Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il dannato caso del Signor Emme
Il dannato caso del Signor Emme
Il dannato caso del Signor Emme
E-book288 pagine4 ore

Il dannato caso del Signor Emme

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Restituire dignità, onorabilità e reputazione a una figura non trascurabile del Novecento italiano, sferzante, raffinata, sensibile, ma che rischia l’oblio come tante altre vittime delladamnatio memoriae: questo è l’obiettivo di Carla, ex giornalista, specializzata in topografia della miseria e della disperazione e perennemente votata al prossimo. Per farlo dovrà ricomporre la vita e le opere del fantomatico Signor Emme e mettere insieme un fascicolo da sottoporre al giudizio dell’oscuraCongregazione dell’Indice delle vite cancellate e delle opere proibite. Siamo in un’Europa totalmente lacerata, mosaicizzata in una miriade di piccoli stati, separati da dogane, muri, filo spinato, e in un tempo in cui passato, presente e futuro sono deliberatamente mescolati.

A bordo di un vecchio scuolabus (forse rubato), trasformato in camper e targato Zagabria, Carla intraprende un folle e strampalato viaggio che le regalerà incontri con più o meno noti personaggi, accompagnata dai due figli gemelli: il primo è un bambino prodigio “in grado di risolvere equazioni differenziali lineari omogenee del secondo ordine a coefficienti costanti o confutare il teorema di Fermat”; il secondo, nonostante lo stesso patrimonio genetico, è candido e simpaticissimo, ha una sensibilità tutta sua di percepire il mondo ed è a suo modo geniale. Insieme a loro viaggia lo zio Giordano, autore del trattato filosoficoDe gli eroici furori, arso vivo a Campo de’ Fiori.

Solo alla fine del romanzo scopriremo chi è questo fantomatico Signor Emme.

Prima della stesura di questo romanzo, Massimo Roscia ha svolto un lungo lavoro di ricerca documentale/storiografica nel Fondo “P.M.”, custodito presso una biblioteca romana, visionando un patrimonio archivistico vasto ed eterogeneo. Tra manoscritti, appunti stenografici, diari, ritagli di stampa, opere edite e inedite, fotografie, una fitta corrispondenza con direttori di giornali, editori e lettori, poesie e appunti di viaggio, Roscia si è avventurato nella grande varietà dei temi di cui il Signor Emme si è occupato: le due guerre mondiali, la politica internazionale, la tutela ambientale, il turismo culturale, la lingua italiana, la gastronomia, l’enologia, per trarne un romanzo tra il vero, il verosimile e il falso, sicuramente colto e divertente.
 
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2020
ISBN9791220220248
Il dannato caso del Signor Emme

Correlato a Il dannato caso del Signor Emme

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il dannato caso del Signor Emme

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il dannato caso del Signor Emme - Massimo Roscia

    quisiscrivemale

    IL DANNATO CASO DEL SIGNOR EMME

    Massimo Roscia

    IL DANNATO CASO DEL SIGNOR EMME

    di Massimo Roscia

    Collana quisiscrivemale

    © 2020 – Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 86 – Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Impaginazione omgrafica, roma

    Si ringrazia la Biblioteca statale Antonio Baldini di Roma per aver messo a disposizione i documenti del Fondo Monelli.

    ISBN 978-88-31461-22-1

    A Enzino e Maria

    Eppure ci siamo illusi, un giorno, di creare un genere; di dar forma a un nuovo scrittore: moderno, vero, aderente alla vita; […] Scrittore con fantasia, ma non d’invenzione; devoto alla lingua e allo stile, ma non schiavo delle tradizioni, dei modelli, dei luoghi comuni; […] che non inventa casi eleganti, ma scopre la realtà; che scrive magari in prima persona, ma pensa in terza; tutt’al contrario del romanziere che scrive in terza persona ma pensa e opina e argomenta soltanto egocentricamente.

    Paolo Monelli

    uno

    Da quando questa mattina abbiamo lasciato Sintra e quell’ultimo pennacchio di terra tanto caro a Lord Byron, mamma è stata ininterrottamente al volante per più di nove ore, facendo inerpicare questo asmatico camper nelle gole tortuose del Tago e sulle cime della Serra de São Mamede, lungo stradine ripide, abbandonate e foderate da una fitta vegetazione di querce da sughero e lecci secolari, alberi ai quali mio fratello non ha rivolto la parola, considerandoli vigliacchi latifoglie.

