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Blasetti '40
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E-book223 pagine3 ore

Blasetti '40

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Info su questo ebook

7° volume della collana "Cinema del '900".

A cura di Massimo Moscati.

Una nuova collana che, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche. Un'arbitraria, quanto rigorosa istantanea, di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.

Un'esperienza senza eguali nel panorama del piccolo e grande schermo, che dal primo colpo di manovella dato agli albori del regime fascista - con Sole - arriva fino alle porte degli anni '80, con le miniserie televisive.

Per la Settima Arte in particolare Blasetti diede tutto se stesso e, da profondo conoscitore dell’industria e del mezzo, portò avanti per tutta la vita un’idea di cinema collettivo, fondato sulla collaborazione tra diverse professioni.

Negli anni '40 Blasetti realizzò alcuni tra i suoi maggiori successi, dimostrandosi attivo e innovatore più che mai agli occhi di chi già lo vedeva come "uno dei vecchi", magari pronto ad appendere il cappello al chiodo.

Ma come raccontare attraverso un decennio una carriera registica durata almeno cinque volte tanto? Andando a ritrovare proprio nella produzione di quel periodo tutti i punti fermi del pensiero blasettiano e le coordinate di un modo di vivere il cinema che ancora oggi fa scuola.

LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2022
ISBN9788869347832
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    Blasetti '40 - Maria Triberti

    Maria Triberti

    Blasetti ‘40

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, settembre 2022

    e-Isbn 9788869347832

    È vietata la copia e la pubblicazione,

    totale o parziale, del materiale

    se non a fronte di esplicita

    autorizzazione scritta dell’editore

    e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Cinema del ‘900: Massimo Moscati

    Editing: Cesare Paris

    Foto di copertina: © Alessandro Blasetti sul set di Peccato che sia una canaglia (1954)

    Disegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    Maria Triberti

    Laureata in Lettere Moderne con una tesi in Storia del cinema italiano e un Master in Scrittura e produzione per il cinema e la fiction all’Università Cattolica di Milano.

    Ha scritto diversi episodi di podcast di intrattenimento e oggi lavora come Copywriter e Content creator. O, come direbbe Nanni Moretti, fa cose, vede gente. Con un’unica costante tra lavoro e tempo libero: la passione per il cinema, e per le storie in generale.

    Cinema del ‘900, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche.

    A cura di Massimo Moscati, una nuova collana, volutamente arbitraria, ma rigorosa istantanea di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.

    Dieci volumi per dieci autori esperti della materia e grandi conoscitori della settima arte.

    Una collana volta alla riscoperta di grandi capolavori perché il Classico, per sua natura, è sempre contemporaneo e sempre all’avanguardia.

    Un gigante sulle cui spalle possiamo salire per vedere un tratto in più di orizzonte che, altrimenti, rimarrebbe nascosto.

    I titoli della collana:

    Alberini ’00 di Riccardo Lestini

    Pastrone ’10 di Luca Mazzei

    Bertini ’20 di Letizia Cilea

    Camerini ’30 di Beppe Musicco

    Blasetti ’40 di Maria Triberti

    Totò ’50 di Massimo Moscati

    Tognazzi ’60 di Alessandro Garavaglia

    Fellini ’70 di Nicola Bassano

    Moretti ’80 di Antonio Autieri

    Verdone ’90 di Gianluca Cherubini

    Prefazione

    Io, io, io… e gli altri, un testamento

    Nel 1951 Luchino Visconti chiede ad Alessandro Blasetti di interpretare sé stesso in Bellissima, satira caustica sul mondo di Cinecittà, che negli anni ’40 aveva visto il regista tra i protagonisti assoluti (compresa un’adesione al fascismo fino al ’36, che gli fu perdonata). Blasetti accetta il ruolo con quella dose di autoironia che lo caratterizzava (un po’ come fece, in Viale del tramonto di Billy Wilder, Cecil B. De Mille).

    Quindici anni dopo, a sessantacinque anni e con una trentina di film al suo attivo, Blasetti è ancora una figura familiare, unanimemente ammirato e rispettato per la sua bonaria autorità e per il suo solido talento. Nonostante questo, incontra qualche difficoltà nel montare Io, io, io… e gli altri (1966), che concepiva come una sorta di film testamento (anche se avrebbe lavorato ancora fino al 1981).

    Il pretesto della trama è un’indagine sull’egoismo, affidata ad un giornalista impersonato da Walter Chiari, che si trasforma in una confessione. Il personaggio, studiando il comportamento degli altri, alla fine scopre i propri difetti.

