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Bologna destinazione notte: La fase Monk
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E-book291 pagine3 ore

Bologna destinazione notte: La fase Monk

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Info su questo ebook

A Borgo Panigale, sui gradini di un negozio di giocattoli, di fronte al centro commerciale, fu rinvenuto il primo piede. Così ha inizio l'odissea di Annibale Dori, originale tassista notturno appassionato di jazz. In una Bologna fredda, buia, piovosa e desolata. Terrorizzata da un maniaco che rapisce e tortura a morte le sue vittime. Fanno da cornice un'affascinante misteriosa donna e un locale infilato nello stomaco di Bologna, dove suona Al il pazzo, amico fraterno di Annibale e leggendario pianista jazz. Mentre si susseguono i rinvenimenti dei corpi mutilati, la polizia è continuamente beffata dal mostro, e le tesi degli esperti si sgretolano a ogni nuovo omicidio. L'assassino agisce sempre più in fretta, compulsivamente. E tutti oramai sanno che, se qualche fortunato indizio non imprimerà una svolta alle indagini, presto qualcuno si troverà un altro piede mutilato sotto gli occhi.

Roberto Carboni, classe 1968, è nato a Bologna e vive sulle colline di Sasso Marconi. Tassista per diciassette anni, attualmente autore e docente di scrittura creativa a tempo pieno. Nel 2015 è stato premiato con il Nettuno d’oro, il più autorevole riconoscimento a un artista bolognese. Nel 2016 con il premio speciale Fondazione Marconi Radio Days. Nel 2017 ha vinto il concorso letterario Garfagnana in Giallo, nella sezione Romanzo Classic. Nel 2018, su 47 romanzi in concorso si è aggiudicato anche il prestigioso SalerNoir Festival di Salerno. È al suo decimo romanzo edito. Con le sue storie noir, tutte ambientate a Bologna, indaga l'animo umano nei suoi abissi più scuri e corrotti. Con la Fratelli Frilli Editori ha pubblicato: “BOLOGNA DESTINAZIONE NOTTE”, “IL DENTISTA”, “L’AMMIRATORE”, “AGENZIA BONETTI” e “DALLA MORTE IN POI”.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2013
ISBN9788875639136
Bologna destinazione notte: La fase Monk

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    Anteprima del libro

    Bologna destinazione notte - Roberto Carboni

    Prologo

    1

    A Borgo Panigale, sui gradini di un negozio di giocattoli, di fronte al centro commerciale, fu rinvenuto il primo piede.

    Era stato gettato contro la vetrina durante la notte, attraverso le maglie della saracinesca abbassata.

    La negoziante cadde a terra priva di sensi, appena lo vide.

    La soccorse un giovane che passava da lì per andare al lavoro; il ragazzo notò l’arto tranciato e per poco non svenne pure lui.

    Gridò. Accorsero altre persone. Qualcuno chiamò il 113. Presto si radunò una folla di passanti e negozianti della zona. Un vigile urbano che abitava nello stesso palazzo, dopo un iniziale sbigottimento tentò di mettere ordine, ma il caos era oramai ingestibile per un uomo solo, e la folla continuava a crescere.

    La sirena di una volante lacerò l’aria coprendo mormorii ed esclamazioni. Calò il silenzio. Occhi sgranati e teste che si sporgevano tra la calca.

    Giunsero altre due auto della polizia, cinque agenti e un ispettore della mobile già al telefono col magistrato di turno.

    La gente fu spinta a debita distanza o, meglio, indietreggiò spontaneamente a contatto con l’autorità. La zona fu transennata, il traffico deviato. Nonostante il freddo, nei palazzi attigui erano tutti alle finestre. Busti immobili che sarebbero sembrati pupazzi colorati, se i loro respiri non si fossero condensati in nuvolette.

    Pochi minuti e arrivarono i primi giornalisti, quelli più solerti o che per loro fortuna si trovavano vicini, con il loro seguito di fotografi e furgoni attrezzati per la diretta.

    Un quarto d’ora più tardi, il caso era già esploso su tutti i principali canali televisivi: l’orrore aveva assunto proporzioni nazionali.

    2

    Giunse la scientifica, avvisata dal 113. Cinque uomini e una donna. Calzari, tute e guanti in lattice. I loro movimenti freddi diffondevano un senso di smarrimento nella folla circostante.