    – Silenzio. Fate un po’ di silenzio, per favore.

    Vorrei chiedere a nostra madre un po’ quanto. Dieci minuti, un’ora, un chilo, dodici joule, un semitono diatonico, un atomo di carbonio ionizzato, un parsec, due litri, un poemetto in terza rima, sei metri, venti chilometri? Vorrei chiederle quanto pesa il silenzio, quanto è lungo o intenso, a che equivale o come si misura, ma più di tutto vorrei chiederle cosa ne pensa. Non credo che non voglia o non possa rispondermi, anche se una convinzione che si poggia su ben tre negazioni traballa come un tavolino zoppo. Sarei comunque curioso di conoscere la sua opinione sulla natura del silenzio, visto che la maggior parte delle persone è generalmente restia a esplorare i misteri della sua inestricabile densità. Lo teme, lo evita, al più lo equipara a una semplice assenza – di voci, di suoni, di vita – e di conseguenza finisce per avvertirlo come un limite, una privazione. Per me invece è proprio l’opposto.

    Il silenzio non è rinuncia all’esercizio della parola, è esso stesso parola, una parola speciale che permette di esprimere l’inesprimibile. Altro che assenza, il silenzio è pienezza e rivelazione, è il seme da cui nasce il dialogo, è il filtro che ci consente di riattribuire il giusto significato a vocaboli logorati da un utilizzo superficiale e ipocrita. Sì, il silenzio rappresenta il vero disporsi all’ascolto, collega il nostro Esserci all’Esserci dell’Altro e, come modo del discorso, articola così la comprensibilità dell’Esserci che da esso trae origine.

    Lo so, non sono molti gli undicenni che hanno letto tutte le opere di Martin Heidegger e conoscono a memoria interi brani dei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo o di Essere e tempo. Così come non sono molti quelli che sanno eseguire alla perfezione l’Opus Clavicembalisticum del virtuosissimo Sorabji, quelli capaci di dare scacco matto sacrificando un alfiere, entrambe le torri e persino la regina, come fece il grande Adolf Anderssen al Torneo di Londra del 1851, quelli in grado di risolvere equazioni differenziali lineari omogenee del secondo ordine a coefficienti costanti o di confutare il teorema di Fermat… D’accordo, svelo subito il mio segreto, che poi non è un segreto ma un’evidenza scientifica: sono un bambino P.

    Dopo avermi sottoposto a un’interminabile e faticosa serie di visite, prelievi del sangue e del midollo, consulti e diagnosi, dopo avermi più volte auscultato, palpato, pesato, misurato, neurostimolato, elettroencefalogrammizzato, tacchizzato, pettizzato, ecografizzato, risonanzamagneticizzato, dopo avermi passato al setaccio con ripetuti sequenziamenti completi dell’intero genoma, alcuni medici mi hanno ufficialmente definito un bambino P (Prodigio).

    Altri specialisti hanno invece preferito sottolineare con più efficacia la singolarità del caso clinico anteponendo un avverbio di modo e qualificandomi come un bambino PD (Particolarmente Dotato); altri ancora hanno optato per un più scientificamente preciso AAPC (Ad Altissimo Potenziale Cognitivo); altri poi, a cui evidentemente sfuggono il dono della sintesi e il concetto elementare di utilità di un acronimo, mi hanno dichiarato bambino PAPASPEACEDTSCEEEAERDAC (Plusdotato A Pensiero Arborescente Straordinariamente Precoce E Attivo Con Evidente Dissincronia Tra Sviluppo Cognitivo Ed Emozionale E Altrettanto Evidente Rifiuto Dell’Autorità Costituita).

    Nonostante queste classificazioni, un QI di un’ottantina di punti sopra la media e il cervello molto sviluppato, io continuo a ritenermi un bambino normale, con due occhi, un naso e una bocca, un viso che in estate si chiazza di efelidi come una carta geografica di Laurent Fries e un paio di Nike Air Max dalla tomaia ormai sudicia e spellata. Insomma, un bambino del tutto normale, proprio come il mio fratello gemello.

    No, lui non ha il mio quoziente intellettivo, le mie capacità, la mia erudizione e la mia proprietà di linguaggio; a dire il vero, molti lo considerano affetto da grave ritardo mentale, ma solo perché le loro menti sono limitate. Mio fratello possiede mirabolanti talenti che, per l’eccezionale straordinarietà, sfuggono all’umana comprensione. Di certo non alla mia.

