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Di Male in Meglio
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E-book177 pagine2 ore

Di Male in Meglio

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Periodi avversi che viviamo con frustrazione e angoscia. Fatti ed episodi negativi che cambiano la nostra vita. Persone, anche le più care, che sembrano quello che in realtà non sono. In questo libro vengono raccontate dure vicende personali, cambiando ogni volta il punto di vista in un percorso dove la percezione di ciò che è stato e il ricordo che ne scaturisce diventano materia di dialogo con se stessi e con il lettore. L'intento è quello della condivisione con il proposito di trovare la chiave che permetta, di volta in volta, di lavorare il ricordo, modificarlo e prenderne il meglio. Vivere e lottare per superare un avvenimento infausto, come potrebbe essere una grave malattia che genera un ricordo negativo. Da qui la motivazione a tentare di riformare la natura del brutto ricordo modellandolo e plasmandolo per trarne la sua parte migliore. Questa parziale autobiografia, se così la vogliamo chiamare, vuole trasmettere, senza alcuna presunzione scientifica ma solo per mezzo degli input che scaturiscono da esperienze di vita vissuta, una sorta di metodo operativo per motivarsi a migliorare la vita anche nei momenti più difficili.
LinguaItaliano
Data di uscita25 lug 2022
ISBN9791221419221
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    Anteprima del libro

    Di Male in Meglio - Sanzio Coccia

    Dalla finestra

    La stanza era molto semplice, spaziosa e con tanta luce. L’appartamento in cui abitavamo si trovava al quinto piano del palazzo più alto tra tutti quelli vicini. Era a pianta quadrata, sul lato di base c’era la porta di entrata e l’armadio che occupava tutto il lato destro. A sinistra, subito dopo la porta, il mio letto perpendicolare a quello di mio fratello sul lato opposto. Nell’angolo, formato dai letti, tra i due cuscini, c’era un mobile prestato alla funzione di comodino, uno di quelli che contenevano una macchina per cucire Singer azionabile a pedale, appartenuto alla mia nonna materna. Il lato superiore del quadrato comprendeva una grande finestra e al di sotto un termosifone. Tra la finestra e l’armadio, a chiudere il giro, una piccola scrivania. Dalla finestra esposta a Nord si vedeva gran parte di Tivoli, la mia città che, all’epoca, negli anni sessanta, era al contempo una fiorente cittadina industriale, con le sue cartiere e cave di travertino; meta turistica con Villa d’Este e Villa Adriana, ora Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco; stazione termale, con le acque solfuree che sgorgano dai due piccoli laghi Regina e Colonnelle, apprezzate già ai tempi dei romani: Cesare Augusto ricorreva ad esse per curarsi la gotta. Io personalmente non le ho mai amate, sarà per quel forte odore di uovo sodo, ma l’effetto dell’acqua e di quella fanghiglia che si forma sulla sua superficie è un toccasana per alcune patologie dermatologiche, respiratorie, reumatiche e urinarie. Girando lo sguardo da Ovest a Est vedevo una parte di piazza Garibaldi con la facciata bianca del Convitto Nazionale, sovrastata dal campanile rossiccio della chiesa di Santa Maria Maggiore. Di fronte un palazzone marrone privo di qualsiasi forma di bellezza, opera di qualche costruttore poco lungimirante preso dalla fretta di riedificare, forse sfruttando il momento propizio dato dal Piano Marshall, una zona rasa al suolo dagli stessi americani con il bombardamento del 26 maggio del 1944. Volgendo lo sguardo oltre era visibile il tetto semi cilindrico, costruito con pannelli ondulati metallici, della sala Arena del Cinema Teatro Giuseppetti, con la sua parte superiore apribile. Era formato da due strutture scorrevoli in direzioni opposte che, all’occorrenza, venivano aperte tra il primo e secondo tempo e alla fine del film, per dar modo al fumo delle sigarette di uscire e alla cacca degli uccelli di entrare. Chiudeva la vista il vecchio palazzo della Curia Vescovile e la chiesa di Sant’Anna. A tutto questo facevano da cornice il monte Sterparo e il monte Catillo, più noto ai tiburtini come monte della Croce. Il pavimento della camera era chiaro, del tipo alla veneziana. Ricordo ancora i copriletto verde pistacchio con i rilievi a forma di rombo della stessa tinta. Sulle pareti qualche quadro e alcuni poster. Era la mia cameretta, quella di un bambino di sette anni (l’avrei lasciata all’età di sedici anni), lì vivevo tranquillo tra cowboys e indiani, soldatini e macchinine, piste elettriche e trenini, salti sui letti con capriole e lotte senza fine con mio fratello. Lì studiavo, giocavo e sognavo, vivevo come un bambino normale, con la mia famiglia accanto e tutte le mie necessità soddisfatte. Ero sicuramente un bambino fortunato. Tutto andava bene, tutto era bello e giusto per me. Era quella la mia vita ed erano quelle le cose che dovevo e volevo fare. Stavo bene, ero felice di condurre quella esistenza da bambino vicino ai miei genitori e a mio fratello. Nella culla di un bimbo si trova solo del bene. È ciò che penso quando, con la mente, ritorno a quel periodo e vedo me stesso giocare, mettendo in scena tutti quelli che erano i miei sogni, i miei eroi e quello che avrei voluto essere in quel momento. Ero stimolato dai vari racconti ascoltati da mio padre, mia madre e dai miei nonni, motivato dalle figure viste sui primi libri, L’Isola Misteriosa e un testo che raccontava la scoperta della tomba di Tutankhamon. Un bambino percepisce tutte queste cose in maniera diretta, pulita e senza malizia. Trova l’essenza buona dell’azione avventurosa, del personaggio eroico, del luogo fiabesco. Da parte sua non ci sono distorsioni, riflessioni critiche o approfondimenti empirici che ne sgretolerebbero la forma fantastica e il mito che ne scaturisce. In questo processo non c’è alcuna ricerca di morale, di secondi scopi, di profitto o di convenienza, come avverrebbe in quasi tutti i ragionamenti e metodi di riflessione di una persona adulta. Ne deriva, quindi, la formazione di immagini e riferimenti che, nella maggior parte dei casi, muovono il bambino verso sensazioni di felicità e gioia, che infondono in ognuno di noi benessere e serenità.

