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El Urracaõ: Lo chiamavano paradiso
El Urracaõ: Lo chiamavano paradiso
El Urracaõ: Lo chiamavano paradiso
E-book598 pagine9 ore

El Urracaõ: Lo chiamavano paradiso

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Info su questo ebook

Jorge, il protagonista di questa storia, nasce in una poverissima favela di Rio ed è costretto a usare mille espedienti per sopravvivere. Ma è un bambino sveglio e un giorno, grazie all’incontro con un’astuta gazza ladra, trova un vero tesoro. Jorge però non si accontenta, fa carriera nel narcotraffico e in pochi anni diventa un temuto trafficante internazionale, conosciuto dalla gente e dalla polizia come El Urracaõ. Ma i gruppi rivali lo vogliono morto e Jorge trova rifugio in Svizzera. A Locarno fa affari nel mondo dei night club e della prostituzione, trova l’amore, per la bellissima Sharon, e si lascia sedurre dalla ricchezza di un Paradiso dorato e suadente, dove si intrecciano le trame di banchieri avidi, finanzieri spregiudicati, nuovi e vecchi boss della mafia che gli offrono un affare lucroso e facile, come un gioco da ragazzi, un gioco ingannevole in cui tutti i protagonisti sembrano però perseguire un oscuro obiettivo personale.

Con questo romanzo Arson Cole ci trascina in una trama vertiginosa che è anche un lungo viaggio alla ricerca di un paradiso personale sempre sognato eppure dolorosamente difficile da trovare.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2021
ISBN9791220832410
El Urracaõ: Lo chiamavano paradiso

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    Anteprima del libro

    El Urracaõ - Arson Cole

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    per Ale…

    mi manchi

    figlio mio…

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    El Urracaõ

    Lo chiamavano paradiso

    1                Il nascondiglio del diavolo

    Davanti al Bar Sport, Jorge si gode una birra fresca nella tranquillità solenne del sabato mattina.

    Ormai la crisi economica non risparmia nessuno, neanche i locali più gettonati, eppure questo bar decrepito sta ancora in piedi. Sono già passati tre anni da quando ha messo piede per la prima volta nel cosiddetto Paradiso. Arrivato direttamente dalla favela dove è nato, Lemos de Brito, periferia di Rio, con in tasca gli ultimi soldi che gli erano rimasti. I soldi che aveva nascosto in una scatola di sigari sotto l’albero della gazza ladra, nel nascondiglio del diavolo.

    Oltre cinquantamila real. Un patrimonio.

    Eppure, in questo paese minuscolo chiuso nel cuore dell’Europa, Jorge era soltanto un povero. Perché questo è un paradiso solo per chi ha i soldi, il potere e i contatti giusti.

    Così non aveva potuto fare altro che prendere la solita via, quella del crimine. Ma grazie al suo talento era riuscito subito a introdursi in certi traffici e ormai conosce tutti i diversi gruppi del suo ramo, clienti di ogni genere e naturalmente gli sbirri e i loro segreti. I politici, i funzionari e perfino i giudici non rifiutano mai una busta piena di soldi per chiudere un occhio.

    A lui non interessa se quelli che fanno affari con lui sono ricchi, potenti, pericolosi o gente comune, a lui interessa guadagnarci. Chi ha soldi in mano è il benvenuto, è un suo cliente.

    Da un suo amico nella polizia è venuto a sapere che anche qui lo hanno soprannominato El Urracaõ, il grande ladro volante, o più semplicemente Urra. Se ne frega di essere stato messo sotto sorveglianza stretta, al contrario, lo fa sentire ancora più orgoglioso.

    Il suo amico si chiama Gregor Rossi ed è il capo della polizia della città. Di giorno fa il suo lavoro, è molto rispettato dalla gente, di notte è uno dei suoi tanti clienti. Uno degli scheletri, come li chiama lui, che vivono una vita segreta nell’oscurità della fossa Locarnese. Jorge conosce bene i loro giochi sporchi e loro ormai non possono più toccarlo, perché se lui salta, salta mezzo paese.