    Mio fratello ha interpretato alla lettera l’invito che Emily Dickinson rivolgeva a MacGregor Jenkins:Cari bambini, per favore non crescete mai. Siete perfetti ora. E mio fratello, in quel suo essere eternamente bambino, è perfetto ora e sarà perfetto sempre. Mio fratello al mattino, quando si sveglia, spalanca le finestre per far entrare il cielo, che secondo lui ha un potere lustrale capace di purificare la casa e lo spirito. Mio fratello colleziona le stelle, le ribattezza (Sirio è per lui Brillarella, Rigel A è il Gigante Buono e Hadar è Mare Blu) e, individuando in pochi secondi i vari asterismi, le riconosce a occhio nudo, senza l’ausilio di telescopi, astrolabi o planisferi celesti. Mio fratello parla con gli alberi (ma solo con gli abeti, i larici, i cedri del Libano e le altre nobili e coraggiose aghifoglie che, a suo dire, hanno rinunciato alla bellezza per difendersi dall’ambiente). Mio fratello è un allegro pirata, un pittore che colora il mondo, un poeta che mette in rima la vita rendendola ogni giorno meravigliosa. E, più di tutto, possiede un infallibile sesto senso, capisce cose che nemmeno io capirò mai ed è l’unico in grado di parlare con Buf. Altro che ritardato; basterebbe solo questo per definirlo un bambino assai più PAPASPEACEDTSCEEEAERDAC di me.

    Ma ora torno al silenzio, che è condizione ideale per cogliere lo straordinario nell’ordinario, che è presenza nell’assenza, dunque entità non misurabile. Ne sono certo, così come sono certo che anche nostra madre, una donna dalla grazia, la sensibilità e la profondità d’animo armonicamente fuse in un’unica eccezionale virtù, condivida queste mie considerazioni.

    – Ragazzi vi ho detto di stare zitti! Ora mi avete davvero rotto le palle.

    Di solito mamma non usa questi termini ma recentemente è molto stressata. Nonostante la sua invidiabile capacità di resistenza e lo spirito di adattamento, negli ultimi tre mesi i suoi trasduttori molecolari hanno fatto gli straordinari compromettendo la fisiologia del sistema endocrino. Povera mamma. Oltre a dover sopportare tutti noi – e non è poca cosa – e sostenere il carico di responsabilità, preoccupazione, paura e senso di colpa causati da questa audace caccia al tesoro, deve persino guidare. E, come sempre, lo sta facendo da sola. È tutto il giorno che guida, senza essersi mai fermata e senza che nessuno a bordo le abbia dato il cambio. Zio Giordano è bravissimo a ipostatizzare un Dio Tutto Infinito e l’inscindibile unità panenteistica di pensiero e materia, ma non sa andare neanche in bicicletta, Sterling è un ricercato, io e mio fratello abbiamo solo undici anni e Buf… è Buf.

    Mamma scala le marce, dalla terza alla seconda e addirittura alla prima. Ora che i tornanti hanno perso la loro iniziale dolcezza e la salita si sta facendo sempre più erta, procediamo a strappi verticali e il camper, che poi non è un vero camper, ma un vecchio scuolabus targato Zagabria, peraltro rubato, allestito da camper, ridipinto di bianco e con un’enorme vetrofania dei Barbapapà appiccicata sul lunotto posteriore, sbuffa. Al confine tra la Grande Lusitania e il Nuovo Regno di Castiglia e Aragona mancano ancora sessanta chilometri e Madrid è un lontano miraggio.

    È stato proprio zio Giordano, mappa alla mano, a suggerire questo percorso alternativo così lungo e disagevole, un tempo usato dai contrabbandieri di tabacco e caffè, per aggirare i varchi di frontiera ed evitare così di imbatterci nella temibile Regia Polizia Doganale. Con il senno di poi devo riconoscere che è stato un saggio consiglio; è certamente più prudente tenerci alla larga dalle strade trafficate e continuare a zigzagare senza alcuna logica apparente tra le verdi montagne di questo magnifico Alentejo che, al solo respiro, segna il passaggio dall’Atlantico al Mediterraneo. Qua il cielo color indaco sembra avere una consistenza solida che va oltre la classificazione degli stati della materia, l’aria è fresca e balsamica, nella vallata riecheggiano idriche melodie di torrenti e cascate e i boschi sono popolati di volpi, cinghiali, lepri e altri animali selvatici.

