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I Gattopardi e le Iene: Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi
I Gattopardi e le Iene: Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi
I Gattopardi e le Iene: Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi
E-book167 pagine2 ore

I Gattopardi e le Iene: Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi

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Info su questo ebook

“Ecco, quindi, con il collo infilato in questo nodo scorsoio, al “Cinema” nostrum non resta che soffocare lentamente, progressivamente, scalciando finché morte non ne sopravvenga. E, quel che è più insultante ed ingiurioso, sotto gli occhi foderati di prosciutto di una platea - composta in primo luogo dal pubblico delle sale, poi, via via, dai critici e/o giornalisti cinematografici di tv e carta stampata con le loro stellette e le loro palline da assegnare, dai direttori di festival grandi e piccoli, dai programmatori dei palinsesti televisivi e chi più ne ha più ne metta - che non muove un dito per impedirlo e che anzi, ad ogni piè sospinto, non perde occasione per celebrarne le radiose sorti e progressive, i “capolavori” (...) Quanto all’incensamento dei campioni d’incasso, in una Nazione che sta diventando sempre più autarchica e strapaesana, dalla cultura in giù, è l’argomento principe della macchina propagandistica di tv, giornali, web, pronti in qualsiasi occasione a stracciarsi le vesti per l’enorme successo di questo o quello, ottenendo così, presso un pubblico farloccone che si beve Grandi fratelli, reality d’ogni tipo e latitudine, telenovele che neanche nel quarto mondo, a colazione, pranzo e cena, altri indici d’ascolto ineguagliabili e conseguenti introiti pubblicitari)”.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2013
ISBN9788898137084
I Gattopardi e le Iene: Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi

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    Anteprima del libro

    I Gattopardi e le Iene - Claver Salizzato

    QU’EST-CE QUE LE CINéMA?

    Innanzitutto e per cominciare, appunto: che cosa è il cinema? Nel corso della sua più che centenaria ed avventurosa storia, il termine con cui si è sempre denominato tale mezzo tecnico di riproduzione della realtà in movimento, messo a punto (benché non inventato) dai fratelli Lumière nella storica proiezione parigina del 28 dicembre 1895, è sempre stato ampiamente usato (ed abusato) da studiosi, storici, semiologi, critici, autori registi e maestranze varie e, non da ultimo, spettatori, in modo così onnicomprensivo ed alquanto ambiguo (se pensiamo che con cinema si può intendere anche, nel linguaggio corrente, la sala dove vengono proiettati i film), da risultare poi, alla fine, quasi destituito di un proprio senso specifico. Se tutto può essere cinema, in fondo, niente è davvero cinema. O anche, alla Godard, il cinema non è altro che... il cinema. E con ciò torniamo al punto di partenza.

    Qualcuno lo ha raccontato come L’occhio interminabile che, incessantemente, e con modalità simili, ma ben superiori ed affatto diverse dalle arti figurative, vede, elabora e ricrea in uno spazio ideale il mondo reale (Jacques Aumont, storico del cinema e studioso dei suoi stretti rapporti con la pittura, nell’omonimo libro Marsilio editori, Venezia, 1991).

    Qualcun altro ha scritto: Creato inizialmente per riprodurre la realtà, il cinema è diventato grande ogni volta che è riuscito a superare tale realtà pur appoggiandosi su di essa, ogni volta che ha potuto rendere plausibili avvenimenti strani o esseri bizzarri, stabilendo in tal modo gli elementi di una mitologia in immagini (François Truffaut, nel suo libro Il piacere degli occhi, Marsilio, Venezia, 1988).

    Altri ancora ne hanno dato una visione prevalentemente meccanica, stabilendo che: Il cinema non è che fotografia perfezionata. Il perfezionamento consiste nel fatto che con l’aiuto di un apparecchio cinematografico si possono fotografare gli oggetti non soltanto in stato di immobilità, ma anche di movimento. Questo perfezionamento tecnico determina tutte le possibilità ulteriori del cinema (Osip Brik, ne I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano, 1979).

    Alcuni, infine, hanno dibattuto indifferentemente di cinema e film come se si trattasse dello stesso argomento e l’uno fosse sinonimo dell’altro, mentre molti hanno fatto confluire nella pratica quotidiana, lasciando unicamente ad essa di testimoniare, questo, ormai divenuto negli anni, grande segreto.

