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Fellini '70
Fellini '70
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E-book376 pagine4 ore

Fellini '70

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Info su questo ebook

1° volume della collana "Cinema del '900".

A cura di Massimo Moscati.

Una nuova collana che, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche. Un'arbitraria, quanto rigorosa istantanea, di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.

Molti critici hanno visto nella filmografia felliniana degli anni '70 un momento di ripensamento creativo, una stagione nuova, per certi aspetti difficile, che coincise con il risveglio in lui di incubi e angosciose presenze che sembravano essersi consumate all'ombra – o meglio alla luce – delle riflessioni psicanalitiche del decennio precedente.
Questo nuovo percorso creativo venne inaugurato da I clowns, progetto destinato alla televisione, e si chiuse con La città delle donne; nel mezzo Roma, Amarcord, il Casanova e Prova d'orchestra, il film più politico del regista.
Sei film caratterizzati da una struttura frammentaria, episodica, fatta di apparizioni enigmatiche, tormentate, talvolta mostruose, rivelazioni puntuali dell’aspetto magico della vita e che ricevevano nutrimento dall’inconscio del regista, dal suo passato e dai fantasmi di un futuro incerto.
Il celebre regista riminese, all’alba dei 50 anni, iniziò un percorso volto a riflettere sui miti del suo passato, quelli che ne avevano caratterizzato l’infanzia, contribuendo, in un certo senso, alla creazione di quell’immaginario e di quella poetica diventati riconoscibili in tutto il mondo.
Reduce dai successi del decennio d’oro del cinema italiano, dai grandi riconoscimenti, dai capolavori acclamati, Fellini sembra disorientato e incerto di fronte a un presente che sembra regalare più incognite che certezze.

LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2021
ISBN9788869347290
Fellini '70
Autore

Nicola Bassano

Nicola Bassano, storico del cinema, laureato in Conservazione dei Beni Culturali all'Università di Parma, dal 2014 lavora presso la Cineteca del Comune di Rimini dove si occupa principalmente dell’Archivio Federico Fellini. Impegnato da diversi anni nella ricerca d’archivio, collabora con musei, fondazioni e istituzioni promuovendo il cinema italiano e i suoi grandi autori, con un occhio di riguardo per il Maestro Fellini. Ha al suo attivo diverse collaborazioni con riviste di cinema e arte contemporanea. Nel 2020 un suo saggio dal titolo Fellini’s Critical Reception in Italy è stato incluso nella pubblicazione A companion to Federico Fellini, in cui il curatore Frank Burke, in occasione del centenario della nascita di Fellini, ha chiamato a raccolta tutti i migliori studiosi del Maestro riminese.

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    Fellini '70 - Nicola Bassano

    Nicola Bassano

    Fellini ‘70

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, novembre 2021

    e-Isbn 9788869347290

    È vietata la copia e la pubblicazione,

    totale o parziale, del materiale

    se non a fronte di esplicita

    autorizzazione scritta dell’editore

    e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Cinema del ‘900: Massimo Moscati

    Editing: Cesare Paris

    Foto di copertina gentilmente concessa da:

    Archivio fotografico Davide Minghini Biblioteca Gambalunga di Rimini

    Disegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    Nicola Bassano

    Storico del cinema, laureato in Conservazione dei Beni Culturali all’Università di Parma, dal 2014 lavora presso la Cineteca del Comune di Rimini dove si occupa principalmente dell’Archivio Federico Fellini.

    Impegnato da diversi anni nella ricerca d’archivio, collabora con musei, fondazioni e istituzioni promuovendo il cinema italiano e i suoi grandi autori, con un occhio di riguardo per il Maestro Fellini.

    Ha al suo attivo diverse collaborazioni con riviste di cinema e arte contemporanea.

    Nel 2020 un suo saggio dal titolo Fellini’s Critical Reception in Italy è stato incluso nella pubblicazione A companion to Federico Fellini, in cui il curatore Frank Burke, in occasione del centenario della nascita di Fellini, ha chiamato a raccolta tutti i migliori studiosi del Maestro riminese.

