicina, non so perché, anzi se ci penso so benissimo perché.
Quel venerdì sera non mi dispiaceva vederlo.
Sapevo che cucinare non era esattamente la sua passione, e avermi invitato voleva dire che mi considerava degno dello sforzo di far da mangiare.
Al cinema, quando lo avevo incontrato dopo tanto tempo, lui era parso davvero contento di vedermi.
Fisicamente era molto migliorato, quasi incredibilmente: di statura media, sottile ma ben proporzionato, occhi neri, capelli corti neri. Mi aveva detto:
Sei rimasto uguale
.
È vero, me lo dicono in molti. Mi andrebbero ancora bene i vestiti di quando avevo vent’anni, non sono cambiato di un millimetro. Sono asciutto e bruciato dal sole, come buona parte dei miei concittadini, così olivastro da essere in pratica scuro tutto l’anno.
Sono nero di occhi e di capelli, ho la bocca grossa e gli occhi grossi, è una caratteristica di famiglia, la vedo in tutti i ritratti, fin dal secolo scorso. Quella che mi stupisce è l’espressione determinata, che mi viene fuori in fotografia e che vedo venir fuori a tutti i parenti, quando poi in realtà determinati non lo siamo.
O lo siamo a modo nostro, quasi senza accorgercene.
Forse l’impressione dipende dal naso, anche quello dritto, pronunciato come tutti i lineamenti, dalla ruga in mezzo alle sopracciglia e dai solchi tra naso e bocca.
La determinazione, almeno la mia – di quella dei miei parenti non posso parlare – è triste, dura e rassegnata, tipica di tutte le epoche di decadenza, in cui è necessaria molta energia semplicemente per tirare avanti, quando si sa che non serve a niente, ma si vuole in qualche modo tenere alta, se non la bandiera, almeno la testa.
Questa è la vera atmosfera che ho sempre respirato, che qui è nell’aria più del salino o dell’inquinamento.
Per cui viene fuori un insieme di debolezza e di forza, o meglio di resistenza tenace, fine a se stessa: si sopporta tutto, si resiste a tutto, ma mancano l’arroganza o la spontaneità, o tutt’e due, che servirebbero davvero a farsi largo.
Tornando a De Marini (sembra chiaro che voglio cambiar discorso), gli avevo sorriso, eravamo andati in un bar.
Sapeva, non so da chi, che facevo lo psichiatra. Io ignoravo con bella indifferenza tutto di lui. Lo avevo sempre ignorato, anche al liceo.
Mi ero accorto, parlandogli, che c’era qualcosa che non andava: ormai per me è una seconda natura, me ne accorgo anche dal salumiere, quando noto che il commesso è malinconico mentre serve due etti di prosciutto.
È meglio dire che è una prima natura e che anzi il mio lavoro tenderebbe a indurirmi, a farmi trincerare dietro definizioni sbrigative.
Lo avevo sentito triste e avevo cercato, proprio per impulso, perché ho il cuore tenero, di metterlo a suo agio senza essere per questo invadente.
Non è altruismo, tutt’altro: non mi piacciono le tensioni, la gente scontenta, mi piace che tutto fili liscio.
Gli avevo fatto un effetto enorme, spropositato, sembrava un cane abituato alle botte che per una volta riceve una carezza.
2
De Marini (ci eravamo sempre chiamati per cognome e non vedevo perché avrei dovuto cambiare allora), dopo un po’ che camminavamo per la piazza, mi aveva invitato a salire a casa sua.
Il palazzo era uno di quelli tipici del centro storico, che un po’ tendono a tornare di moda e un po’ no e vengono affittati ai marocchini.
Il portone, dentro, era altissimo, con le solite colonne di marmo, la solita fontana in fondo, le solite cariatidi curve e ritorte. Per noi è normale, ma mi immagino che possa stupire un forestiero, trovare tanta bellezza, per quanto cadente, in mezzo al sudiciume e all’abbandono. Una volta i ricchi non avevano paura di abitare in mezzo ai poveri, anzi ostentavano tutto quello che potevano senza remore (prima delle ultime due o tre rivoluzioni).