    Finché...

    André Bazin, critico, saggista, fondatore della prestigiosa rivista Cahiers du Cinéma, padre nobile della Nuovelle Vague francese, oltre che di uno dei suoi uomini e cineasti più rappresentativi (quello stesso Truffaut per il quale, abbiamo visto, il cinema istituisce gli elementi di una mitologia in immagini), e cui si deve per primo la manifestazione del quesito (che difatti fornisce il titolo all’omonima raccolta di suoi scritti, pubblicata in Italia dall’editore Garzanti di Milano nell’agosto 1973), non prova davvero a rispondere, alla vigilia degli anni ’60, che tanto muteranno la concezione ed insieme la percezione del cinema in tutto il mondo, approfondendo la riflessione sui temi dell’Ontologia dell’immagine fotografica e, successivamente, e conseguentemente, del Linguaggio. Ovvero, da una parte, del discorso sull’essere del cinema stesso, e, dall’altra, dei suoi modelli espressivi: la sua etica e la sua estetica.

    Riferendosi ad un’asserzione di André Malraux (in un pezzo sulla rivista Verve, Esquisse d’un psychologie du cinéma, del 1939) secondo cui il cinema non è che l’aspetto più evoluto del realismo plastico il cui principio è apparso verso il Rinascimento e ha trovato l’espressione limite nella pittura barocca, Bazin giunge a dire, passando attraverso il discorso sulla pittura e la fotografia quali arti tecniche per eccellenza di riproduzione della natura, che: Il mito direttore dell’invenzione del cinema è dunque il compimento di quello che domina confusamente tutte le tecniche di riproduzione meccanica della realtà che nacquero nel XIX secolo, dalla fotografia al fonografo. È quello del realismo integrale, di una ricreazione del mondo a sua immagine, un’immagine sulla quale non pesasse l’ipoteca della libertà d’interpretazione dell’artista né l’irreversibilità del tempo (op. cit.).

    In virtù di tali argomentazioni (ma anche di tante altre su cui non ci dilunghiamo ulteriormente sia per brevità, sia perché costituiscono soltanto en passant l’oggetto della nostra indagine) sulla ontologia (il discorso sull’essere) dell’immagine cinematografica, e sul suo dispiegarsi in lingua, Bazin pone le basi per dare una risposta alla questione da cui siamo partiti. Per dirci, in definitiva, che il Cinema è...

    Un sistema complesso e molteplice di segni e significati, per mezzo del quale si tramette e si duplica l’immagine in divenire di una determinata società e umanità, stabilendone, come già in Truffaut, gli elementi di una mitologia. Sistema che, nella sua prassi, diviene cinematografia - ovvero l’insieme di un’industria cinematografica nazionale - e film - ovvero un racconto narrato mediante e all’interno di un determinato sistema cinemagrafico e dei suoi mezzi e linguaggi.

    Da ciò ne consegue che fra Cinema e Film intercorre lo stesso rapporto che i semiologi fanno intercorrere fra langue e parola, ovvero fra l’insieme e la parte, il sistema e le sue individuali manifestazioni. Mentre il significato di una Cinematografia dipende tutto dalla consistenza e dallo spessore che possiede, in quel contesto, in quel momento storico, in quella situazione culturale e/o puramente esistenziale, il Cinema cui essa fa capo.

    Sarà utile, a questo punto, proprio perché ci servirà nella prosecuzione e nell’esposizione dei temi essenziali del presente saggio, chiarire e tenere bene a mente che l’affermazione di poco fa secondo la quale il cinema è il sistema e i film ne sono gli atti individuali (e personali), vuol significare soltanto che il cinema, cioè il sistema, vive nella realtà dei film, ovvero negli atti posti in essere secondo la storicità per la quale esso si determina; e che i film, cioè gli atti, a loro volta sono possibili in quanto esiste il cinema, ovvero il sistema definito nella sua storicità. Utile perché tale ragionamento porta alla conclusione, abbastanza logica, benché teorica, che non si può dare cinema senza film (e non si può dare cinematografia senza cinema, sebbene i due termini vengano spesso omologati al medesimo significato, non lo hanno, come abbiamo dimostrato), e, d’altronde, e di conseguenza, non si può dare film senza cinema. O, per meglio dire, il film senza il cinema, pur possibile, diventa soltanto una testimonianza a sé stante, la parte di un tutto mancante che non può e non potrà mai incidere se non su se stessa ed il cui lascito è destinato ad esaurirsi al proprio interno e ad essere sterilmente autoreferenziale.