    La scena, visibilmente inquinata dalla moltitudine dei curiosi, fece imprecare i tecnici, in particolare quello basso e con una folta barba scura, che doveva essere il capo.

    Tentarono comunque di salvare il salvabile. Siccome minacciava di piovere, eseguirono subito i rilievi alterabili da un cambiamento delle condizioni atmosferiche. Imbustarono il piede. Cercarono tracce di qualsiasi tipo di campione biologico, ma era impossibile raccapezzarsi. Non era per niente una buona partenza.

    L’uomo con la barba scrutava con preoccupazione il cielo uniformemente grigio e diceva agli altri di sbrigarsi. Scuoteva spesso la testa, guardava l’ispettore e alzava le braccia in segno d’impotenza.

    Le telecamere e gli obiettivi dei fotoreporter indugiavano soprattutto sui tecnici, cercando dettagli inquietanti. Orrore, paura e degenerazione, erano questi i messaggi che si volevano lanciare. La televisione svolgeva alla perfezione il suo lavoro, e non desiderava essere rassicurante.

    3

    Gli accertamenti medico legali stabilirono che l’arto era maschile ed era stato tagliato quando la vittima era ancora viva. Con una sega dai grandi denti, del tipo usato dai falegnami. Lo definirono i minuscoli frammenti metallici imprigionati nelle ossa della caviglia, e i tessuti malamente lacerati, irrorati dal sangue. Segno che al momento dell’amputazione il cuore pulsava ancora.

    Le dita erano spezzate, le unghie strappate. Erano anche presenti ecchimosi, verosimilmente provocate da martellate o colpi con un corpo contundente. Niente impronte, solo tracce di polvere di amido di mais, a indicare che l’assassino aveva indossato guanti di lattice.

    Nei precedenti dieci giorni, Bologna era stata tappezzata di volantini. Gabriele Rivetti, studente ventottenne di buona famiglia – nella foto un volto allegro – ascolano e fuori corso, iscritto al Dams, era scomparso. Ne aveva parlato la tv, si erano formati comitati di ricerca. Appelli sui social network.

    Chissà perché, le indagini avevano subito preso una strana piega: erano stati interrogati duramente alcuni senza tetto, che vivevano nella campagna attorno al Pontelungo e in un piazzale della via Erbosa, senza però ottenere risultati. Pure l’attuale ragazza di Gabriele, anche lei studentessa del Dams, con qualche precedente per spaccio, fu spremuta. Ma d’informazioni che potessero aiutare il ritrovamento di Gabriele, nemmeno l’ombra.

    Zero indizi, tracce e sospetti. Nessun progresso.

    Passavano i giorni e le speranze si affievolivano. Secondo le notizie raccolte, verso le ventuno del 27 dicembre, Gabriele che abitava in via del Pallone, si stava recando da un compagno di facoltà in via del Piombo. Per mangiare una pizza e preparare insieme un esame, o più probabilmente farsi una canna e ascoltare musica. Era un patito dei Pink Floyd, ma solo quelli prima maniera.

    Era scomparso in quel percorso. Inghiottito nel nulla come nel triangolo delle Bermuda.

    Poi sbucò il filmato. Gabriele era stato ripreso dalla telecamera di una banca di via Alessandrini.

    4

    Gabriele, nella ripresa in bianco e nero, passeggiava tranquillo con le mani in tasca. Aveva una sigaretta tra le labbra. Qualcuno lo stava chiamando. Trasaliva, si girava e salutava il fantasma fuori campo. Gettava la sigaretta a terra e con fare allegro usciva pure lui dall’inquadratura. E spariva.

    Chiunque avesse incontrato, dal comportamento amichevole che emergeva dalle immagini, pareva conoscerlo, o almeno si fidava di lui. Gli investigatori avevano così interrogato i suoi amici e compagni di facoltà. Un lavoro di certosina pazienza, perché Gabriele era un estroverso e conosceva centinaia di persone. Il risultato di quei colloqui tuttavia si era rivelato frustrante. Nessuno di loro era il soggetto esterno dell’inquadratura, o almeno nessuno ammetteva di esserlo.