    Cinema del ‘900, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche.

    A cura di Massimo Moscati, una nuova collana, volutamente arbitraria, ma rigorosa istantanea di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.

    Dieci volumi per dieci autori esperti della materia e grandi conoscitori della settima arte.

    Una collana volta alla riscoperta di grandi capolavori perché il Classico, per sua natura, è sempre contemporaneo e sempre all’avanguardia.

    Un gigante sulle cui spalle possiamo salire per vedere un tratto in più di orizzonte che, altrimenti, rimarrebbe nascosto.

    I titoli della collana:

    Alberini ’00 di Riccardo Lestini

    Pastrone ’10 di Luca Mazzei

    Bertini ’20 di Letizia Cilea

    Camerini ’30 di Beppe Musicco

    Blasetti ’40 di Maria Triberti

    Totò ’50 di Massimo Moscati

    Tognazzi ’60 di Alessandro Garavaglia

    Fellini ’70 di Nicola Bassano

    Moretti ’80 di Antonio Autieri

    Verdone ’90 di Gianluca Cherubini

    Premessa

    Fellini’s Dante

    Questo saggio incentrato su un decennio complicato per Federico Fellini (e quello successivo lo sarà ancora di più) ha un ulteriore motivo di interesse perché appare nell’anno dei festeggiamenti dai 700 anni dalla morte di Dante.

    Non è un mistero che il Sommo Poeta e Federico avessero strette frequentazioni: La dolce vita (1960) è, in fondo, concepita come il percorso di un unico personaggio nel cuore di Roma attraverso una serie di eventi tra loro collegati.

    La struttura narrativa del film ricorda molto da vicino il cammino di Dante all’interno della Commedia. «In fin dei conti cosa sono i miei film, se non delle discese in Inferno con un barlume di Paradiso?»: questa l’ironica risposta dello stesso Fellini ai molti che lo avrebbero voluto impegnato in una trasposizione dantesca.

    Ma la critica va oltre accostando alla Commedia anche 8 e mezzo (1963), opere accomunate dall’identico autobiografismo e dalla rappresentazione di un mondo reale fortemente contaminato dal sogno e da innumerevoli simbologie.

    In realtà, il vero adattamento dalla Commedia doveva essere Il viaggio di G. Mastorna, pensato già nel 1965 e definito da Fellini il mio fantasmone. Qualcuno lo ha definito il film mai realizzato più famoso della storia del cinema. Il fantasma in controluce è proprio quello di Dante, prepotente l’elemento visionario.

    Il progetto si trascina per decenni, si potrebbe scrivere un libro, entrando negli anni ’80. Fellini sta affrontando la crisi del cinema italiano, attribuendolo alla concorrenza della televisione berlusconiana che diventa il suo obiettivo preferito.

    Dopo E la nave va (1982), che racconta il naufragio di un mondo artistico raffinato e decadente di fronte alla brutalità della politica, con Ginger e Fred (1985) denuncia appunto la berlusconizzazione del Paese. Ormai Fellini trova solo ostacoli per realizzare i suoi film e Intervista (1987) si rivela l’ennesima testimonianza malinconica sulla distruzione del cinema da parte della televisione.

    E così arriva il suo ultimo film, La voce della luna (1989), dove il peregrinare del personaggio un po’ folle di Roberto Benigni, il lunatico, non è alieno dal ricordare la Commedia.

    Nei cinque anni di inattività prima della morte, con in mezzo un Oscar alla carriera, ritorna il mai sopito progetto Inferno di Dante. Ne sono a conoscenza, probabilmente, solo gli addetti ai lavori.

    Si doveva trattare di un film a episodi da girare in Alta Definizione, e Fellini non era uno sprovveduto: contattò la Sony per farsi aiutare. Prodotto da Alfredo Bini, il film prevedeva un cast registico formidabile oltre a Federico: Nagisa Oshima, Peter Brook, J. J. Annaud, Wim Wenders e Francis Ford Coppola.

