Totò '50
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2° volume della collana "Cinema del '900".
A cura di Massimo Moscati.
Una nuova collana che, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche. Un'arbitraria, quanto rigorosa istantanea, di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.
Tutto quello che c'è da sapere su Antonio de Curtis, in arte Totò, il principe della risata.
Il saggio analizza in dettaglio i film interpretati da questo straordinario attore nel corso degli anni '50, il decennio della sua indiscutibile consacrazione da parte del pubblico (senza dimenticare il "prima" e il "dopo", il teatro, la Tv, la vita).
Pellicole che, anche grazie alla sua impareggiabile vis comica, sono riuscite a dare un quadro vividissimo della società italiana del dopoguerra.
Massimo Moscati
Massimo Moscati, giornalista e sceneggiatore, ha scritto numerosi libri sul cinema fra i quali: Manuale di sceneggiatura (Mondadori), Ammazza che fusto (Rizzoli, scritto con Alberto Sordi), Il monumentale Grande dizionario dei film (Hobby&Work), Filmania-Enciclopedia multimediale del cinema (Expert System), Introduzione al cinema (Lattes), Benignaccio con te la vita è bella (Rizzoli-Bur) e il libro-intervista collettivo Bollicine di futuro (Rizzoli-Bur). Creatore della serie mondadoriana Nero italiano, ha pubblicato inoltre Guida al cinema dell'orrore (Il Formichiere), Western all’italiana (Pan), I predatori del sogno (Dedalo), James Bond-Missione successo (Dedalo), Breve storia del cinema (Bompiani). Di prossima uscita: Manuale di sceneggiatura e Totò ’50 (Bibliotheka).
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Anteprima del libro
Totò '50 - Massimo Moscati
Massimo Moscati
Totò ‘50
© Bibliotheka Edizioni
Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma
tel: (+39) 06. 4543 2424
info@bibliotheka.it
www.bibliotheka.it
I edizione, dicembre 2021
e-Isbn 9788869347443
È vietata la copia e la pubblicazione,
totale o parziale, del materiale
se non a fronte di esplicita
autorizzazione scritta dell’editore
e con citazione esplicita della fonte.
Tutti i diritti riservati.
Direttore della collana Cinema del ‘900
: Massimo Moscati
Editing: Cesare Paris
Foto di copertina: Totò in Il più comico spettacolo del mondo (1953)
© Reporters Associati & Archivi Srl - Roma
Disegno di copertina: Riccardo Brozzolo
Massimo Moscati
Milanese, giornalista, direttore editoriale, ha scritto numerosi libri sul cinema fra i quali: La fantacoscienza – Il cinema di fantascienza dopo il 1968 (WoW), Guida al cinema dell’orrore (Il Formichiere), Western all’italiana (Pan), I predatori del sogno (Dedalo), James Bond – Missione successo (Dedalo), Manuale di sceneggiatura (Mondadori), Ammazza che fusto (con Alberto Sordi – Rizzoli), Il Grande dizionario dei film (Hobby&Work), Filmania – Enciclopedia multimediale del cinema (Expert System), Breve storia del cinema (Bompiani), Introduzione al cinema (Lattes), Benignaccio con te la vita è bella (Rizzoli-Bur), Scrivere un romanzo e Scrivere una sceneggiatura (Bibliotheka).
È stato script-analyst di Reteitalia (per Carlo Bernasconi), creatore della serie mondadoriana Nero italiano.
Nel 2021 ha esordito in narrativa con 1958 – C’era una volta in Almeria (Golem).
Dirige la collana edita da Bibliotheka Cinema del ‘900
Cinema del ‘900, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche.
A cura di Massimo Moscati, una nuova collana, volutamente arbitraria, ma rigorosa istantanea di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.
Dieci volumi per dieci autori esperti della materia e grandi conoscitori della settima arte.
Una collana volta alla riscoperta di grandi capolavori perché il Classico, per sua natura, è sempre contemporaneo e sempre all’avanguardia.