    Non era nemmeno certo che quello ripreso fosse stato il contatto con il mostro. Le indagini non riuscivano a stabilirlo con esattezza.

    Comunque, da quel momento Gabriele era sparito nel nulla. Come se chi lo aveva chiamato sapesse della telecamera, e avesse studiato a tavolino il percorso da fare, eludendo qualsiasi altro servizio di video sorveglianza.

    Un crimine del genere doveva essere per forza premeditato.

    Poi il ritrovamento del piede, che era inevitabilmente quello di Gabriele, per via di un tatuaggio con le sue iniziali, ricamate accanto a un sole splendente: G.R. Uno choc per tutti. La madre di Gabriele fu ricoverata in una clinica che si occupava di salute mentale, e sedata per lenire la crisi isterica che l’aveva colpita. Il padre, un famoso imprenditore, e la sorella maggiore, commercialista dell’azienda di famiglia, si fecero forza l’un l’altra, perché qualcuno bisognava che non crollasse.

    Dopo altri tre giorni spuntò il corpo, rinvenuto malamente sepolto, da un cercatore di funghi in un boschetto. A Paderno, sulle prime colline bolognesi.

    Gonfio, deperito, mutilato. Una fine raccapricciante. Gabriele era deceduto per l’emorragia causata dall’amputazione, ma era stato torturato per giorni prima della grazia della morte. Non era tutto, però.

    Come se non bastasse.

    L’assassino aveva amputato post-mortem una gamba al cadavere e l’aveva ridotta in quattro tronconi. Pareva avesse tentato di sbarazzarsi del corpo facendolo a pezzi. Doveva essersi accorto solo in quel momento che macellarlo completamente sarebbe stata un’impresa titanica, così aveva desistito, deviando dal piano originale.

    I pezzi della gamba giacevano accanto al resto del cadavere, gettati lì come un gioco rotto che non interessava più.

    Nessun tipo di rancore o vendetta giustificava quella ferocia, poteva essere solo l’opera di un pazzo. L’Italia intera era attonita.

    La negoziante tenne chiuso per dieci giorni. Non ce la faceva a mettere le mani sopra a quella serranda. Poi decise di trasferire l’attività dall’altra parte della città.

    Era raccapricciante, la gente veniva da fuori Bologna per vedere il luogo del ritrovamento.

    Ragazzi che sedevano sui gradini, pregavano, scattavano foto. Portavano fiori, bigliettini, pupazzetti e accendevano ceri. I clienti invece si tenevano alla larga. Solo macabri turisti o vecchi amici di Gabriele.

    Non si parlava d’altro che del negozio di giocattoli a Bologna, quello a Borgo Panigale, di fronte al centro commerciale.

    Rimase per un pezzo sulla bocca di tutti. Almeno fino a quando una badante ucraina che stava portando a passeggio il suo datore di lavoro, un radiologo in pensione colpito da ictus, trovò un altro piede. Sempre maschile, ma questa volta completamente anonimo. Sulla panchina di un nebbioso giardino pubblico. Il mattino del 5 febbraio, a Ozzano Emilia.

    Prima parte

    5

    Annibale Dori guidava con calma, come ogni notte da vent’anni a quella parte.

    Lui caricava tutti, senza distinzione, anche quelli che in gergo venivano chiamati i morti. Così l’avevano ribattezzato Caronte, gli altri tassisti della notte.

    Ubriachi, tossici, derelitti, pestati a sangue o accoltellati. Non lasciava a piedi nessuno. Pure chi si era vomitato addosso, e non era di certo un bello spettacolo da tenersi vicino.

    Seduti sul sedile posteriore, i clienti erano sfingi nella penombra, misteriose creature estratte da quel sacchetto di stoffa scura che era la notte. Imprevedibili. Criminali, capitava, ma più spesso poveri cristi o animi festaioli che ci avevano dato troppo dentro.

    Meglio seduti su un taxi, piuttosto che alla guida ubriachi o strafatti.

    Annibale attraversò il ponte di Galliera, bucò il viale e s’inoltrò nel centro.