    Sopravvivere nelle favelas di Rio lo ha reso un vero uomo. Gli anni passati nel giro della droga lo hanno preparato per essere un capo. Gli sbirri, qui, sono solo bambolotti, palloni gonfiati. I bambini delle favelas sono più svegli di tutti gli sbirri del Paradiso. In tanti, dai sei anni in su, perdono ogni paura facendo i corrieri degli spacciatori. Anche Jorge era uno di loro. A otto anni sapeva già tutto di quel labirinto di vicoli stretti e strade pericolose e senza nome. Si ricorda ancora gli odori che venivano dal fango usato per costruire le case. La puzza acida esalata nel caldo dalle discariche. Ma anche i profumi del cibo che tante cuoche, con l’abilità di vere artiste, riuscivano a preparare dal niente per sfamare i loro figli. Perché nelle favelas nascono in tanti e altrettanti ne muoiono, in fretta, per fare posto ai prossimi. Ricorda l’odore di detersivi mischiati a feci e urina, che correvano in tubi o canaletti improvvisati per poi raccogliersi nei buchi intorno alle case costruite più in basso. Scarichi di ogni tipo formavano rivoli in mezzo alle piccole vie.

    I poveri nelle favelas non hanno diritto a una vita lunga ma la loro vita ha un prezzo. Il loro breve viaggio termina nelle fosse che riempiono i cimiteri sulle colline. Fosse scavate e usate più volte, spesso senza lapide e nemmeno un crocifisso. Solo il vento che viene dal mare, forte e salato, fischia richiamando i nomi di quei morti.

    A Lemos de Brito la gente è povera ma ride spesso. Anche se in miseria, approfitta di ogni occasione per festeggiare, ballare e dare vita alle chitarre e ai tamburini che si trovano quasi in ogni casa. Gustano quel poco di dolce che rimane nell’amaro del loro destino. Chi ha un lavoro si sente contento e si sforza ogni giorno di non cadere nelle trappole che lì sono nascoste ovunque. I più fortunati trovano un posto nella città, fanno i domestici nei quartieri benestanti della classe media o ricca che se li può permettere. Oppure lavorano come muratore, carpentiere, vetraio, sarto o fanno ogni genere di lavoro manuale. Altri fabbricano attrezzi o roba che serve per costruire case e baracche. Montagne di mattoni, fatti col fango, aspettano di diventare i muri di nuove case, insieme a montagne di oggetti in metallo, vetro e altri materiali, estratti dalle discariche che accerchiano la città. Ma in tanti si danno alla malavita. Spacciano droga e armi, producono alcolici forti, spesso velenosi. Nelle favelas si trova di tutto, anche la criminalità del peggior tipo, mercenari pronti a uccidere per pochi real. Perché qui la criminalità è un cancro maligno e si propaga rigoglioso.

    Jorge è nato nella zona peggiore della favela, nell’unica stanza della casa di sua nonna, morta da tempo per colpa dell’Aids. Il padre non lo ha conosciuto, sua madre non ha mai pronunciato nemmeno il suo nome. Come tante donne rimaste sole, vendeva il suo corpo per guadagnare un po’ di soldi. Quel tanto che bastava per non morire tutti di fame.

    Jorge era più sveglio dei suoi coetanei e lei lo mandava per la strada a rubare qualche real dove poteva. Lui trovava trucchi sempre nuovi per i suoi furti e gironzolava spesso nella Piazza dell’artigiano, che con le sue costruzioni in stile portoghese attirava molti turisti facili da derubare. E proprio lì, un giorno, aveva fatto uno strano incontro, con un uccello che non aveva mai visto prima. Tutto nero ma col ventre bianco, chiazze bianche sui fianchi e sulle ali e una lunghissima coda. Era una gazza ladra, come poi gli disse il barbiere che aveva il negozio in quella piazza. Quell’uccello volava basso e passò proprio davanti a Jorge prima di andare posarsi sul tetto di una vecchia casa affacciata sulla piazza. Il bambino lo guardava incuriosito. Sembrava che puntasse un gruppo di turisti, proprio come lui. Fissava una donna dai capelli biondi in fondo al gruppo. Orecchini preziosi dondolavano brillanti nel sole. Jorge li osservava preparandosi a derubarla. Ma anche l’uccello li teneva d’occhio. La bionda non si accorgeva dei tanti occhi miserabili e affamati che la guardavano, anche dall’alto. Adesso era il momento giusto. Jorge si avvicinò velocemente alle sue spalle, ma proprio mentre allungava la mano per afferrare uno degli orecchini, quell’uccello bastardo si tuffò dal tetto reclamando il suo bottino con un grido. Jorge si fermò di colpo, spaventato da quel verso inaspettato. Anche la donna si era bloccata. Poi successe tutto in fretta. L’uccello mirò preciso l’orecchino di destra e lo strappò dolorosamente dal lobo, senza interrompere il suo volo. Nessuno sembrava averlo notato. Tranne il barbiere, che proprio in quel momento stava fumando una sigaretta davanti al suo negozio. I turisti invece videro solo Jorge con il braccio ancora alzato e quella donna che gridava e si teneva l’orecchio sanguinante. Jorge fissava la gazza che volava via. Era tutto chiaro per i turisti, che accerchiavano quel bambino con i capelli sporchi, i vestiti strappati, gli occhi scuri e furbi. La donna sembrava impazzita e voleva afferrarlo, gridava Ladro, bastardo, fermatelo! Jorge invece la guardava con innocenza, paralizzato dal pericolo. Poi sentì la voce del barbiere che urlava: Piccolo, scappa!