Un gigante sulle cui spalle possiamo salire per vedere un tratto in più di orizzonte che, altrimenti, rimarrebbe nascosto.
I titoli della collana:
Alberini ’00 di Riccardo Lestini
Pastrone ’10 di Luca Mazzei
Bertini ’20 di Letizia Cilea
Camerini ’30 di Beppe Musicco
Blasetti ’40 di Maria Triberti
Totò ’50 di Massimo Moscati
Tognazzi ’60 di Alessandro Garavaglia
Fellini ’70 di Nicola Bassano
Moretti ’80 di Antonio Autieri
Verdone ’90 di Gianluca Cherubini
Premessa
Perché Totò
Decidere di scrivere l’ennesimo libro su Totò genera riflessioni contrastanti: positive, perché esiste una tale mole di documentazione (saggi, internet, film ormai immediatamente reperibili) da rendere l’operazione
facilmente gestibile; negative, perché l’assoluta inclinazione agiografica della critica (dopo anni di ostilità) rende l’operazione
piuttosto complicata.
Antonio de Curtis, in arte Totò, ha sperperato il proprio talento nei numerosi film mediocri interpretati in tutto l’arco della sua carriera. Questo non significa non volerne riconoscere i meriti, il talento di una maschera
inconfondibile, ma cercare di fare un po’ di ordine nella banalità. Non è vero che la critica non apprezzasse Totò (tranne, ovviamente, alcuni), più semplicemente gli rimproverava di non voler fare le giuste scelte, di partecipare ad operazioni di pancia
, sostanzialmente basate sulla sua straordinaria capacità d’improvvisazione. Cast spesso di livello (registi, sceneggiatori, comprimari…) ma in prestazioni opache: Tanto ad aggiustare ci penserà Totò
. De Curtis, del resto, non amava realmente il cinematografo: era semplicemente lo strumento che lo aveva portato all’agiatezza. Nella storia del cinema, ma con risultati personali ben differenti, c’è un altro Grande
che ha dissipato la sua Arte: Orson Welles (e i due hanno pure recitato insieme!).
Se Totò è morto ormai da 55 anni, la sua rivalutazione critica incomincia con i primi anni Settanta (grazie, fra l’altro, alla riproposta in due sale di seconda visione di Roma e Milano di Totò a colori). Certo i colleghi, gli uomini e le donne di cinema, erano assolutamente consapevoli dello spessore artistico dell’attore, della sua maestria: durante le riprese tutti rimanevano rapiti dalla sua professionalità e grande capacità di costruire battute che spesso facevano morir dal ridere la troupe. Ma da parte degli osservatori della carta stampata il percorso è stato più lento.
Risulta abbastanza chiaro, a questo punto, che il mio giudizio sull’Arte di Totò coincide con ciò che ebbe modo di scrivere Umberto Eco alcuni anni fa: «Sul Corriere della Sera di lunedì scorso Tullio Kezich risponde a Renzo Arbore il quale avrebbe affermato che Totò è più grande di Charlie Chaplin. Kezich osserva che Chaplin è un artista a tutto tondo perché ha concepito e diretto, oltre che interpretato i suoi film, mentre Totò è stato variamente sfruttato, direi, come materiale
comico e in modo spesso occasionale. Premetto che sono un fanatico di Totò e non mi stanco mai di rivedere i suoi film, anche se li conosco a memoria, mentre rivedo Chaplin con moderazione, oserei dire con rispettoso distacco. Eppure ritengo che Chaplin sia un grande artista, come Balzac o Vivaldi, mentre Totò resta un insuperabile fenomeno di comicità istintiva, un fatto di natura, come un uragano o un tramonto». Era un commento nella rubrica de L’Espresso La bustina di Minerva
dal titolo inequivocabile: "A prescindere da Totò è meglio Chaplin: Eco delimitava i confini tra
arte e
artigianato".