    Kyaaa, kyaaaaaa. È il verso di un’aquila che, dopo aver planato più volte in circolo con apparente indolenza, all’improvviso si lancia in picchiata e con un grido trionfale artiglia la preda. Un secondo kyaaa, kyaaaaaa, più vicino, più metallico, più sinistro. Questa volta è il verso poco lubrificato della corona dentata di un selettore che scricchiola contro l’albero condotto. Mamma, che deve ancora approfondire la sua conoscenza della frizione, sta torturando la leva del cambio. Seconda, terza, quarta. La strada, che fino a poco fa era solo una sinusoide di breccia irradiata come un capillare tra scisti e arenarie, è finalmente dritta, pianeggiante, dignitosamente bitumata e per fortuna ancora deserta. Accompagnati da una musica di sottofondo che alterna le docili note della natura al sincopato sferragliare del motore, procediamo in solitaria. Aveva ragione zio Giordano: chi vuoi che ci sia in un posto del genere.

    Già, chi vuoi che ci sia. Sono seduto in cabina, incastrato sul sedile anteriore tra la mamma e lo zio, quando vedo in lontananza un puntino bianco che cattura un raggio di sole e, moltiplicandone l’intensità, lo orienta in maniera speculare verso di noi. Il raggio incidente, la normale e il raggio emergente giacciono sullo stesso piano, il riflesso è accecante. Mamma d’istinto si copre gli occhi con il palmo della mano e senza pensarci troppo pigia con forza il pedale del freno. Le gomme, ferite dall’improvviso e violento attrito, stridono sull’asfalto. Il camper si imbizzarrisce, sobbalza e scarta di lato, a pochi centimetri dal precipizio, alzando una nuvola di polvere grigia e facendoci prendere un enorme spavento. Nonostante il deciso aumento della frequenza cardiaca e il balletto di mitocondri, mamma resta lucida e, stringendo con rinnovato vigore il volante, cavalca come un’esperta amazzone la bestia meccanica immatricolata in Jugoslavia.

    Un altro e più deciso colpo di sterzo e il camper riguadagna la carreggiata. Zio Giordano si fa il segno della croce e intona un Te Deum, mio fratello, neanche fossimo sulle giostre, strepita divertito: Ancora, ancora!, Sterling e Buf, entrambi a testa sotto, ridacchiano per esorcizzare lo scampato pericolo, io invece provo a ricalcolare a mente la curva di decelerazione premurandomi di considerare tutte le variabili in gioco: la massa del veicolo, la velocità, la temperatura, il coefficiente di resistenza aerodinamica, la forza esercitata sul pedale del freno, la tessitura del fondo stradale, la pendenza, la pressione degli pneumatici e gli altri fattori di aderenza. Forze di attrito longitudinali, velocità di scorrimento, velocità di…

    – Presto, – urla mia madre rivolgendosi a tutti e a nessuno in particolare. – Fate nascondere subito Sterling. E nascondete anche il fascicolo. E Buf, non si sa mai.

    Il camper, ormai definitivamente domato a forza di improperi e controsterzate, si avvicina adagio al puntino bianco. Il puntino bianco – ora inizio a distinguerlo in maniera piuttosto nitida – è in realtà un cerchio bianco rifrangente all’interno del quale è contenuto un altro cerchio, avente lo stesso centro e quindi concentrico, di circonferenza inferiore e di colore rosso, anch’esso rifrangente, su cui è impresso, con una stilizzazione forse troppo essenziale, lo stemma reale. Il doppio cerchio è sorretto da un manico in plastica, lungo circa trenta centimetri e parallelo al terreno, la cui impugnatura è saldamente stretta in un guanto nero in pelle di vitello di prima qualità, con elastico al polso. Il guanto veste una mano, ferma e nerboruta, che, insieme al polso, all’avambraccio, al braccio, al busto e al resto del corpo, appartiene a un agente della polizia stradale.

    L’incredulo poliziotto, che può finalmente attribuire un senso al perché di quel posto di blocco allestito in una località così lontana da Dio e dagli uomini e dare libero sfogo a tutta la frustrazione repressa, agita la paletta come un tarantolato. Mamma mette diligentemente la freccia e con un’esemplare manovra da scuola guida accosta in uno spiazzo sterrato. L’agente, un marcantonio dalla pelle olivastra, il cranio rasato e un paio di mustacchi a ferro di cavallo che gli cadono perpendicolarmente coprendogli gli angoli della bocca, ci viene incontro con un’andatura greve e dinoccolata che mi ricorda tanto il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile, il don Ciccio di Gadda.

