Camerini '30
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6° volume della collana "Cinema del '900".
A cura di Massimo Moscati.
Una nuova collana che, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche. Un'arbitraria, quanto rigorosa istantanea, di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.
Mario Camerini (Roma 1895 - Gardone Riviera 1981) ha aperto nuovi scenari nel cinema del ventennio, anche attraverso la scoperta di talenti letterari come Mario Soldati (che iniziò la sua carriera come assistente del regista), e di Vittorio De Sica, che proprio a Camerini deve gli inizi del suo successo come attore, in titoli come Il signor Max e Grandi Magazzini.
Gli anni '30 sono stati un periodo floridissimo per l'attività di Camerini, che approfittando della realizzazione di Cinecittà e avendo carta bianca dai gerarchi della cultura del tempo, gli diedero modo di spaziare in tutti i generi: dal drammatico al tragico, dalla commedia al film storico, spesso senza rendersi conto che la satira di costume nei suoi film era un’esplicita critica alla società fascista.
Una libertà espressiva che gli permise di continuare la sua carriera con successo nei decenni successivi.
Beppe Musicco
Beppe Musicco (Milano, 1958) è giornalista e critico cinematografico. Ha collaborato con varie testate di business, di critica cinematografica, di costume e con emittenti televisive e radiofoniche. È autore di capitoli sul cinema di testi per la scuola media inferiore, e tiene corsi in scuole e università italiane ed estere. Nel 2000, con altri professionisti del settore, insegnanti ed esercenti di sale, ha fondato a Milano l'associazione Sentieri del Cinema per la promozione della cultura cinematografica, che edita la testata online sentieridelcinema.it. Negli anni, Sentieri del Cinema è diventata un punto di riferimento che aiuta insegnanti, genitori, studenti e semplici appassionati nella ricerca e nel giudizio sui titoli in sala e, recentemente, anche sulle serie delle piattaforme online. Con l’associazione ha editato il libro Cinema e Famiglia, una guida ai film da vedere insieme.
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Anteprima del libro
Camerini '30 - Beppe Musicco
Beppe Musicco
Camerini ‘30
© Bibliotheka Edizioni
Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma
tel: (+39) 06. 4543 2424
info@bibliotheka.it
www.bibliotheka.it
I edizione, luglio 2022
e-Isbn 9788869347818
È vietata la copia e la pubblicazione,
totale o parziale, del materiale
se non a fronte di esplicita
autorizzazione scritta dell’editore
e con citazione esplicita della fonte.
Tutti i diritti riservati.
Direttore della collana Cinema del ‘900
: Massimo Moscati
Editing: Cesare Paris
Foto di copertina:
Mario Camerini durante una pausa sul set del film Ulisse (1953)
© Reporters Associati & Archivi Srl - Roma
Disegno di copertina: Riccardo Brozzolo
Beppe Musicco
(Milano, 1958)
È giornalista e critico cinematografico. Ha collaborato con varie testate di business, di critica cinematografica, di costume e con emittenti televisive e radiofoniche.
È autore di capitoli sul cinema di testi per la scuola media inferiore, e tiene corsi in scuole e università italiane ed estere.
Nel 2000, con altri professionisti del settore, insegnanti ed esercenti di sale, ha fondato a Milano l’associazione Sentieri del Cinema per la promozione della cultura cinematografica, che edita la testata online sentieridelcinema.it.
Negli anni, Sentieri del Cinema è diventata un punto di riferimento che aiuta insegnanti, genitori, studenti e semplici appassionati nella ricerca e nel giudizio sui titoli in sala e, recentemente, anche sulle serie delle piattaforme online.
Con l’associazione ha editato il libro Cinema e Famiglia, una guida ai film da vedere insieme.
Cinema del ‘900, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche.
A cura di Massimo Moscati, una nuova collana, volutamente arbitraria, ma rigorosa istantanea di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.
Dieci volumi per dieci autori esperti della materia e grandi conoscitori della settima arte.
Una collana volta alla riscoperta di grandi capolavori perché il Classico, per sua natura, è sempre contemporaneo e sempre all’avanguardia.
Un gigante sulle cui spalle possiamo salire per vedere un tratto in più di orizzonte che, altrimenti, rimarrebbe nascosto.