Soltanto se si sgombera il campo da imbarazzanti paragoni – Charlot, Buster Keaton, Laurel & Hardy… – si può continuare ad ammirare l’unicità
di Totò. Che non era un intellettuale, ma nemmeno un regista o uno sceneggiatore, del calibro dei comici citati (per la coppia
Stanlio e Ollio, ovviamente Stan Laurel). Certa critica buonista
, sviluppatasi nel periodo della rivalutazione dell’artista, alla fine lo ha come imbalsamato in innumerevoli luoghi comuni. E, certamente, non si deve attribuire a Pasolini il merito dell’ascesa di Totò nell’empireo della Cultura: l’attore venne usato
come una marionetta (una maschera) in operazioni lodevoli ma che egli nemmeno comprese in pieno, tanto culturalmente erano da lui distanti.
A voler riassumere in poche righe l’attività professionale di de Curtis, si potrebbe scrivere che i massimi livelli di comicità furono raggiunti nei film in coppia con Peppino De Filippo e che la carriera produttiva si può così codificare
: il periodo più fecondo con le produzioni di Giovanni Amati (Mario Mattoli, Carlo Ludovico Bragaglia, film del calibro di Guardie e ladri) e le produzioni – talvolta impegnative – dei partner in affari Dino De Laurentiis-Carlo Ponti; e il lungo declino con le commedie piccolo-borghesi prodotte da Isidoro Broggi e Renato Libassi (che, tuttavia, danno vita ad opere spassose e ancora ricordate come Totò, Peppino e la… malafemmina o Signori si nasce), per finire con le operazioni produttive del genero Gianni Buffardi, che introduce un corpo estraneo
come il regista Sergio Corbucci.
Quando abbiamo deciso di scegliere solo
dieci nomi (fra registi e attori) che rappresentassero il Cinema del 900 italiano, quello di Totò è stato comunque fra i primi ad emergere. Ancora una volta per la sua unicità
nel panorama artistico nazionale (e non solo) indipendentemente da ragionamenti che potessero avvitarsi intorno alla definizione di Arte.
Come pochi altri (in tempi successivi Massimo Troisi, anch’egli napoletano) Totò concepisce la commedia come un tutt’uno con i giochi linguistici (oltre che corporali): si avvale delle possibilità offerte dal linguaggio comico (dalla sua più antica tradizione, al teatro popolare senza dimenticare la commedia dell’arte) per ottenere l’alienazione dei suoi spettatori (e dei personaggi che gli fanno da spalla) come reazione ai codici tradizionali della comunicazione, codici che si riducono a semplici suoni quando non si trasformano in veicoli dai significati molto lontani da quelli attesi, se non addirittura opposti. Il risultato è il paradossale tentativo di comunicare attraverso l’incomunicabilità, uno straniamento che de Curtis esprimeva a livello istintivo: «Dunque: noi vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare. Sa, è una semplice informazione…». Certo, poi è subentrata la studiata professionalità. La deformazione dei nomi è la figura retorica preferita da Totò (e dal suo pubblico) perché legata all’improvvisazione, ma anche utile salvagente dai buchi di sceneggiatura: l’attore sopperiva alle lacune narrative in maniera magistrale. Memorabile, ne La banda degli onesti la storpiatura che Totò fa del cognome del personaggio di Peppino: così Lo Turco diventa Lo Turzo
, Lo Curto
, Lo Tricoli
, Lo Struzzo
, Gian Turco
, Turchetti
!
La sostituzione dei suoni poteva consistere nel cambio di una lettera o di un suono; oppure nella trasposizione di fonemi all’interno di una parola [metatesi], fedigrafo
per fedifrago; o di parole diverse, che topi di tipi
al posto di che tipi di topi
; o nell’alterazione dell’ordine delle parole di un’intera frase, un amico vestito da prete
diventa un prete vestito da amico
. Ma Totò utilizza spesso anche un’altra figura retorica (quanto consapevolmente?), l’inquadramento di una parola in una serie esclusivamente per associazioni fonetiche o morfologiche [paretimologia]: un classico la sua abitudine nel mescolare continuamente le lingue. Un vero vortice linguistico quello dell’attore, nel cercare – e creare – somiglianze semantiche tra parole partendo dalla somiglianza fonetica (magari per deformarle ulteriormente): «Noio… volevam… volevàn savoir… l’indiriss…ja…».