    Questo è quello che penso quando mi rivedo bambino nella mia cameretta, immerso nel mio mondo di giochi e di sogni. Devo dire che arrivo quasi a provare una certa sensazione di auto-invidia pensando a me stesso bambino e ancora oggi mi domando come facevo a raggiungere un simile stato di spensieratezza e serenità. Un giorno, mentre ero seduto sul pavimento, tenendo in una mano un indiano a cavallo e nell’altra un soldato nordista che difendeva il fortino, entrò mia madre.

    «Ho appena parlato con il dottore, mi ha detto che è meglio che togliamo le tonsille, così non avrai sempre la febbre e il mal di gola. Mi ha anche detto che dopo, per disinfettare, potrai mangiare tanti gelati…» Mi stava dicendo, addolcendomi la pillola, che avrei dovuto essere operato alle tonsille, dato che venivo da un periodo in cui ero stato spesso colpito da febbre e placche alla gola con conseguenti cure a base di punture di Penicillina. La ricordo come un liquido lattiginoso, messo nella siringa di vetro fatta bollire in un pentolino per tempo prima dell’arrivo dell’infermiera, la quale malcapitata spesso era costretta a rincorrermi intorno al tavolo della sala prima di potermi acciuffare e, con l’aiuto di mia madre, infierire sul mio sederino.

    Per la prima volta nella vita dovevo fare qualcosa che non avevo previsto. Una cosa di cui non sapevo nulla, che mi si parava davanti e che non dipendeva dalla mia volontà. Fino ad allora la scuola, gli amici, i giochi, i giorni passavano tranquilli godevo di belle sensazioni da cui ricevevo benessere e positività. Immaginavo che la decisione di mia madre mi avrebbe fatto vivere un periodo in cui sarei stato male, pur non sapendo bene cosa fosse il male, se non in forma di febbre, di raffreddore o di qualche lieve ferita. Insomma sentivo che sarebbe stato un qualcosa di brutto anche se avrei potuto mangiare tanti gelati.