    Nel frattempo nostra madre, dopo aver effettuato un rapido esercizio di respirazione addominale controllata, abbassa il finestrino premurandosi di sbottonare il primo bottone della camicetta rosa con fantasia di margherite gialle per giocarsi la carta vedo e non vedo. Solo a quel punto saluta il gendarme rivolgendogli un sorriso civettuolo e mettendo sul piatto due tette all’insù che nonostante l’età sfidano ancora la forza di gravità. Non credo sia il momento opportuno per ricordare che, se invece della mela fosse caduto sulla sua testa un masso, Isaac Newton non avrebbe mai potuto affermare che due corpi si attraggono in modo direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale alla loro distanza elevata al quadrato.

    – Buongiorno agente.

    L’accigliato poliziotto ignora il saluto, il sorriso, le margherite fluorescenti, le teorie newtoniane, il seno, il coseno e tutto l’armamentario trigonometrico della mamma e, dopo essersi sfilato un guanto e aggiustato con le dita umettate di saliva la folta punta di un baffo, le ringhia contro un ostile:

    – Signora, per me è sicuramente un buon giorno; per lei ancora non lo so.

    due

    Dormi bambino, bajushki-bajù. Splende la luna sulla tua culla piccina mentre ti canto la mia canzoncina. Ma ora tu dormi tra santi e angioletti, riposa beato e chiudi gli occhietti, bajushki-bajù.

    – Bravo, davvero bravo. Ma almeno sai cos’è un bajushki-bajù?

    – È un cartone animato.

    – No, non è un cartone animato. È una parola senza significato, tontolone.

    – Tontolone ci sei tu.

    Anche se non c’ha la lingua come a noi altri bambini so che Buf mi sta facendo una linguaccia perché lui è dispettoso come a una scimmia e mi fa sempre marameo e i versacci e poi mi dice tontolone e mi prende in giro anche se lo fa per scherzo. Io a Buf gli voglio un bene più grande di tutto il mondo mondiale perché è il mio amico del cuore e secondo me l’amicizia del cuore è una bella invenzione perché è come a una lucina che non si spegne mai e che illumina il buio e che dura per sempre.

    E poi Buf a me mi fa ridere quando racconta le barzellette o mi fa il solletico o fa lo stupido come adesso che sta tutto imbacuccato con quella mutanda sulla testa che sembra Kenny di South Park. Kenny McCormick è quello che quando parla non si capisce niente perché il cappuccio del giubbotto gli copre la bocca. Kenny si mette sempre lo stesso giubbotto perché è povero e c’ha solo quello e il padre è ubriacone e drogato e litiga sempre con la madre e non gli compra mai niente e nemmeno i vestiti. Kenny però è simpaticissimo e certe volte invece di andare a scuola va a giocare al parco con i suoi amichetti e poi c’ha un sacco di giornaletti zozzi e si mangia le merendine surgelate e non muore mai cioè muore e rivive proprio come a zio Giordano. Io e mio fratello abbiamo visto tutte le puntate di South Park. Tutte tutte tutte.

    – Oh mio Dio hanno ammazzato Kenny brutti bastardi.

    Io so fare tante limitazioni ma quella di Stanley la faccio meglio di tutte e infatti Buf ride.

    – Tesoro, ora stai fermo e in silenzio. Mi raccomando. Quando lo sceriffo con i baffi si allontana dalla nostra casa con le ruote mamma si gira e mi dice di stare zitto. Non tutte le mamme sanno guidare le case con le ruote e non tutte le mamme chiamano tesoro i loro figli. Per esempio la mamma di Lillo lo chiama sempre Lillo e non gli fa mai una carezza o un sorriso o un regalo e la mamma di Elia lo chiama solo Elì anzi certe volte non lo chiama proprio ma si affaccia alla finestra e strilla e lo insulta e lui pure se ci stiamo divertendo a giocare con le figurine dei calciatori che a me mi manca solo Evaristobeccalossi e finisco l’album capisce che deve rientrare a casa perché è pronta la cena e se non rientra subito si prende un sacco di mazzate. Ma la mia mamma è diversa da tutte le altre mamme. A me mi chiama amore o cuore mio o pulcino o stellina o ranocchietto o piccolo o anima mia adorata o cucciolo o tesoro. E poi non mi dà le mazzate.