    Le note di presentazione del film recitano "un viaggio nella psiche umana da realizzare con un set-up di nuove tecniche cinematografiche ed effetti speciali. [La] possibilità di usare il mix degli attori, l’animazione computerizzata, ottica e chimica, e tutti gli effetti elettronici insieme, con fusioni naturalmente straordinarie e immagini innaturali di meravigliose creature meccaniche. Una fantastica versione cinematografica dell’Inferno di Dante e possiamo essere sicuri di un risultato sensazionale che sarà assicurato dalla diversa sensibilità dei famosi registi che abbiamo contattati scegliendo le parti a loro più congeniali".

    Ovviamente, non se fece niente. Ma chissà cosa sarebbe stato!

    Massimo Moscati

    Introduzione

    Tra luci e ombre: il cinema italiano negli anni ‘70

    Dopo il Sessantotto le ideologie tradizionali che fino ad allora avevano costruito, in ambito culturale, la maggior parte dei meccanismi comunicativi cominciano a mostrare i primi segni di affaticamento.

    Chi si era battuto per il cambiamento a tutti i costi della società e delle sue obsolete gerarchie sente l’esigenza di costruire un proprio spazio culturale, aperto e dinamico.

    In ambito politico e sociale, a partire dal 1970 assistiamo ad una proliferazione di conflittualità positive che daranno il via a una stagione di cambiamenti in tutti i settori della società: il referendum sul divorzio, l’introduzione dello statuto dei lavoratori, i primi accenni di decentramento amministrativo sono solo alcuni degli argomenti sul tavolo. Siamo all’apice di un periodo di riformismo e impegno che ben presto, però, comincerà a perdere la propria spinta propulsiva. L’economia del Paese ha dovuto affrontare un autunno caldo fatto di lotte sindacali, mentre la crisi energetica comincia a fare sentire i primi effetti acutizzandosi nel biennio 1973/1975 con le restrizioni dovute all’aumento improvviso del greggio. Il panorama politico, naturalmente, non si sottrae a questi complessi stravolgimenti e a questo desiderio di modernizzazione. Il prodotto di questa nuova stagione è il compromesso storico scaturito dalle riflessioni di Enrico Berlinguer e Aldo Moro.

    Questa instabilità economica e politica viene percepita dalla società con distacco e diffidenza, provocando forti reazioni al cambiamento mentre gli spazi culturali assumano un’identità e un ruolo sempre più riconoscibili. In questo panorama dall’incerto futuro irrompe con violenza l’inizio della crisi dell’industria cinematografica italiana. Il 16 aprile 1973 nasce su iniziativa del giovane imprenditore Silvio Berlusconi Tele Milano, prima tv privata italiana a trasmettere sul territorio dopo Telecapodistria e Telemontecarlo. È l’inizio della fine. Il crescente influsso della televisione sulle abitudini culturali della popolazione inizierà, ben presto, a mostrare i primi disastrosi effetti.

    Il drastico calo degli spettatori nelle sale cinematografiche non viene contrastato in alcun modo, evidenziando l’incapacità del nostro cinema di interpretare il presente rinnovando il suo linguaggio e distaccandosi dagli anni ‘60 pur mantenendone lo slancio e la capacità di interpretare la società in modo efficace e credibile. Inevitabilmente lo spettacolo cinematografico perde quella che era sempre stata la sua principale prerogativa, intrattenere le masse e interpretare i cambiamenti. I cedimenti si fanno evidenti anche in rapporto ad un pubblico sempre più giovane e gli autori faticano a individuare chiavi di lettura differenti non riuscendo a raccontare le nuove ansie e le nuove disillusioni di una generazione a loro sconosciuta.