I titoli della collana:
Alberini ’00 di Riccardo Lestini
Pastrone ’10 di Luca Mazzei
Bertini ’20 di Letizia Cilea
Camerini ’30 di Beppe Musicco
Blasetti ’40 di Maria Triberti
Totò ’50 di Massimo Moscati
Tognazzi ’60 di Alessandro Garavaglia
Fellini ’70 di Nicola Bassano
Moretti ’80 di Antonio Autieri
Verdone ’90 di Gianluca Cherubini
Premessa
Camerini blockbuster
Come il lettore avrà modo di verificare, questo saggio su Mario Camerini fornisce un inquadramento finalmente definitivo su uno dei grandi artigiani del cinema italiano.
Spesso, però, si fatica a trovare un titolo che identifichi Camerini in maniera inequivocabile: un’opera faro che renda immediata la sua riconoscibilità autoriale.
A parte un film, d’indiscutibile qualità e successo internazionale, che ha sollecitato la nostra fantasia di ragazzi e che non smetteremmo mai di guardare: Ulisse (1954).
Sull’onda dei grandi kolossal americani come Quo Vadis? (1951) di Mervyn LeRoy, Carlo Ponti e Dino De Laurentiis decidono di dare vita, per la Lux Film, ad una spettacolare operazione produttiva, grazie soprattutto alla rinata attività di Cinecittà che, dopo una profonda crisi nel secondo dopoguerra, si trasformerà nella Hollywood sul Tevere
.
Secondo l’idea dei due produttori, il film deve essere epico nel senso più ampio del termine. La produzione vuole soprattutto conquistare un vasto mercato grazie all’impiego di star internazionali. Il ruolo di Ulisse è affidato a un Kirk Douglas all’apice della carriera. Insieme a lui, nel doppio ruolo di Penelope e della maga Circe, Silvana Mangano.
Per la regia inizialmente si pensa a Georg Wilhelm Pabst, che però abbandona il film poco prima dell’inizio delle riprese. A questo punto si decide di affidare la regia alla conduzione esperta di Mario Camerini che, come raccontano le cronache, cercherà più volte di abbandonare il film a causa dei suoi dissapori con Kirk Douglas e dei problemi di salute che lo costringeranno a lavorare sempre seduto (e con il prezioso aiuto di Mario Bava, allora apprezzato operatore, ma anche esperto creativo degli effetti speciali).
L’impostazione produttiva mista
, in parte italiana e in parte americana, traduce la volontà di conciliare la semplicità e la linearità tipiche della classica proposta hollywoodiana con un certo modello letterario di riferimento. La scelta di raccontare le avventure di Ulisse attraverso una serie di flashback si rivela vincente. Si lavora prioritariamente sulla spettacolarità della performance, garantita dall’elevata professionalità del cast tecnico impiegato: sequenze grandiose realizzate in Technicolor ma mediate da un taglio espressivo debitore del gusto dell’iconografia popolare; una finezza estetica filtrata da un grande lavoro di artigianato figurativo; i nomi dei tecnici impiegati che non sono meno importanti delle star, dallo scenografo Flavio Mogherini al direttore della fotografia Harold Rosson, dal costumista Giulio Coltellacci al compositore Alessandro Cicognini.
Ponti-De Laurentiis centrano il bersaglio con Mogherini per la costruzione delle scene di Ulisse, il primo vero kolossal italiano (dopo gli antichi fasti del cinema muto), e il professionista elabora scenari molto diversi all’interno degli studios cinematografici: come la straripante reggia di Penelope e Antinoo (e Ulisse) ad Itaca. Per rappresentare la ricchezza, utilizza dipinti variopinti e oggetti di marmo decorati d’oro; per contrasto, nella grotta di Polifemo, la sobrietà è rappresentata da cartapesta e argilla; toni freddi ed effetti di luce misteriosi quelli delle grotte di Circe, grazie alle possibilità offerte dal Technicolor.
I mezzi spesso poveri e l’artigianalità delle realizzazioni non limitano, anzi favoriscono, la ricchezza visiva di tutti gli ambienti. Per esempio, gli edifici dei Feaci hanno le colonne capovolte, un cenno all’architettura cretese; all’aperto Mogherini costruisce la grande nave, temporanea dimora di Ulisse, in dimensione reale, in grado di navigare.
E poi c’è Mario Bava. Nei crediti di Ulisse compare come uno degli operatori, ma Camerini era ben consapevole della sua competenza. Di fatto, Bava era già direttore della fotografia (avendo esordito nel ruolo già dal 1943), ma il regista lo volle comunque a fianco, consapevole che la Paramount (partner produttiva) avrebbe imposto Harold Rosson in virtù della sua riconosciuta padronanza del Technicolor.