    Però più di tutti a me mi piace quando mi chiama tesoro perché vuol dire che io sono prezioso come a un gioiello o come a un soldo d’oro di quelli che i pirati con l’occhio bendato e la gamba di legno e l’uncino di ferro nascondono in una cassa sotto terra in una grotta su un’isola segreta e poi disegnano una mappa e l’arrotolano – ma con una mano sola perché nell’altra c’hanno l’uncino e non è facile arrotolare una mappa con una mano sola – e la infilano nella cassa insieme ai soldi d’oro e ai pugnali d’argento e alle collane e agli anelli e ai diamanti e credono di essere furbi ma non lo sono perché questa cosa di nascondere il tesoro e la mappa del tesoro nello stesso posto mi sembra una cosa un po’ stupida e forse è proprio per questo che i pirati si sono estinti e che nessuno ha mai più trovato i loro tesori. Mamma si gira ancora una volta e si mette il dito sulle labbra e io capisco che devo stare zitto. Il sole la illumina e la fa sembrare ancora più bella anche se la mia mamma è bella pure quando ci sono le nuvole e la pioggia e i fulmini che a me mi mettono un po’ paura ma mio fratello che è una specie di enciclopedia vivente mi ha detto di non avere paura perché i fulmini sono come alle scintille ma solo un po’ più grandi e dipendono dall’elettricità elettrica che sta nel cielo.

    Insomma la mia mamma è bella sempre e c’ha il viso di un angelo e la bocca di fragola ma senza tutti quei semini gialli che mi si infilano in mezzo ai denti e mi danno fastidio e c’ha gli occhi del colore dell’oceano che la sera brillano come alle stelle Giallina e Gialletta e i capelli lisci e lunghi e un po’ arancioni e un po’ rosa come a quelle cipolle che mette dentro alla minestra di verdure perché dice che fanno bene alla salute ma che però quando non mi vede io sputo nel tovagliolo perché c’hanno un sapore cattivo e mi fanno schifo e poi quando parlo mi puzza l’alito come a un topo morto.

    E comunque la mia mamma è pure una brava cuoca e se va a Masterchef vince sicuro perché a parte la minestra di verdure sa cucinare tanti altri piatti che si inventa lei e che ci mette due minuti a prepararli come ai panini che li taglia precisi a metà e poi li riempie con la mortadella o con il salame o come alla pasta col sugo rosso che sta dentro al barattolo o alla carne simmental o a quattro sassi in padella che a me mi piacciono tanto. E allora ubbidisco e abbasso la voce e a Buf gli dico all’orecchio anche se Buf non c’ha le orecchie come a noi altri bambini:

    – Lo so che la cesta della biancheria sporca puzza ma tu stai zitto e resta nascosto là sotto in mezzo alle mutande e ai calzini e ai pantaloni a zanna di elefante e alla tonaca di ricambio di zio Giordano e alla gonna di mamma quella verde e viola con i fiori che quando fa la ruota sembra che i fiori ballano.

    Buf fa come gli dico e scompare sotto ai panni mentre il nostro nuovo amico Sterling che è veloce come a un razzo missile con circuiti di mille valvole si è già nascosto dentro al ripostiglio delle scope insieme allo spazzolone e al secchio e al detersivo mastrolindo che con la forza di un gigante il pulito è più brillante e alla scatola della memoria. Ora nella casa con le ruote non parla più nessuno come quando a messa il prete dice quelle cose dei peccati e tutti si danno i pugni sul petto e abbassano la testa e stanno zitti e fanno finta di pentirsi e poi invece non si pente nessuno e quando escono dalla chiesa bestemmiano e dicono le parolacce e tirano i sassi ai cani e bevono tanti bicchieri di vino e fanno i rutti e le scoregge e giocano a carte e imbrogliano e perdono tanti soldi e dicono altre bestemmie e rubano e guardano il culo alle signorine e mi prendono in giro dicendo che sono scemo. Sì sembra di stare in chiesa perché siamo tutti fermi e in silenzio come alle belle statuine.

    – Ho paura. Speriamo che non si accorga che anche i nuovi documenti di circolazione sono contraffatti – dice mamma guardando zio Giordano e parlando con la voce che le trema come quando io c’ho la febbre a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1