    È pur vero che fino alla metà del decennio assistiamo ad un sostanziale prolungamento del livello qualitativo degli anni ‘60. Questa rinnovata vitalità è dovuta in larga parte agli effetti della Legge n. 1213 del 1965 che si era occupata di riordinare il settore. Nel titolo 1 disposizioni generali, presupposti e finalità della legge leggiamo:

    Lo Stato considera il cinema mezzo di espressione artistica, di formazione culturale, di comunicazione sociale e ne riconosce l’importanza economica ed industriale. Le attività di produzione, di distribuzione e di programmazione di film sono ritenute di rilevante interesse generale. Pertanto lo Stato:

    a) favorisce il consolidarsi dell’industria cinematografica nazionale nei suoi diversi settori;

    b) promuove la struttura industriale a partecipazione statale, assicurando che sia di integrazione all’industria privata ed operi secondo criteri di economicità;

    c) incoraggia ed aiuta le iniziative volte a valorizzare e diffondere il cinema nazionale con particolare riguardo ai film di notevole interesse artistico e culturale;

    d) assicura, per fini culturali ed educativi, la conservazione del patrimonio filmico nazionale e la sua diffusione in Italia ed all’estero;

    e) cura la formazione di quadri professionali e promuove studi e ricerche nel settore cinematografico(1).

    La legge, con grande lungimiranza, consente di mettere mano e riqualificare i meccanismi della produzione cinematografica, agendo in particolare sui prodotti di qualità grazie a incentivi (premi, crediti, interventi statali). Gli effetti benefici non tardano. In particolare, si rileva nell’immediato una netta ripresa del prodotto italiano rispetto alle produzioni americane, mentre la politica di contenimento dei prezzi fa da repellente rispetto alle prime avvisaglie di crisi. Assistiamo quindi a un rilancio del prodotto italiano. A partire dal 1966, inoltre vengono firmati i primi accordi con la televisione per limitare e regolamentare la concorrenza.

    All’inizio del decennio il dibattito sulla collocazione del cinema all’interno del quadro più complesso della cultura di massa diventa pressante e ricco di riflessioni interessanti. Nonostante il proliferare degli apparecchi televisivi il cinema resta ancora la forma di intrattenimento privilegiata anche se il dibattito sulla cultura e la sua fruizione, all’interno di una società in continua mutazione, diventa necessario e improcrastinabile.

    La cultura di massa per tutti gli anni ‘60 era vista come un complesso integrato sia a livello di mezzi che di pubblico che di contenuti(2). Il suo compito era quello di dare risposte all’interno di un sistema di valori politico-sociali condivisi. Persistono però, all’interno di un panorama culturale piuttosto statico, angoli di riflessione e di ricerca, capaci di declinare la tematica della contestazione in maniera tanto caotica quanto vitale. Questo tipo di meccanismo creativo era fondamentalmente generato e tenuto in vita da una precisa identità indisciplinata e anarchica, ricca di contraddizioni positive. Le idee sono ancora alla base del processo culturale e artistico anche se il Paese continua a preferire linguaggi più tradizionali e consolidati.

    L’Italia fra il 1967 e il 1971 è un immenso laboratorio di idee, di sperimentazioni, di ricerca di quell’idea di libertà e di indipendenza artistica dalle logiche del mercato manifestatasi nell’underground e in altre forme di produzione alternativa che nascono e muoiono nel categorico rifiuto della cultura borghese, la quale se ne impadronirà dimostrando innanzitutto che non vi è produzione senza mercato, che il processo di comunicazione di massa deve necessariamente passare attraverso coloro che ne possiedono i mezzi.(3)