    Sospirò. Acqua, oramai era una bestemmia quella parola, gli faceva venire l’orticaria. Pioveva e basta, senza un fiocco di neve. Da quanto? Un secolo oramai. La pioggia era incominciata la mattina del ritrovamento del primo piede, e non aveva quasi mai smesso. Lavava via i colori come fosse diluente. Facce grigie, scontrose, diffidenti. Impaurite dalla psicosi dilagante del mostro, rintanate sotto gli ombrelli.

    La tranquilla, provinciale, sorridente Bologna, era stata scossa nel suo intimo. Violentata e lasciata sanguinante, a bocca aperta. Erano cose che accadevano solo oltre oceano: quella era stata la credenza generale, fino a quel momento. Smentita dalla crudeltà dei fatti.

    Il tessuto sociale si era sfilacciato, invece che compattarsi. La paura aveva assunto un carattere individuale.

    Sopra ai tetti, un cielo color grafite che giudicava il mondo come la Santa Inquisizione. E dal cielo, pioggia, giù, senza sosta.

    In quel momento era in atto una vera tempesta. I tergicristalli lavoravano al massimo, eppure non riuscivano a liberare il vetro dall’acqua. La pioggia scrosciava e picchiava sulla carrozzeria come un battere frastornante di mille tamburi.

    Visibilità azzerata, sensi all’erta. Il vetro sembrava la lente di un occhiale dalla gradazione sbagliata.

    La centrale comunicò che in via Murri la furia aveva divelto un albero, che si era adagiato di traverso lungo la strada. I pompieri erano già stati avvertiti. Altre segnalazioni, impossibile annotarle tutte. Cornicioni a pezzi, cassonetti dell’immondizia spinti dal vento che massacravano le fiancate delle auto. Tombini e grondaie che rigurgitavano l’acqua.

    Via Indipendenza pareva il letto di un fiume. La pioggia saltava e fumava sopra il pavé come olio che frigge. Le luci dei portici erano fredde e lontanissime. Barboni tremanti stretti addosso ai loro cani, rintanati insieme sotto vecchie coperte.

    Con gli occhi che bruciavano e la mente intorpidita da quello sconvolgimento, Annibale pensò che gli serviva un altro caffè. L’ottavo della giornata, il quarto dalle diciannove, quando aveva incominciato il turno.

    Aveva anche voglia di fumare. Di bere qualcosa, ascoltare musica o fare due chiacchiere con un amico che ne capisse di jazz. Voglia di qualsiasi cosa, insomma. Qualsiasi cosa gli avesse fatto levare gli occhi dalla strada, e riposarli un po’.

    Il suo viso s’illuminò d’ocra. Riflessi sul vetro. Esplosioni luminose che le gocce aggrappate ai finestrini amplificavano.

    Superò il lampione. Nell’abitacolo tornò il buio.

    6

    L’una in punto. Il cliente seduto sul sedile posteriore. Un asiatico. cinese, coreano o giù di lì. Annibale non li sapeva distinguere gli orientali, ma sapeva che amavano le belle donne e i night club. Si facevano spennare.

    Erano stravaganti gli asiatici; difficile per gli occidentali, capirli. Avevano usanze troppo diverse. Si scambiavano macabri biglietti da visita con sopra la loro foto bordata di nero, che parevano santini funebri, e si regalavano crisantemi. Alcuni dormivano in taxi, anche se il viaggio durava solo pochi minuti. Saliti in macchina crollavano con la testa all’indietro, spalancavano la bocca e si mettevano a russare. Giunti a destinazione, era imbarazzante, andavano svegliati.

    Svoltò in via Rizzoli. Accostò in prossimità delle saracinesche abbassate del Roxy bar. Fermò il tassametro. Strizzò gli occhi prima di leggere l’importo. Gli sembrava di avere della sabbia dentro le palpebre. «Tredici euro e sessanta» disse.

    La mano sottile e quasi femminile gli passò una banconota da venti.

    Porse il resto. «Grazie e buonanotte, signore».

    Il cliente incontrò difficoltà nell’aprire lo sportello, per via del vento che ci soffiava contro e di qualche bicchierino di troppo. In macchina entrarono gelide ondate di pioggia obliqua, che infradiciarono i sedili e la nuca di Annibale.

    Nemmeno i lupi sarebbero andati in giro con un tempo così.