    A prima vista, viene da pensare di aver già visto diversi film come questo: una commedia all’italiana degli anni Sessanta (del Novecento), che inanella bozzetti necessariamente diseguali su un tema centrale – appunto l’egoismo – adeguato alla satira morale e sociale, con tutto il corteo nazionale delle stelle dell’epoca (Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Vittorio De Sica, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni…). Se aggiungiamo un titolo esteso che ammicca all’arlecchinata, una prassi che sarà molto amata da Lina Wertmüller, sembra di avere a che fare con uno dei tanti film del periodo, un intero genere in sé un po’ datato e fuori moda. Solo che Alessandro Blasetti non era uno qualsiasi.

    Senza dubbio questa forma annunciata di film a tema sull’egoismo non entusiasmava i produttori, e l’unico modo per uscirne fu che i divi coinvolti accettarono di partecipare a titolo gratuito per l’illustre Maestro. Una vergogna, a pensarci oggi!

    Il progetto vede finalmente la luce, riscontrando, alla sua uscita, un notevole successo e facendo guadagnare al regista il David di Donatello 1966 come miglior regista.

    Il tono umoristico della proposta è annunciato dai divertentissimi titoli di coda che sono anche una spassosa provocazione: il nome di Blasetti compare quattro o cinque volte (soggetto, sceneggiatura, regia, un film di…) e, quando abbinato ad altri, si espande per schiacciarli e occupare tutto lo spazio sullo schermo.

    Walter Chiari veste i panni del conferenziere-protagonista Sandro, un giornalista che, indagando sull’egoismo e studiando il comportamento dei suoi concittadini, a cominciare da chi lo circonda, si rende conto di trovarsi di fronte ad uno specchio riflesso.

    Walter Chiari era un interprete che aveva familiarità con i ruoli da simpatico mascalzone (come l’Annovazzi di Bellissima che si fa tirare su le bretelle dal maestro Blasetti in persona: guarda i casi della vita!), ed era un navigato maestro nella gestione dell’autoironia: la scelta ideale per far affiorare la fragilità nascosta sommersa nella spudoratezza della superficie. Se il film di Blasetti non gli permette di disegnare un personaggio indimenticabile, come il padre un po’ immaturo che cerca di destare l’ammirazione del figlio ne Il giovedì (1963) di Dino Risi, la sua eccellente interpretazione in Io, io, io… e gli altri aiuta a far emergere tutto ciò che gravita di sotterraneo fra i vari personaggi coinvolti, serve a dare all’insieme la sua unità.

    Perché se nel film regna l’umorismo, e se la galleria dei ritratti è abbozzata con la vena tagliente del caricaturista, c’è più gioia che malizia, e la malinconia finisce per prevalere. Blasetti non esita a risolvere la sua commedia con il riconoscimento del fallimento del suo narratore, che finirà amareggiato e disincantato. C’è Silvia, la diva la cui carriera lui stesso ha contribuito a lanciare qualche anno prima, che sognava una vita completamente diversa. La sublime Silvana Mangano è travolgente in questo ruolo, il più commovente del film in abbinata con quello di Peppino, l’amico altruista dell’eroe che muore a braccia aperte cercando di afferrare un operaio sardo che cade da un’impalcatura in costruzione: Marcello Mastroianni (scoperto proprio da Blasetti in Peccato che sia una canaglia), addobbato con degli occhiali impossibili, sa renderlo insieme ridicolo ed estremamente toccante. Ma anche le composizioni gustose ed estroverse di Vittorio De Sica, commendatore ipocrita, di Gina Lollobrigida, irresistibile moglie civettuola, e di tutti gli altri (Vittorio Caprioli, Franca Valeri, Sylva Koscina…) fanno affiorare uno sfondo di angoscia sotto la caricatura spensierata.

    Elegantemente allestito e più profondo di quanto sembri a prima vista, Io, io, io… e gli altri è certamente concepito a immagine del suo autore: non sempre evita luoghi comuni e certi effetti facili ma riesce a sorprendere e anche a commuovere, coronando dignitosamente una carriera ricca di brillanti conquiste.

    Del resto, Alessandro Blasetti era un attivista cinematografico, che dapprima difese i valori artistici del mezzo sui giornali e, a soli 26 anni, fondò una rivista diventata emblematica: Lo Schermo, trasformata in seguito in cinematografo. Intraprende rapidamente la regia e diventa uno degli autori italiani più interessanti del periodo tra le due guerre. È noto soprattutto per essere stato all’origine del neorealismo nel 1942 – contemporaneamente a Luchino Visconti e Vittorio De Sica – con 4 passi fra le nuvole. Si è poi distinto, dagli anni Cinquanta, nella commedia.