Tuttavia, è ormai accertato che Bava si ritaglia un certo spazio proprio nella direzione della fotografia di alcune parti del film. Indubbio il particolare uso della luce nella sequenza di Circe, l’episodio è diverso da tutto il resto del film: il viso e il corpo di Silvana Mangano sono avvolti da una luce verde-acqua, le pareti della grotta (realizzata da Mogherini) sono ricoperte da una crosta muschiosa e umida, che produce un effetto sovrannaturale. Gli effetti fotografici e scenografici sono identici a quelli di Ercole e la regina di Lidia (1959), di Pietro Francisci, dove Bava è direttore della fotografia e responsabile degli effetti speciali e Mogherini scenografo (per identica produzione Lux Film). Inoltre, le vestali di Circe indossano abiti Belle Époque dalle tonalità verdi e dai veli neri che coprono il viso: Bava riproporrà identica soluzione, da regista, in Ercole al centro della terra (1961) nel look delle Esperidi, le custodi del giardino dei pomi d’oro di Era.
Ma molti osservatori ricordano anche la sequenza di Circe, quando invoca una serie di sortilegi per convincere Ulisse a stare con lei: un colore si diffonde partendo dal basso per animare ciò che altrimenti sarebbe inanimato. Una tecnica che sarà un po’ la firma di Mario Bava, dal suo primo lungometraggio, La maschera del demonio (1960), al cult
fantascientifico Terrore nello spazio (1965), dove macchine del fumo ed effetti di luce risolvono la carenza di budget per la costruzione di tutti gli ambienti.
La sequenza di Circe si conclude con il primo piano della strega che, rivolta alla cinepresa, esorta Ulisse: «Va’ allora, visto che l’hai scelto, il mare ti aspetta».
L’inquadratura di Circe è apparentemente sfocata grazie a un trucco chiamato bicchiere d’acqua
. Si tratta di un particolare tipo di vetro (già utilizzato dal padre di Mario Bava, Eugenio, nell’era del cinema muto) utile per un effetto capace di evocare stati di allucinazione e fastidio: spostando leggermente il vetro davanti all’obiettivo si ottiene il risultato di alterare e deformare l’immagine.
Camerini, debilitato, fa quindi la scelta giusta – anche per cercare di rendersi indipendente dal partner americano – , ma l’opera di Bava per Ulisse non è ufficiale, gli effetti speciali del film sono attribuiti a Eugen Schüfftan, già responsabile di quelli di Metropolis (Fritz Lang, 1926) che lo fece conoscere, soprattutto per le miniature. Nel complesso, gli effetti speciali realizzati da Schüfftan per Ulisse sono degni di nota, nonostante una certa discontinuità qualitativa: la miniatura della nave di Ulisse durante la forte marea ha una sua efficacia; ma la sequenza di Polifemo presenta molti errori, per esempio quando il ciclope entra nella grotta è evidente la disarmonia rispetto alla sua ombra; e, in generale, le dimensioni del gigante sono sproporzionate rispetto alla grotta sapientemente ricostruita dal Mogherini.
Comunque la si pensi, Camerini è alla direzione di una delle produzioni più importanti della Hollywood sul Tevere
, e apre la strada ad un fortunato genere negli anni a venire: il peplum. E questo nonostante il carattere tutto sommato frammentario di Ulisse, causato dalla suddivisione in capitoli
narrativi e anche dall’alternarsi di squadre diverse con risultati discordanti nella messa in scena. Ma l’elemento di maggiore interesse del film è che, per una serie di circostanze, alcuni dei talenti presenti saranno protagonisti del cinema italiano degli anni Sessanta.
Ulisse diventa un laboratorio dove sperimentare la creatività della cinematografia all’italiana
, capace di far convivere sapienza artigianale e inventiva cinematografica. In grado di superare i limiti economici grazie all’arte di arrangiarsi
, spesso raggiunta in virtù di un lungo periodo di apprendistato per molti dei coinvolti.
Mario Camerini, un’anomalia nel cinema italiano.
Massimo Moscati
Perché Camerini
Mario Camerini è stato uno dei motivi per cui il cinema italiano è ancora oggi annoverato tra le maggiori cinematografie del mondo (per inciso, l’Italia è ancora il paese di lingua non anglofona che ha vinto il maggior numero di premi Oscar). Scrittore e sceneggiatore, ha partecipato alla redazione dei testi di quasi tutti i suoi film. Profondo conoscitore delle tecniche di ripresa, più volte ha dimostrato di saperne di più dei direttori della fotografia e degli operatori del tempo. Ha iniziato nel mondo del cinema scrivendo soggetti quando ancora era uno studente liceale. Il suo intuito, la sua competenza, l’amore per i classici della letteratura russa e francese su cui si era formato e la sua visione hanno saputo prevedere il passo necessario perché il cinema italiano si evolvesse, dal semplice sfruttamento del filone storico e mitologico, a un livello narrativo superiore, che parlasse alla gente della propria vita.