    Lo sportello si richiuse con un tonfo, il cliente saltò a grandi passi le pozzanghere e infilò il portico. S’impaurì quando vide che c’era un uomo, dietro una colonna. Lo sconosciuto portava un cappello da baseball con la visiera calata sulla fronte e un impermeabile chiaro dal bavero sollevato. I tratti del volto rimanevano nell’ombra ed erano indistinguibili, spuntava solo un paio di occhiali dalla pesante montatura nera.

    Istintivamente l’asiatico salutò l’uomo con un gesto del capo, cercando sollievo allo spavento, ma non ricevette risposta. La figura che aveva davanti poteva benissimo fare il paio con la statua di San Petronio alle sue spalle, tanto era immobile.

    Non era per niente rassicurante un tipo del genere, in una notte come quella, in una città nella quale qualcuno si divertiva a torturare le persone.

    L’asiatico accelerò il passo, imboccò la galleria del Leone e fu lieto di sparire.

    Annibale aveva notato l’uomo con l’impermeabile e il cappellino da baseball, ma non gli aveva dato peso. Sentì i brividi zigzagargli lungo la schiena, lo sportello aperto aveva fatto entrare aria gelida. Fregò le mani e diede su al riscaldamento.

    Ora dove poteva andare?

    Passò mentalmente in rassegna i posteggi lì intorno, mentre si asciugava la nuca col fazzoletto.

    Uno scampanellio risuonò nell’abitacolo. Il monitor del terminale collegato alla centrale radio taxi lampeggiò. Via Nazario Sauro 8, signor Solieri, il cliente ha un cane piccolo. Una corsa.

    Annibale la confermò soddisfatto. Due minuti, specificò.

    Guardò lo specchietto retrovisore, esposto alle intemperie come la polena di un veliero, poi schiacciò il pedale del gas, sterzò bruscamente e fece inversione.

    Fu un lampo.

    La frazione di un secondo.

    Una sensazione che gli fece rizzare i capelli. Frenò spingendo sul pedale con tutta la forza che aveva. In quello stesso istante urtò qualcosa. Una macchia nera ruzzolò sul cofano con un tonfo, aprendosi come un ventaglio. Compì un paio di evoluzioni fino a scivolare a terra davanti al muso del taxi, e sparì dalla sua vista.

    7

    Annibale si precipitò giù dalla macchina. Scordò perfino di sollevare il cappuccio del giaccone.

    Fuori sembrava la fine del mondo. Via Rizzoli, Strada Maggiore e via Ugo Bassi erano deserte a perdita d’occhio. Le Due Torri venivano mozzate dalla pioggia che scrosciava gelata, e il vento gridava come un esercito di fantasmi. Pareva un uragano.

    La sagoma a terra era una donna. Indossava un lungo impermeabile scuro col cappuccio sollevato sopra la testa e stivali di pelle nera dal tacco alto.

    «Come si sente signora? Si è fatta male?» gridò Annibale in mezzo al frastuono della tempesta.

    La donna rispose con voce troppo bassa e ciò che disse rimase un mistero, ma il tono fu rassicurante.

    «Aspetti, l’aiuto e poi chiamiamo un’ambulanza».

    «No, lasci stare».

    Adesso che le era accanto, udiva perfettamente le sue parole.

    «Ma signora, potrebbe...».

    «Le ho detto che non ce n’è bisogno» lo interruppe. Si stava rialzando da sola.

    Annibale tirò un sospiro: «Per poco non la ammazzavo».

    «Sto bene, non mi sono fatta niente».

    Era già in piedi.

    Poggiava una mano sul cofano dell’auto, le si era rotto il tacco di uno stivale. «Mi serviva un taxi ma non ho credito nel cellulare. Non sapevo come fare a chiamare. Poi ho visto che lei si era liberato e mi sono precipitata per fermarla» spiegò, ma sembrava assente. Preoccupata per qualcos’altro. Come se con la testa si trovasse lontanissimo da lì.

    «È sicura di stare bene?».

    La donna non gli rispose. Si girò e salì sul taxi.

    «Aspetti signora, no...» ancora una volta Annibale non riuscì a completare la frase, la sconosciuta era già a bordo e aveva chiuso lo sportello.

    Rimase interdetto, sotto la pioggia. Aveva confermato una corsa. I due minuti di tempo che aveva dato erano passati da un pezzo. Il

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