    Ebbene, se Bazin dice il vero e il significato del Cinema che cercavamo è questo, con tutti i suoi corollari, come inquadrare in tutto ciò, a questo punto, la vicenda della cinematografia di casa nostra? E come leggerla e classificarla complessivamente alla luce di tale assunto?

    Bisogna dire intanto che, da questo punto di vista, nel rapporto Cinema/Film, il nostro Paese, nella sua storia filmografica, non è mai stato molto lontano da posizioni di eccellenza, anche rispetto a cinematografie industrialmente e tecnologicamente, oltre che culturalmente, più composite, ricche e stratificate, come ad esempio quella americana. Che, anzi, in molti periodi della storia del nostro cinema e fin dalle origini, spesso l’Italia è stata guardata con invidia, con cupidigia, con apprezzamento, come si guarda ad una maestria da cui imparare, da seguire con attenzione, ammirare e, possibilmente, emulare o, addirittura, contrastare sul piano della qualità.

    Valga, tanto per iniziare, il caso eclatante di Cabiria (1914), Piero Fosco alias Giovanni Pastrone alla regia (che allora si chiamava direzione artistica), ed il sommo poeta Gabriele D’Annunzio alla partitura narrativa. Il film, intanto, esce da un momento molto prolifico e, sia industrialmente, sia artisticamente e di popolarità, tra i più felici del nostro passato: c’era stato, qualche anno prima, nel 1912, il vero e proprio exploit di Quo Vadis? di Enrico Guazzoni, prodotto da una major come la Cines, che aveva portato a casa incassi da record, senza contare le incredibili vendite estere ammontanti a somme da capogiro come i 150 mila dollari negli Stati Uniti (sì, avete capito bene, proprio nella patria del cinema con la C maiuscola), le 8.000 sterline in Gran Bretagna, i 200 mila marchi in Germania, i 35 mila franchi in Belgio; ma, sotto la punta dell’iceberg, c’era un intero sistema Cinema che sbuffava e stantuffava su rotaie ben oliate a tutta velocità.

    Cabiria, prodotto dalla Itala, quindi, trae dal sistema tutta la sua forza e gliela restituisce in termini di innovazione, progresso tecnico, drammaturgico, registico e poetico. È in questo film che Pastrone utilizza per la prima volta nella storia del cinema mondiale un accorgimento tecnico e stilistico che finirà poi per farla la storia del cinema mondiale: il carrello o travelling, che permette alla macchina da presa lo spostamento nello spazio filmico e quindi la ridefizione ed una nuova dimensionalità (la ricerca della profondità di campo e della mitica terza dimensione) dello spazio filmico stesso. Un’invenzione brevettata poco tempo prima dal previdente regista, che così la racconta testualmente:

    La mia invenzione non si limitava a piazzare la macchina da presa su un carrello mobile. Questo lo aveva già fatto in studio Méliès col suo Homme à la tete de caoutchouc. Ma lui avvicinava la macchina diritto sull’attore, la cui testa pareva gonfiarsi e sgonfiarsi come un pallone. Erano movimenti che tra l’altro comportavano delicate operazioni di messa a fuoco.

    Col mio carrello questa messa a fuoco si faceva quasi automaticamente, dall’esterno, ma soprattutto, e questo era specificato nei miei brevetti, i movimenti di macchina erano impiegati a creare effetti stereoscopici (...)

    Nel 1913 potei quindi far uso del carrello per Cabiria con due scopi ben precisi: far capire agli spettatori che le mie scenografie erano vere, e non le semplici tele dipinte di Méliès o Pathé; conservare l’effetto stereoscopico ottenuto muovendo la macchina obliquamente rispetto agli attori. Riuscii così a isolare singoli personaggi nella folla, facendoli poi risaltare via via in primo piano. Ogni battere di palpebra, ogni minima contrazione del viso cominciò ad avere il suo peso: cosa che non si era ancora vista in teatro, né in pittura, né in letteratura o qualsiasi altro genere artistico.