Le case dei nobili erano nel bel mezzo della città, ristrette per la mancanza di spazio generale, ma non per questo meno adorne.
De Marini mi fece strada, quasi scusandosi, fino al primo piano, detto anche nobile.
È poco che abito qua, da quando è morta la zia
.
L’appartamento non era meno incredibile e meno grandioso del palazzo: soffitti che sarebbero andati bene per i giganti che facevano da cariatidi al piano terra tanto erano alti, dorature e stucchi, peraltro scoloriti, pochi mobili e molti segni sui muri dove quadri e specchiere dovevano essere stati appesi in tempi più propizi.
Van Dyck
avevo detto riferendomi a un ritratto che occupava una parete, un gentiluomo a cavallo, con un cappello piumato in mano. De Marini (Stefano, eravamo passati a chiamarci per nome) aveva sorriso.
È una copia, gli originali i miei parenti li hanno venduti molto tempo fa. È Ambrogio De Marini, antenato mio e della zia Virginia
.
Ah, il poeta
.
Come fai a saperlo?
.
Per caso
.
Era vero, tutto quello che so è per caso, a parte le nozioni ridottissime che sono stato costretto a ingoiare nel corso degli studi. Le mie zone di autodidattica tendono a sovrapporsi, a confluire, fino a quasi diventare cognizioni sistematiche.
C’è un libro alquanto cupo che cita il famoso De Marini, uno dei poeti locali (si possono contare sulle dita di mezza mano). Lo cita come esempio di sadomasochismo morboso.
Il noto gentiluomo, dopo la morte della moglie, era diventato monaco, pare soprattutto per il piacere di fustigarsi (dico sul serio). Non prima però di aver scritto ambigue poesie, in cui lodava le bellezze delle mendicanti, visibili attraverso i loro stracci, ed esaltate da lividi e ferite.
Avevo guardato Stefano un po’ esitante. A scuola era un somaro perfetto, e infatti dopo tre anni se n’era andato in un istituto di preti, per finire il liceo come privatista.
Dubitavo che conoscesse la letteratura, anche quella per così dire di famiglia.
Quella volta, alle mie parole, aveva riso in modo decisamente falso, e l’effetto, come quello delle poesie dell’antenato, non era stato piacevole.
"Pare che fosse pazzo furioso. In convento era ammattito del tutto. La famiglia, alla fine, lo ha fatto avvelenare. Non per i deliri mistici spinti, né per i comportamenti ancora più spinti con le monache. Il problema erano i soldi: si era tenuto gran parte del patrimonio e lo stava buttando dalla finestra in spese folli.
Andava da momenti in cui era calmissimo ad altri in cui si sentiva già dannato (a ragione, probabilmente), ad altri ancora in cui si vestiva da donna, gridava come un ossesso...".
Interessante
.
De Marini mi aveva fatto visitare tutto l’appartamento, che poi non era su un piano solo, ma su tre, con giravolte, saliscendi e scale a chiocciola. Una porta finestra, in cima, dava su una terrazza con tutti i fiori seccati per incuria, un rampicante invece troppo arruffato e una vista magnifica sui tetti.
Mi era venuto da chiedergli se non aveva paura che entrasse qualcuno, dato che solo un’inferriata divideva il balcone dal tetto vicino, ma mi ero fermato anche quella volta prima di parlare. Poteva anche offendersi, visto che tanta roba l’avevano già fatta sparire loro, i proprietari.
Avevamo bevuto parecchio vino piuttosto buono, parlato un po’ della scuola. Il Simon Boccanegra all’epoca, vent’anni fa, era un liceo per ricchi, ma si distingueva dalle altre scuole per ricchi per essere anche di livello elevato.
Io c’ero finito per sbaglio, cioè perché la mia famiglia voleva darmi una buona istruzione.