    È un periodo, questo, in continua evoluzione, dove le utopie velleitarie del sessantotto hanno lasciato il passo a forme più esasperate di protesta ma anche improvvisi desideri di fuga. L’individuo prende lentamente il posto del collettivo (intrappolato e compromesso dalle derive inaccettabili della violenza) orientandosi, sempre più, a un neutrale rispetto dell’ideologia imperante, indirizzata verso una regolarizzazione dello status delle persone attraverso la promozione dei simboli e dei beni di consumo e schiacciata all’interno di regole precise volte a privatizzare i problemi e le conflittualità. Anche i modelli proposti, soprattutto in ambito familiare e affettivo ricercano una condivisione pressoché totale. Condivisione e identificazione diventano necessari per costruire un modello di riferimento capace di prevedere e quindi proporre i valori dominanti. Tuttavia, in Italia il cinema, pur mostrando le prime avvisaglie di cedimento e stanchezza, riesce ancora a proporre un modello alternativo, critico-interpretativo, rispetto al mezzo televisivo. La cultura cinematografica nazionale, a partire dal dopoguerra (con il Neorealismo) e in seguito (con la Commedia all’italiana) ha saputo mediare con spirito critico il rapporto fra una sempre più arrembante cultura dei consumi e le esigenze, spesso problematiche e conflittuali, che ribollivano nel tumultuoso contesto sociale italiano. Per capire, nella sua complessità e interezza, il lento progredire della crisi, bisogna analizzare il cambiamento delle modalità di fruizione della cultura di massa. Da un sistema aggregante come il cinema si passa progressivamente alla fruizione familiare della televisione. L’unicità dell’industria cinematografica italiana non sembra in grado di reggere all’irruzione violenta e totalizzante delle logiche privatistiche.

    In conclusione quindi la presenza in Italia di alcuni fattori caratterizzanti, (assenti quasi del tutto nella situazione americana): intervento pubblico, forti partiti di sinistra, tradizione sindacale e associativa degli operatori culturali (si pensi all’Ordine dei giornalisti ma anche alle Associazioni degli autori cinematografici e ai sindacati dello spettacolo) non sono serviti a costruire un disegno di politica culturale che potesse contrastare efficacemente le tendenze e le logiche privatistiche dell’industria culturale(4).

    Detto questo i biglietti venduti si assestano intorno ai 500/550 milioni e il 60% di questi è riservato a pellicole italiane. Dal 1970 al 1975 assistiamo alla realizzazione di opere di grandi autori (Antonioni, Fellini, Visconti) mentre giungono a maturazione le carriere di registi importanti (Scola, Bertolucci, Petri). Nel 1972 a Cannes assistiamo alla vittoria ex-aequo di Elio Petri con La classe operaia va in paradiso e Il Caso Mattei di Francesco Rosi. Alcuni segnali, però, racchiudono in se tracce di riflusso che spingono alcuni autori a ripiegare verso rimembranze soggettive (Fellini), storiche (Visconti), favolistiche (Pasolini). Siamo ancora in un sistema industriale abbastanza solido, che comincia a risentire dei primi colpi inferti dalle nuove forme di intrattenimento televisivo ma che sostanzialmente affronta e interpreta le nuove istanze che la società propone attraverso il film di genere.

    Gli ultimi anni ‘60 e i primi ‘70 costituiscono infatti il periodo storico in cui il cinema italiano, confidando ancora su un apparato industriale che si dissolverà di lì a poco a causa dell’avvento della Tv commerciale, riesce a fare ancora affidamento sui generi per dare vita ad un consumo "di denuncia che si configura come l’altra faccia del cinema civile dei Rosi e dei Petri(5).

    Quindi un inizio di decennio che ritrova un cinema in buona salute, con una produzione di film che nel complesso non si discosta dagli anni precedenti. Nel 1972, addirittura, assistiamo a un picco produttivo inaspettato (280 film) con un sensibile incremento rispetto al biennio 1970-1971.

    Ma chi è lo spettatore tipo in Italia nel 1972? È possibile ricavarne una descrizione analizzando i dati disponibili. Partiamo dal dato, molto interessante, dei biglietti venduti nell’anno 1972 suddiviso per regioni. Il numero di biglietti più elevato è stato venduto in Lombardia (84,2 milioni) mentre il più basso in Val D’Aosta (1,3 milioni). In Emilia-Romagna e Liguria i residenti hanno acquistato singolarmente il più elevato numero di biglietti (14) mentre in Calabria ne hanno acquistato il numero più basso (5). La spesa maggiore è in Lombardia (44,8 miliardi di lire), mentre la più bassa in Molise (386 milioni di lire).