    Come accennato, Io, io, io… e gli altri è sostanzialmente il suo gioiello conclusivo, una sorta di testamento cinematografico, l’ultimo lavoro veramente personale. Perché, nonostante la sua incredibile coorte di sceneggiatori (una dozzina: Age & Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico, Adriano Baracco, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Vincenzo Talarico, Ennio Flaiano…) il film ha una precisa risonanza autobiografica – il titolo, allo stesso tempo, attira l’attenzione tanto sulla miriade di personaggi ma anche sull’autoritratto intimo del suo autore (che del resto co-sceneggia).

    In fondo, è un finto film di sketch. Solitamente un lungometraggio del genere, all’epoca molto diffuso, era composto da storie autonome più o meno sapientemente collegate tra loro, ma senza un vero filo conduttore. Qui non ci si discosta quasi mai dalla traiettoria del giornalista e dalla sua indagine, sempre al centro della narrazione. L’intervento dei vari sceneggiatori è soprattutto volto a garantire, nella prima ora del film, una continua presenza di gag e scenette beffarde dell’egoismo dell’individuo a tutti i livelli.

    A vederlo oggi Io, io, io… e gli altri sembra un fumetto, ha il ritmo delle stripes dei quotidiani.

    Blasetti orchestra un collage, organizzato secondo una fuga libera e disinibita verso le associazioni di idee, riuscendo ad affascinare e a intrigare man mano che l’ampiezza della sua narrazione si dispiega.

    Per una stagione come quella odierna, che pensava di aver sconfitto la guerra, risalta per attualità una sequenza del film. In un parco, Sandro incontra dei bambini che si divertono a litigare per una manciata di monete durante un infantile confronto verbale. Mentre li ascolta, il giornalista osserva un foglio di giornale: lo apre e scopre un articolo che ripercorre la posta in gioco degli accordi di Monaco del 1938. Le fotografie mostrano i principali protagonisti dell’evento: Hitler, Mussolini, Chamberlain e Daladier. Uno di loro prende vita e da lì il montaggio ruota attorno alle immagini di repertorio in cui parlano questi diversi personaggi, ma i loro discorsi sembrano prolungare le argomentazioni dei bambini. Vengono poi messe sullo stesso piano guerre reali e le assurde polemiche puerili: gli uomini non crescono, è la loro arroganza e il danno che provocano a prendere il sopravvento: un Io che niente può contenere. Un raffinato esercizio di montaggio che non ha perso nulla della sua attualità.

    Allo stesso tempo, la psicologia di Sandro acquista spessore e ambiguità.

    Infine, nell’ultima mezz’ora, dopo essere riuscito a trovare il suo equilibrio in questo gioioso e ordinato caos, il film vira bruscamente verso il dramma e la gravità. Molti dei segnali seminati in precedenza, e che apparentemente sembravano ostacolare la macchina del racconto, trovano la loro dimensione e il loro significato nei superbi e crepuscolari capitoli della fine. La satira, fino ad allora leggera, si tinge infine di crudeltà. Il lutto per l’amicizia e per l’amore costituisce la coda inevitabile del concerto necessariamente da solista dell’egoismo.

    Tutto sommato, Io, io, io… e gli altri è un po’ per Blasetti ciò che 8 ½ è per Fellini: un lavoro introspettivo e molto personale in cui un regista riflette su sé stesso, sulla sua creazione e sul suo rapporto con gli altri. Lontano dai deliri barocchi e onirici di Fellini, il regista firma una commedia pungente, intelligente e corroborante. Quasi come in un selfie con mezzo secolo d’anticipo, Blasetti definisce la tragedia della nostra modernità in cui l’Io crede di realizzarsi distaccandosi dagli altri, mentre si sta solo privando di ogni speranza di realizzazione.

    Massimo Moscati

    Premessa

    Uno, nessuno, centomila Blasetti

    Chi conosce la figura di Alessandro Blasetti oltre il luogo comune del regista del fascismo sa che egli, come tutti i personaggi poliedrici dalla carriera sconfinata, è stato molte cose insieme e si è guadagnato molte etichette. Di queste ultime, alcune calzanti, altre meno.