Cosa che in effetti avevo ricevuto. Che i compagni esistessero, era già per me una percezione confusa; che poi esistessero delle differenze sociali, non arrivavo neanche a sospettarlo. Tuttavia istintivamente, come ho detto, mi trovavo meglio con i compagni dell’altra sezione che, ripensandoci, erano da un lato più intelligenti, dall’altro di estrazione più varia.
Il bello era che la mia famiglia, volendo o sapendo, avrebbe potuto darsi delle arie come le altre, per cui la situazione era stata doppiamente paradossale.
Quello che salvava il Simon Boccanegra, culturalmente parlando, dal diventare, tanto per fare un esempio, come un Vittorino da Feltre, era il regime di doppia verità che vi vigeva.
Da un lato si venerava la ricchezza, dall’altro il sapere.
Avere un doppio sistema di valori, possibilmente contraddittori, è la salvezza delle religioni, degli stati e, in subordine, anche delle scuole, evita che diventino luoghi di fanatismo.
Mi guardavo bene dal dire tutto ciò a Stefano, che non avrebbe capito niente.
Nel frattempo non era diventato né più colto, né più perspicace, aveva preso il diploma per miracolo (o per soldi), aveva cominciato Giurisprudenza senza finirla.
Lo capivo, forse: non aveva nessun motivo per studiare, né per guadagnarsi da vivere come me o tutti quelli come me. La necessità di mantenersi, che per la gente di solito è evidente come quella di respirare, e induce ad affrontare impegni, fatiche e a perseverare, per lui era inconcepibile e, quando si presentava, un’ingiustizia e un affronto.
Lo osservavo come si osserva un quadro: somigliava ad Ambrogio, o forse ero io che lo credevo, suggestionato dalla storia di famiglia; gli somigliava decisamente in meglio, non ne aveva né la barba a punta, né i baffi, né il pallore cadaverico, né l’espressione spettrale.
Non rimaneva quasi niente, allora, almeno niente di secentesco.
Niente era tutto: la vera perfezione, in fondo, non ha nessuna caratteristica vistosa o evidente.
Più lo guardavo, più mi accorgevo che da brutto anatroccolo era diventato bellissimo cigno – eppure i tratti erano sempre gli stessi, ma come liberati, delineati, purificati.
Il portamento naturale, la sicurezza, l’esercizio fisico lo avevano reso quello che era forse fin dall’inizio, un esemplare perfetto.
Fino a due mesi fa abitavo ancora con la mia famiglia, in piazza della Meridiana. Per fortuna la zia è morta, perché la situazione era diventata impossibile...
.
Forse voleva dire ancora qualcosa, ma si era interrotto.
Non hai ancora visto un quadro
.
Mi portò in fondo a un corridoio quasi buio.
Ecco
.
Poi aveva aggiunto: Cosa c’è?
.
Potevi avvertirmi prima
.
Di cosa?
.
Niente
.
Ero sbalordito, come tutte le volte, e sono rare, che vedo qualcosa di eccezionalmente bello all’improvviso, senza averlo prima conosciuto sui libri, sulle guide, nelle fotografie eccetera.
Il quadro era piccolo, raffigurava un giovane e un vecchio l’uno accanto all’altro, che guardavano tutti e due dritto verso lo spettatore.
Quel modo di guardare ricordava un Ecce homo, forse di Caravaggio, di un museo locale.
Anche questa è una copia, beninteso. L’originale è andato perso, a dire la verità quasi nessuno sa che sia mai esistito
.
Ah
.
"Anche il soggetto non si capisce: certi dicono che rappresenti le due età dell’uomo, altri Saul e Davide, oppure il pittore e il committente. Ma allora non si sa chi sia l’uno e chi sia l’altro.
Perché potrebbe essere stato commissionato quando il pittore è venuto in città la prima volta, a ventitré anni, oppure molto più tardi, quando era già in Inghilterra".