    Mi ricoverarono all’ospedale di Tivoli. Il giorno dell’operazione, accompagnato da un infermiere, entrai in una stanza. Intimorito mi guardai attorno e ricordo che la prima cosa che vidi fu la poltrona sulla quale mi sarei dovuto sedere per essere operato. La paragonai a quella del barbiere. Poi, la mia attenzione fu tutta per un armadio bianco con le ante e i pianali interni di vetro, contenente diversi medicinali, strani strumenti e garze per fasciature. Vicino, un carrello con vari aggeggi metallici e attrezzi medici mai visti prima. Il tutto immerso in un intenso odore di disinfettante misto a non so che altro. Avevo sette anni ed era la prima volta che mi trovavo da solo a fronteggiare una situazione avversa, in cui ravvisavo una sensazione di insidia: l’impressione era come quella di stare per entrare in una gabbia da dove, poi, non sarei potuto uscire. Ricordo la paura alla quale ormai non potevo più sfuggire. Dovevo essere io a trovare il modo, nient’altro che il coraggio, per affrontare quel momento negativo. Pensavo alla mia cameretta, ai miei giocattoli, ai miei genitori e per la prima volta mi domandavo perché accadessero situazioni così brutte, ma ero costretto ad affrontarle comunque, non avendo alcuna possibilità di tirarmi indietro. Mi rendevano infelice, quando credevo che la vita fosse fatta solo di cose belle. L’infermiere, cercando inutilmente di riassicurami e di confortarmi, tra l’altro con pessimi risultati, mi costrinse a sedermi sulla poltrona. La paura si faceva sentire sempre di più. Iniziai ad agitarmi, a ribellarmi e dopo avergli assestato un bel calcione, non ricordo se sul petto o su una gamba, decise di chiamare un suo collega, in modo che mi potessero tenere fermo in due. Uno da una parte e uno dall’altra. Subito dopo mi ritrovai con un apparecchio di ferro che, azionato da uno degli infermieri, mi costringeva a tenere la bocca aperta con un’ampiezza esagerata mai raggiunta prima, quasi innaturale. A quel punto il chirurgo mi si pose davanti con in mano uno strano apparecchio, una sorta di piccola pistola a molla con una lama a ghigliottina. Non ricordo se mi spruzzò qualcosa in gola per anestetizzare la parte su cui sarebbe intervenuto, ma credo che mi abbia fatto il tutto da sveglio! Ricordo ancora il rumore della molla che scattava: tac, prima tonsilla. Poi il rumore metallico della ricarica dell’attrezzo e di nuovo tac, seconda tonsilla. Uscii da quella sala di tortura frastornato e dolorante, accompagnato da uno dei due infermieri con i quali avevo lottato. Oltre la porta, per raggiungere la stanza dove si trovava il mio letto in una grande camera con una dozzina di posti di degenza, dalla famosa corsia dei vecchi ospedali, si svoltava subito a destra per poi percorrere un lungo corridoio con un alto soffitto a volta e le pareti in tinta lucida color celeste chiaro abbinate al pavimento. In fondo al corridoio, un’ampia finestra e sulla destra, finalmente, si entrava nello stanzone con i letti. Mentre camminavo affiancato dall’infermiere cattivo, il mio sguardo era tutto per una figura umana che vedevo in controluce, appoggiata al davanzale della finestra in fondo al corridoio. Qui il ricordo diviene più vivido. Una figura femminile di cui riuscivo a vedere soltanto la sagoma scura evidenziata dal controluce. In essa non distinguevo le braccia e inoltre si muoveva, pur se appoggiata, come se tremasse. Come se avvertisse sotto i suoi piedi un piccolo movimento tellurico. Avvicinandomi sempre di più non riuscivo tuttavia a distinguerne il volto e i tratti. Poi arrivato quasi al suo cospetto, mi destai un po’ da quello stato di indolenzimento fisico accompagnato da un conseguente annebbiamento mentale e iniziai a capire. La figura davanti ai miei occhi divenne chiara e riconoscibile. Era mia madre. Stava piangendo. Un pianto che la faceva quasi saltellare su se stessa. Le braccia alte sul petto e le mani sulla bocca, nel tentativo di fermare il pianto, le coprivano parte del viso che ora riuscivo a vedere benissimo. Arrivato in prossimità, con un lento gesto di accoglienza, portò le mani dal suo volto al mio, accarezzandomi dolcemente. Così facendo mi mostrò i suoi occhi verdi pieni di lacrime. Non ricordo, ma forse era la prima volta che vedevo mia madre piangere. A quel punto l’infermiere mi lasciò e lei lo congedò. Poi, togliendomi le mani dal viso, me le poggiò sulle spalle e girandosi e girandomi sulla sua sinistra entrammo nella corsia e mi accompagnò verso il letto.