    Prima di tutto (e forse più di tutto), Blasetti è stato un teorico. Nel 1923, poco più che ventenne, laureando in giurisprudenza e di professione impiegato di banca, iniziava a collaborare come critico di prime visioni cinematografiche e di operette musicali sul quotidiano L’Impero. Due anni dopo sullo stesso giornale introdusse una sua rubrica di critica cinematografica, intitolata Lo schermo. Da queste colonne, schierato con la linea editoriale del quotidiano, Blasetti per la prima volta diede voce alla necessità di lavorare per una rinascita del cinema italiano. La settima arte prodotta nei confini nazionali pareva infatti aver già perso la propria luminosità, oscurata dalla concorrenza proveniente da oltreoceano. Come critico, Blasetti non si lasciava tanto andare ad analisi poetico-filosofiche, quanto piuttosto cercava di incoraggiare una direzione di lavoro, come un tecnico desideroso di immergersi nelle conoscenze e nelle pratiche della materia in esame. Appena ne ebbe l’occasione, non temette nemmeno di agitare la polemica; nello specifico, contro l’Unione Cinematografica Italiana (UCI), per la mancanza di una progettualità artistica volta al progresso.

    Nel 1926 Blasetti co-fondò il settimanale del cinematografo Il mondo a lo schermo, che poi diventò semplicemente Lo schermo e infine cinematografo (rigorosamente con l’iniziale minuscola). Seguì Lo spettacolo d’Italia. Su tutte queste riviste, il futuro regista rigettò spesso parole di fuoco allo scopo di sollecitare una rivoluzione del sistema produttivo nel cinema italiano. Emblematica è la Lettera aperta ai banchieri d’Italia pubblicata su Lo schermo il 23 agosto 1926, nella quale invitava i Consiglieri d’Amministrazione e i Direttori Centrali delle massime e medie banche del Paese a investire nell’industria filmica nazionale, presentando una stima del margine di guadagno sulla base dei risultati ottenuti dalle majors americane. Accanto al discorso sulla produzione, Blasetti si rivelava inoltre lucidissimo nel cercare di formare il pubblico al gusto del cinema. La spinta alla teorizzazione e al continuo rinnovamento del cinematografo accompagnò Blasetti per tutta la vita, portandolo a firmare innumerevoli interventi sul ruolo del regista (inizialmente chiamato direttore artistico), dello sceneggiatore, dell’attore, del compositore; sui rapporti tra Stato e industria; sulla censura; su cinema e arte e molto altro.

    In questo e non solo, Alessandro Blasetti è stato un pioniere. In un’epoca in cui il cinematografo ancora prendeva le misure del proprio perimetro operativo, Blasetti intuiva tutte le potenzialità di quel mezzo semi-nuovo, interrogandosi su ciò che sarebbe potuto diventare nel futuro. Condannò infatti il mondo del teatro, che guardava al cinema con sospetto, auspicando una sempre maggiore contaminazione tra le diverse forme d’arte e di intrattenimento. E come regista, non si stancò mai di sperimentare nuovi strumenti, nuovi generi, inventare tecniche, sfidare se stesso ad andare oltre i confini che gli erano familiari. Lo stesso fece, a partire dal 1962, con la televisione: allora, a più di sessant’anni, si mise in gioco ancora una volta. E proseguì per vent’anni!

    Da veterano del cinema, Blasetti fu chiamato da molti Maestro; ma maestro lo era stato anche di fatto, prima (dal 1932 al 1934) alla Scuola Nazionale di Cinematografia e poi (dal 1935 al 1942) al Centro Sperimentale di Cinematografia. L’esperienza della Scuola, sebbene di breve durata a causa della mancanza di risorse strutturali e organizzative, è quella che Blasetti ricordò con maggior passione e che pare più funzionale per il tratteggio di un suo profilo. Alla sua prima lezione come docente di recitazione, tutti gli allievi per presentarsi gli consegnarono delle fotografie cosiddette espressive, dove si mettevano in posa scimmiottando emozioni come rabbia, amore, pazzia, e così via. Blasetti chiese loro di ripeterle dal vivo, e l’esercizio man mano degenerò in un coro di risate che evidenziavano tutto il «fasullismo teatraloide» di quel modo di recitare. Per liberarli da quelle sovrastrutture artificiose (e forse anche per mancanza di mezzi), il regista iniziò dunque a portare i giovani in visita presso alcuni luoghi dove trarre spunto per la loro professione. Iniziò con un manicomio, per mostrare loro come fossero i veri pazzi. Poi proseguì con un carcere femminile, uno maschile, un ospedale e persino un obitorio. Dopo un mese di queste trasferte – raccontò Blasetti – gli attori già si erano liberati dei loro precedenti modelli.

    Un’altra famosa etichetta è quella che identifica Blasetti come il regista con gli stivali.

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