La lingua di Totò spazia dall’italiano popolare a quello dei tecnicismi e della burocrazia passando per il turpiloquio, forme auliche e arcaiche, stereotipi e discorsi snob della borghesia (in salsa partenopea). In molti suoi film sono presenti personaggi dal forte accento regionale, in un mescolamento di dialetti che realmente dà il senso dell’Unità d’Italia.
Di contro, Totò predilige ridicolizzare l’italiano ufficiale e lo fa attraverso quei personaggi che preferiscono il linguaggio eccessivamente altisonante caratteristico degli avvocati e dei notai; personaggi che criticano l’uso del dialetto da parte di altri, accusandoli di essere ora dei polentoni
, ora dei terroni
; e scatta la contraddizione: «Qui si parla italiano… ostrega!».
Ben si comprende che l’unicità
di Totò è stata anche la sua prigione: per quanto spesso esportato
all’estero (soprattutto in Spagna, talvolta in Francia), l’attore perdeva totalmente le sue peculiarità. Molto di più di quanto potesse accadere ad un Fernandel o a un Louis de Funès tradotti in italiano. Su questo versante metalinguistico di storpiature, Totò si sbizzarriva con l’uso del latino, infarcendo di motti storpiati i suoi dialoghi: da Lupus in fabula scambiato per un nome, alla preghiera (?) Cave canem, cave canem, in hoc signo vinces, est., est., est!, da A estremum malis estremus rimedium a Castigat ridendo mores: ridendo castigo i mori, da Ho pazienza, aspetto. Gattibus frettolosibus fecit gattini guerces, da Audax fortuna iuvat. Chiaro? a De gustibus non ad libitum sputazzellam.
È evidente che il latino rappresenta la lingua del potere e che Totò non fa altro che ispirarsi all’antica tradizione della Commedia dell’Arte e ai suoi divertenti esempi di latino maccheronico che in Italia caratterizzano il teatro popolare senza soluzione di continuità. La sua è una continua provocazione.
Insomma, qualunque sia la deformazione linguistica (lingue straniere, latino…), Totò utilizza questo linguaggio articolato senza un significato apparente, ma lo distribuisce sapientemente per contribuire al processo di alienazione che è alla base della (sua) commedia.
Qualche esagerato estimatore di Totò si è spinto a ritenerlo più elevato
di Charlot proprio perché, contrariamente a quest’ultimo, sarebbe intraducibile. Ora, posto che semmai è proprio l’universalità
a confondersi con l’Arte, è precisamente questa complicazione linguistica insita in Totò ad impedirgli di manifestarsi oltre i lidi nazionali (e quelli foneticamente attigui).
Come sempre Umberto Eco ebbe a scrivere in un suo articolo: «Il che m’indurrebbe a riflettere su come, in questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistano ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli di cui uno ignora Totò?».
Ecco, quindi, Totò secondo questo ennesimo
saggio, come scrivevo all’inizio. Un testo che affronta con rispetto, ma anche con la debita distanza
critica una delle figure più rappresentative dello spettacolo italiano del Novecento.
Massimo Moscati
Il cinema italiano degli anni ‘50
Il neorealismo, attaccato da ogni fronte, subisce la disaffezione del pubblico, il disconoscimento (o meglio, ridimensionamento) della critica e la censura del governo. Di contro, la commedia (non ancora) all’italiana si espande senza freno. Siamo ancora nel semplice ambito, realistico e populista, di una lettura umoristica della realtà italiana. Si sviluppa uno stile
da commedia che ben si armonizza con l’atmosfera dell’epoca; collocazione sociale ed economica, personaggi modesti, scenari naturali, messaggio finale di fraternità: gli elementi di base del neorealismo sono presenti, ma attenuati in un’ironia qualche volta feroce, una farsa spesso grottesca che modificano completamente l’inquietudine del soggetto.