    (in Georges Sadoul, Storia generale del cinema, Einaudi, Torino, 1967)

    Il carrello di Pastrone e del suo direttore della fotografia, nonché datore luci e curatore delle riprese con i modellini, Segundo de Chomon, sarà forse stato utilizzato agli stessi fini da qualche altro pioniere che un giorno sarà scoperto dagli storici. fa notare sempre Sadoul, avvertendo che Un brevetto non costituisce sempre una prova di priorità, ma, puntualizza, Pastrone fu tuttavia il primo ad impiegarlo in un modo che ritroviamo nella tecnica moderna, con traiettorie rettilinee o sinuose, parallele alla scenografia, in avanti o all’indietro: movimenti, questi ultimi, usati appunto per disperdere o isolare i protagonisti nella folla. (op. cit.).

    Il che combacia esattamente con ciò che dicevamo più sopra parlando, con le parole di Bazin, di Cinema come ontologia e linguaggio, come etica ed estetica ed etica che crea un’estetica. O, con le parole di Truffaut, di Cinema che stabilisce gli elementi di una mitologia in immagini. Ovvero ancora, in sintesi, di un sistema che rende possibile il film e di un film che giustifica e consolida il sistema.

    È necessario ricordare, poi, che la pellicola di Pastrone (certamente una delle vette produttive e stilistiche dell’epoca, ma non isolata e non la sola, all’interno del contesto cinematografico nazionale), nel suo fortunato ed acclamato tour di proiezioni negli Stati Uniti, vive un episodio assai curioso e quanto mai controverso: al termine di una di queste (cui, pare, fosse presente uno dei primi grandi tycoons della neonata Hollywood, destinato a scriverne indelebilmente la Storia, David Wark Griffith), al momento di stivare il materiale, ci si accorge che mancano al film due rulli (pare - è già la seconda volta che usiamo questo termine, ma il dubbio è d’obbligo in una vicenda che assomiglia più ad un gossip che ad un episodio storico - gli ultimi due, cioè proprio quelli relativi all’uso del carrello), la cui ricerca risulta del tutto infruttuosa e della cui scomparsa, o smarrimento (non è poi tanto facile smarrire due belle pizze, grosse e pesanti, di un film), che dir si voglia data la mancanza di testimonianze certe, nessuno saprà mai spiegarsi i motivi, le ragioni, il fine ultimo. Si può solo pensar male (che è certo un peccato, ma che spesso ci si azzecca) ragionando sul fatto che, proprio in quel periodo, guarda caso, il nostro Griffith stava lavorando al kolossal dei kolossal, Intolerance, che lo avrebbe messo in ginocchio, ma che avrebbe nel contempo lasciato al cinema internazionale uno dei suoi più limpidi capolavori. E che Griffith era non poco interessato alle tanto sbandierate innovazioni tecniche e poetiche introdotte dall’opera di Pastrone. Il regista americano non verrà mai trovato con la pistola fumante in mano, ma l’ombra del sospetto non scomparirà mai dalla sua fedina artistica.

    La vicenda, sebbene, ripetiamo, sia qualcosa di più vicino alla maldicenza, poi trasformatasi tra i cinéphile in una sorta di leggenda metropolitana, però la dice lunga sulla potenza del nostro cinema, del nostro modello produttivo, della nostra industria (bisogna sempre andarci molto cauti a parlar d’industria cinematografica in Italia, dato che nel nostro Paese ha sempre, piuttosto, governato l’estemporaneità artistica degli autori, o la rapacità dei faccendieri e dei mercanti, che, molto spesso, in tempi di vacche grasse, si è tuttavia rivelata un ottimo succedaneo ad un sistema industriale consolidato) e, possiamo ben dirlo con orgoglio, della nostra arte.

    E possiamo anche dire, a mo’ di parziale scusante e risarcimento storico per ciò che sarebbe avvenuto in futuro, che la nostra delle origini, la nostra del periodo muto, era una delle cinematografie più

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