Quando tutti giravano film per far sognare gli spettatori di un’Italia povera e arretrata, per spettatori che andavano al cinema per dimenticare la loro quotidianità difficile, cui venivano mostrati ambienti lussuosi, vestiti da sera, telefoni bianchi e gente che dava ordini alla servitù, Camerini (scandalizzando la critica) fece un film che, come protagonisti, aveva un autista e una commessa. Quel film si intitolava Gli uomini, che mascalzoni… e fu un successo enorme in Italia e all’estero, a partire dalla canzone tema del film, Parlami d’amore, Mariù
, che i produttori non volevano, e che viene incisa periodicamente da nuovi interpreti ancor’oggi.
Quando, durante il Ventennio, molti altri nomi del mondo del cinema, per opportunismo o per convinzione, cercavano di ossequiare le autorità fasciste, Camerini continuò a raccontare l’Italia che vedeva senza preoccuparsi delle conseguenze, ben sapendo di rispondere soltanto a chi avrebbe pagato il biglietto per vedere i suoi film. Camerini prese con sé dei giovani sconosciuti ma capaci di scrivere, per contribuire alle sceneggiature: divennero tutti tra i migliori nelle loro professioni: Mario Soldati, sceneggiatore, regista, scrittore, documentarista televisivo; Ivo Perilli e Cesare Zavattini, scrittori e sceneggiatori; Mario Pannunzio, che divenne giornalista e direttore di periodici; Renato Castellani, anch’egli regista, Mario Monicelli e molti altri ancora.
Se Vittorio De Sica è una tra le maggiori stelle nel firmamento della storia del cinema, se è diventato uno dei principali esponenti del Neorealismo, quel modo di raccontare la vita e la realtà che fa scuola ancora oggi in tutto il mondo, lo si deve a Mario Camerini. Lui volle quel giovane magro e allampanato come protagonista dei suoi film, certo che fosse l’interprete giusto dell’italiano che aveva in mente: un ragazzo intraprendente, che non si fa fermare dagli ostacoli, capace di arrivare con furbizia, ma onestamente, a coronare i suoi sogni. Grandi attori teatrali, che in un primo momento snobbavano il cinema, accettarono di farsi dirigere da lui, comprendendo che sarebbe stato un arricchimento per loro recitazione e la loro carriera: Peppino ed Eduardo De Filippo ricordarono sempre l’esperienza di recitare ne Il cappello a tre punte come il momento (loro, cresciuti sul palcoscenico) in cui Camerini gli fece comprendere cos’era stare davanti a una macchina da presa. Camerini non era un sognatore, ma aveva una visione positiva della vita ed era sicuro, a ragione, che la gente si sarebbe riconosciuta nelle storie che era capace di raccontare. Non vinse mai un Oscar perché considerato troppo popolare
per essere scelto per la competizione, ma non se ne fece mai un cruccio. Convinto di essere dimenticato, certo di non aver fatto niente di speciale, non finiva di stupirsi di fronte al sincero riconoscimento di chi lo invitava a parlare del suo lavoro, anche a distanza di anni, e del successo di pubblico nelle rassegne e nei festival dei suoi vecchi film. Gli affibbiarono l’etichetta del René Clair italiano
per quella capacità del regista francese di cogliere la poesia della vita quotidiana con finezza e umorismo. E lui: «Hanno detto gli altri che io ero il Clair italiano, ma io non ho mai pensato di fare Clair. Non ci ho pensato per delle ragioni, così, fisiche. Io mi dimentico tutto, vado a teatro certe volte e uscendo non ricordo quel che ho visto. Se mi domandate la storia di un film mio, non ricordo qual è. Quindi anche la mia cultura è molto bassa, per una ragione proprio di smemoratezza… Sono molto fiero che la gente possa pensare che sono il René Clair italiano, ma non riuscirei a ricordare René Clair per cercar di rifarlo».
Per rimarcare l’umiltà e la sincerità che ha sempre dimostrato di fronte al suo mestiere, in un articolo del 1933 pubblicato sul giornale La Gazzetta del Popolo, dal titolo Come si dirige un film?
esordì dichiarando di non saperlo. Sapeva che ci volevano un regista, una macchina da presa e degli attori, e quindi elencò tutte le variabili e gli accidenti che potevano capitare sul set e che rendevano le riprese imprevedibili, per concludere ironicamente: «Per tutti questi motivi è impossibile