Figura emblematica è Totò, che domina per tutto il decennio la commedia nazionale, raggiungendo il vertice della sua arte e della sua popolarità (ma soprattutto in termini di incassi al botteghino).
Ma Totò non è il solo a occupare la scena della commedia in questi anni. Numerosi registi lavorano con quegli sceneggiatori capaci di valorizzare gli attori amati dal pubblico: gli anziani (Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, lo stesso Vittorio De Sica), i nuovi (Walter Chiari, Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, ma anche Gina Lollobrigida e Sophia Loren) si vedono offrire ruoli precisi che finiscono con l’immedesimare l’interprete alla parte e, tramite la caricatura, ridisegnano i rapporti di classe o i comportamenti sociali. Così Alberto Sordi, piccolo-borghese romano, piagnucoloso e ipocrita, vile e fanfarone in film tra loro molto differenti, ma che spesso rappresentano i vertici del cinema italiano, come Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953), entrambi di Federico Fellini, Un americano a Roma (1954) di Steno – film nodale per la definizione del suo tipo
– , Il marito (1958), di Nanni Loy e Gianni Puccini, fino a La grande guerra (1959) di Mario Monicelli. Ugualmente, Gassman il mattatore
, Manfredi il povero buffone, De Sica l’uomo démodé: tutti dimostrano con vividezza che la commedia all’italiana – per la cronaca nasce ufficialmente con I soliti ignoti (1958), guarda caso con Totò guest star – funziona innanzitutto sulla presenza di attori, ai quali permette di esibire il loro talento (serviti in modo determinante dagli sceneggiatori).
Come nel caso di Totò, di fronte al successo crescente di alcuni film, l’industria cinematografica decide di sfruttare a fondo il filone, dando vita a degli stereotipi che finiranno con l’impoverire il fenomeno: non sempre l’uso di ingredienti standard produce gli effetti desiderati.
Ma nel decennio esistono almeno altri tre filoni
di grande successo per la nostra commedia: la serie di Don Camillo (1952), con Fernandel e Gino Cervi, che offre una rassicurante visione dello scontro politico tra comunisti e democristiani, diluito nelle schermaglie infinite tra il sindaco Peppone e il parroco Don Camillo (5 film fino al 1965); la serie inaugurata da Pane, amore e fantasia (1953), con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, che cerca di descrivere i contrasti e le contraddizioni della società italiana attraverso l’esperienza di un maresciallo dei carabinieri giunto dal Nord in un povero villaggio del meridione (4 film fino al 1958, in uno dei quali la Lollo
viene sostituita dalla Loren); Poveri ma belli (1957), con Renato Salvatori e Maurizio Arena, le vicende di due giovani coatti
romani di belle speranze (3 film fino al 1959).
In pratica la commedia (poi diventata all’italiana
) consente agli autori di affrontare temi altrimenti banditi dalla censura.
Ma non è completamente vero che la platea di profondità ricerchi solo l’evasione comica. Un caso a parte è rappresentato da Raffaello Matarazzo (attivo nel nostro cinema già dagli anni ’30), che in questo decennio diventa il protagonista assoluto del melodramma (di marchio Titanus) con l’accoppiata Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson interpreti privilegiati di film strappalacrime dai grandi incassi: Catene (1950), I figli di nessuno (1951), Tormento (1951), Chi è senza peccato… (1953), Vortice (1954), Torna! (1954), L’angelo bianco (1955). Ecco, nemmeno Totò riesce a reggere il confronto.