    Questo episodio è il primo della mia vita che potrei definire negativo. Fu la prima volta che ebbi a che fare con qualcosa di brutto, un evento che mi arrecava del male. La notizia, l’ospedale, l’operazione, il dolore e infine mia madre che piangeva.

    Piangeva per me, a causa di quella cosa che mi si era parata davanti, fuori dalla portata della mia volontà e ovviamente non richiesta. Sì perché ero un bambino fortunato. Di solito, quando facevo una richiesta, preceduta sempre da un grosso per favore ai miei genitori, questa si concretizzava in una cosa bella e piacevole. Questa volta non era stato così. Ciò che avevo vissuto era stata di certo una brutta avventura, una avversità che non avevo previsto, ma che comunque ero stato costretto ad affrontare.

    Conobbi l’impertinenza del male, il suo mettersi davanti alla nostra vita all’improvviso, quasi a sbarrarne il cammino, fino ad allora fluido e sereno, con un ostacolo che non era evidenziato su nessuna mappa. Il male si presenta come una figura umana grigia, possente e arcigna che ti si pone davanti con le braccia sui fianchi, le gambe divaricate, le labbra sfinate da un sorriso beffardo e lo sguardo fisso su di te. Per continuare il cammino devi liberarti di questa figura a tutti i costi e in ogni modo. Devi superare l’ostacolo, sta a te trovare il metodo e la maniera. Naturalmente all’età di sette anni alcune percezioni non riesci a individuarle né in senso pratico né nel loro senso filosofico. Non riesci a trasformare un fatto vissuto in un concetto astratto che, una volta elaborato, andrà a far parte del tuo retaggio personale di esperienze che formeranno, poi, la tua coscienza. Di quei momenti ti resta la paura, il dolore e il pianto di tua madre. Però, nell’oggettiva negatività dell’episodio preso nella sua mera manifestazione empirica, posso riscontrare dei risvolti positivi che scaturiscono in modo naturale, quasi fisiologico. Come se il fatto avverso, maligno, avesse delle falle o degli sfoghi dai quali uscisse una sua antimateria. L’evento negativo che genera una sensazione piacevole, una esperienza positiva! Tornai a casa e trovai tutti che mi aspettavano e badavano a me, tutte le loro attenzioni erano solo per me. Oltre ai miei genitori e mio fratello, c’erano i miei nonni, i miei zii. Tutti esaudivano le mie richieste in un lampo. Insomma si era creata un’atmosfera molto gradevole che portava la mia famiglia a essere ancora più famiglia. Il dolore ancora si faceva sentire, ma era addolcito e alleviato da tutto il contorno positivo che si era andato a formare intorno a me. Persino mio padre, notoriamente un uomo di poche effusioni sentimentali, mi donava attenzioni particolari e partecipava all’esaudimento, insieme a mia madre, delle varie richieste che io, a gesti e versi, riuscivo a esternare. Sì, perché durante la convalescenza non ero in grado di parlare e quindi dovevo adeguare la mia forma di comunicazione alle mie possibilità. La situazione stava avendo una sua evoluzione che io percepivo positivamente. Quindi dalla materia nuda e cruda dell’evento, pur negativo che si fosse dimostrato, fuoriusciva qualcosa di buono, di positivo. Una serie di cose, che pur costituendo quello strano periodo che mi aveva comunque procurato preoccupazione, dolore, tristezza, ora mi dava piacere, serenità e una sensazione di benessere. Stavo godendo delle attenzioni della mia famiglia e del loro più profondo affetto. Riuscivo a capire che ero molto importante per loro. Non che in precedenza non avessi ricevuto il loro amore, le loro attenzioni e le loro premure nei miei confronti, semplicemente, me ne stavo rendendo conto. Il personaggio immaginario che mi si era parato davanti con le gambe larghe, i pugni sui fianchi e lo sguardo beffardo fisso nei miei occhi che all’inizio sembrava

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