    Continuando ad analizzare i dati sulle frequenze emergono chiaramente alcuni dati che contribuiscono a delineare il profilo del nostro spettatore tipo.

    Prima di tutto appare evidente che gli spettatori diminuiscono con l’aumentare dell’età. Inoltre in rapporto alle classi sociali notiamo che la percentuale degli spettatori è maggiore nelle classi alte mentre diminuisce progressivamente se si passa alle classi inferiori. Altro dato interessante è quello relativo alle classi d’età e al sesso degli spettatori. Prendendo il totale della popolazione maschile superiore a 15 anni il 21% risulta essere andato al cinema una o più volte in una settimana mentre prendendo a campione la popolazione femminile la percentuale corrispondente è dell’8%. Il divario si attenua leggermente tra le fasce di pubblico più giovane (15-24 anni).

    Grazie ad un panorama di questo tipo che contribuisce a mantenere alta la percentuale degli incassi registrati dalle produzioni italiane, i registi si sentono ancora in grado di rischiare scegliendo strade e direzioni spesso azzardate, rinnovando soprattutto il proprio impegno sociale, civile e politico.

    Figli di questo rinnovato clima creativo sono ad esempio Zabriskie Point e Professione Reporter di Michelangelo Antonioni, oppure Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, che sfidando apertamente la morale corrente riesce a rinvigorire la censura che da tempo non faceva sentire la sua voce.

    Il 1975 si apre con risultati tutto sommato positivi: biglietti venduti sopra i 500 milioni, molti film di qualità, qualche pellicola che diventerà cult.

    Nel 1976 le cose cambiano repentinamente; proprio quell’anno la sentenza n° 202 della Corte costituzionale stabilisce la libertà di antenna aprendo ad un mercato che comincia ad espandersi senza regole precise; questa svolta rivoluzionerà l’universo delle comunicazioni, abbattendo la domanda cinematografica e spingendo milioni di spettatori verso il piccolo schermo. A livello politico e legislativo la televisione diventa immediatamente il luogo ideale dove coltivare e sviluppare interessi e clientelismi mentre il cinema con le sue istanze di aggiornamento legislativo non può far altro che soccombere. Ad aggravare la situazione si aggiunge la crisi economica che attanaglia il Paese, e che estendendosi anche al cinema fa venire alla luce le gravi debolezze strutturali che affliggono il settore. In particolare, la mancanza di forme organizzative solide capaci di dare stabilità e continuità alla produzione. La crisi però, questa volta, sembra avere caratteristiche in grado di modificare se non stravolgere il nostro cinema. La mancanza di liquidità mette immediatamente in crisi decine di piccole imprese consentendo la formazione di gruppi monopolistici e finanziari come Fiat che si assicura il controllo della Titanus, una delle maggiori società di distribuzione, ampliando il suo raggio di influenza anche in capo produttivo stipulando un accordo con la Vides di Cristaldi. Stesso discorso per la Rizzoli capace di accrescere la sua importanza in virtù di un accordo con la Montedison allora guidata da Eugenio Cefis.

    I motivi della crisi

    Semplificando la questione è possibile individuare tre cause scatenanti della crisi che investe il cinema italiano nella seconda metà degli anni ‘70:

    1. deterioramento progressivo e inarrestabile delle strutture economico finanziarie che fino a quel momento avevano governato il settore;

    2. deterioramento delle strutture merceologiche e mediologiche;

    3. dissesto ideologico politico.

    Quest’ultimo punto, in particolare, comporta una sempre maggiore difficoltà nel leggere il presente, a una spoliticizzazione delle tematiche con un’inevitabile fuga verso la sfera privata.

    Una cinematografia come quella italiana, che fin dalle stagioni neorealistiche aveva trovato abbondante ispirazione nella realtà oggettiva e aveva fatto della propria capacità testimoniale, e del proprio impegno civile, la propria etica dell’estetica, cominciò a non saper più individuare agganci con la realtà(6).