Ma il cinema italiano degli anni Cinquanta esprime anche altro: continuano a rimanere in attività vecchi artigiani (Alessandro Blasetti, Carmine Gallone), emergono nuovi registi (Mauro Bolognini, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, e gli stessi Vittorio De Sica e Roberto Rossellini), ma anche sceneggiatori (Sergio Amidei, Ennio De Concini, Rodolfo Sonego, Age [Agenore Incrocci] e [Furio] Scarpelli), e attori… come Totò.
Tutti convivono, lavorano insieme, costituiscono un crogiolo nel quale convergono diverse influenze per costruire il nuovo cinema italiano che non sarà mai un insieme uniforme e immutabile.
Vita di Totò
Memorizziamo il vero
nome: principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio (15 febbraio 1898 – 15 aprile 1967), meglio conosciuto con il nome d’arte Totò, noto più semplicemente come Antonio de Curtis, e soprannominato il Principe della risata
, è stato un comico, attore cinematografico e teatrale, scrittore, cantante e cantautore italiano. Il suo stile e una serie di battute e gesti ricorrenti sono diventati meme universalmente tramandati in Italia attraverso generazioni.
Totò nasce Antonio Clemente il 15 febbraio 1898 nel quartiere povero di Napoli Rione Sanità, figlio illegittimo della siciliana Anna Clemente e del marchese Giuseppe de Curtis di Napoli. Il padre non lo riconobbe legalmente fino al 1937. Il fatto di essere cresciuto senza padre segna profondamente Antonio che, a 35 anni e ormai benestante, riesce a farsi adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas in cambio di un vitalizio. Quando, in seguito, il marchese de Curtis lo riconosce, Totò diventa l’erede di due nobili famiglie, rivendicando così un’impressionante sequenza di titoli nobiliari.
Nel 1946, cessata l’attività della Consulta Araldica, l’organismo che consigliava il Regno d’Italia in materia di nobiltà, il Tribunale di Napoli riconosce i suoi numerosi titoli, per cui il suo nome completo viene cambiato da Antonio Clemente ad Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Gagliardi de Curtis di Bisanzio, Sua Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e Illiria, Principe di Costantinopoli, Cilicia, Tessaglia, Ponto, Moldavia, Dardania, Peloponneso, Conte di Cipro ed Epiro , Conte e Duca di Drivasto e Durazzo. Per uno nato e cresciuto al Rione Sanità questo rappresenta un bel traguardo, ma nel rivendicare i titoli (per quanto ormai privi di valore nell’Italia repubblicana) il comico li sbeffeggia anche per la loro intrinseca inutilità. Infatti, quando non usa il suo nome d’arte Totò
, si riferisce a sé stesso semplicemente come Antonio de Curtis
.
Per assicurargli un futuro, la madre di Totò vuole che diventi prete, ma già nel 1913 (ad appena 15 anni), il giovane recita come comico in piccoli teatri, sotto lo pseudonimo di Clerment
. Il suo primo repertorio consiste principalmente in imitazioni dei personaggi del grande comico del momento Gustavo De Marco. Nei locali minori dove si esibisce, Totò ha modo di incontrare artisti che sarebbero diventati famosi come Eduardo e Peppino De Filippo.
Dopo aver prestato servizio nell’esercito durante la Prima guerra mondiale Antonio riprende a recitare. La sua è una vera e propria scuola: apprende l’arte dei guitti, i comici napoletani dell’improvvisazione, eredi della tradizione della Commedia dell’Arte, e inizia a sviluppare i segni distintivi del suo stile, tra cui una gesticolazione scomposta e simile a un burattino, espressioni facciali enfatizzate e un estremo, a volte surreale, senso dell’umorismo, in gran parte basato sull’enfatizzazione di impulsi primitivi come la fame e il desiderio sessuale.
Nel 1922 si trasferisce a Roma per esibirsi in teatri più importanti. Si esibisce nell’avanspettacolo – una miscela di vaudeville di musica, balletto e commedia che precede