    Questa progressiva incapacità di rappresentazione del reale in tutte le sue molteplici declinazioni comporta un marcato prevalere delle rievocazioni storiche.

    Nella difficoltà di leggere il presente, di definirne i nodi, di scegliere le alternative, di prendere insomma posizione su tutto ciò su cui il Paese era obbligatoriamente chiamato a prendere posizione, nei film cominciarono a prevalere le rievocazioni storiche, le ricostruzioni di antiche cronache, le fughe parossistiche verso il privato, le tematiche di scarso o nullo spessore, e la spoliticizzazione si trasformò in vera e propria categoria portante della conoscenza estetica(7).

    Se confrontiamo la ripartizione delle quote di mercato delle pellicole italiane nel 1975 e nel 1979 è possibile riscontrare con puntualità la gravità della crisi: si passa dal 59,3% al 37,5% mentre i film che arrivano dagli Stati Uniti subiscono un’evidente impennata dal 26,8% al 43%. A questo improvviso e inarrestabile cambiamento si somma una sensibile riduzione del numero delle sale, delle giornate di spettacoli e degli incassi al botteghino.

    Il declino è generale e incontrastato, figlio di motivazioni politiche, ideologiche e sociali.

    Una crisi che non risparmia gli altri Paesi europei ma che in molti casi viene affrontato con politiche strutturali molto più solide e proficue.

    È il caso, ad esempio, della Francia che ha cercato sin dal principio della crisi di avviare un processo di integrazione tra le reti di distribuzione e di diffusione delle pellicole cinematografiche. Il raggruppamento dei tre gruppi più grossi (Pathé, Gaumont e Parafrance) ha permesso di controllare una quota altissima della diffusione, incentivando gli investimenti a lungo termine come il rinnovo dei servizi e della programmazione. In Italia, invece, i tentativi di arrestare lo stato emorragico non sembrano dare risultati soddisfacenti e nel 1977 si registra una perdita rispetto al 1976 di circa 80 milioni di biglietti, gli incassi al botteghino diminuiscono e le giornate di spettacolo si riducono. Il dato più grave e preoccupante è che la riduzione degli incassi verificatasi nel 1977 è pagata esclusivamente dalla cinematografia nazionale mentre il prodotto americano registra un aumento del 3%. La strada intrapresa dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti non viene seguita puntando invece sul restringimento del mercato e sullo sfruttamento intensivo del prodotto attraverso le lunghe teniture, l’aumento del prezzo del biglietto, l’abbassamento del numero delle copie dei film in circolazione.

    Se gli autori tendono a vedere la ragione della crisi nell’inarrestabile declino qualitativo dei prodotti proposti, si possono individuare altre, non meno importanti, concause, come la mancanza di una legge organica sul cinema, da tempo attesa e reclamata da tutti i professionisti del settore. Produttori, esercenti e distributori puntano il dito anche sulla progressiva diminuzione della partecipazione famigliare alle proiezioni, incidendo in maniera sensibile sugli incassi. In aggiunta a tutto questo le già note congiunture economiche sfavorevoli e l’offerta televisiva sempre più competitiva e accattivante per un pubblico medio sempre più svogliato.

    Vengono così chiamati in causa la congiuntura economica ed il rincaro della vita, l’aumento del prezzo dei biglietti (che i gestori di sale, tuttavia, sostengono essere stato contenuto entro limiti ragionevoli) […], la concorrenza sempre più minacciosa delle varie reti televisive e della motorizzazione, perfino il divieto di fumare ed i rischi cui si può andare incontro ad uscire di sera nelle grandi città. Altri fattori concorrono poi a spiegare la concomitante crisi della produzione: dalla mancanza d’idee che affligge la sfera creativa all’aumento vertiginoso di tutti i costi (costo del denaro, salito ormai al 25%, e costo degli autori, degli attori, delle maestranze, dei tetri di posa), dalle insufficienze legislative al ridursi

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