    Allora si girò di scatto e corse in una delle tante stradine che sbucavano sulla piazza. La stessa dove aveva visto infilarsi la gazza con il suo bottino nel becco. La vedeva ancora, là in alto, ma adesso doveva pensare soltanto a nascondersi. Si guardò indietro, sentiva i turisti che continuavano a urlare: Fermatelo, fermate quel bastardo, fermatelo!. Poi perse di vista quell’uccello più furbo di lui.

    Il barbiere, fermo sulla porta del suo negozio, fumava e si godeva lo spettacolo.

    Il giorno dopo Jorge rubò due radio e alcuni oggetti brillanti, perle in vetro ed esche per la pesca. Il barbiere gli aveva spiegato che quell’uccello, la gazza ladra, è chiamato così proprio perché ha l’abitudine di rubare le cose che luccicano. E così lui decise che la voleva fregare. Il suo amico Raffaele, d’accordo con lui, si era seduto a un tavolo sulla Piazza dell’artigiano, sparpagliando davanti a sé tutte quelle cose rubate. Come se sentisse un richiamo, la gazza ritornò e si posò comodamente sul tetto della stessa casa. Aveva già addocchiato cosa poteva rubare oggi. Fissava quelle biglie di vetro e le esche. Jorge immaginava che i riflessi della luce sulla superficie di quegli oggetti fossero molto attraenti per lei. Jorge fece segno all’amico di spostarsi, lasciando il tavolo libero per incoraggiare la gazza ad avvicinarsi. Intanto si teneva pronto a correrle dietro. Quell’uccello era furbo, ma Jorge ancora di più. La gazza, come previsto, si lanciò sul tavolo come un kamikaze. Afferrò al volo una delle biglie e scappò subito, nella stessa direzione della prima volta. Jorge la vedeva volare tra i tetti delle case e riuscì a rincorrerla per un po’. Poi la perse. Ma nel giro di pochi minuti il ladro volante ritornò. Jorge lo sapeva che un bottino così ricco l’avrebbe attirato. Questa volta la gazza prese un’esca e Jorge provò di nuovo a inseguirla, ma fu subito bloccato da una macchina ferma in mezzo alla strada e di nuovo la perse di vista. Cinque minuti dopo la gazza era già di ritorno. Ma questa volta, quasi prima che riuscisse a rubare due esche dal tavolo, Jorge le stava già correndo dietro, più veloce che poteva. Adesso la vedeva benissimo e non se la sarebbe fatta sfuggire. Corse a lungo, sudando nell’aria calda, sotto un sole senza pietà, e alla fine la vide infilarsi in mezzo a quello che sembrava una specie di bosco.

    Jorge conosceva quel posto, lo chiamavano il nascondiglio del diavolo. Una piccola isola verde al centro della favela Moro do Fubá, un territorio strappato alla foresta negli ultimi anni che si era velocemente riempito di case abusive e baracche. Il nascondiglio era un groviglio di alberi e cespugli che sembrano impenetrabili, non si vedeva neanche un passaggio per infilarsi tra le piante.

    Per via di certe strane credenze, nessuno aveva toccato quel brandello di foresta. Gli abitanti delle case lì intorno, infatti, erano spaventati da alcuni strani fatti che erano accaduti, tanto da convincersi che lì dentro vivesse il diavolo in persona. Più di una volta, era capitato che amuleti e crocifissi, messi alle finestre di vecchi e malati per proteggerli degli spiriti maligni, scomparissero misteriosamente. Poi magari, per puro caso, quei poveracci erano morti la notte seguente, e così la gente aveva iniziato a ricordarsi di aver notato un uccello nero che volava dentro e fuori da quella boscaglia. Lo avevano visto vicino alle case degli ammalati proprio prima che sparissero gli amuleti. Non sapevano che si trattava semplicemente di una gazza ladra, che durante il periodo dell’accoppiamento era irresistibilmente attratta da quegli oggetti illuminati dal sole. Di sicuro, però, le sue piume nere scatenarono la loro superstizione. Così iniziarono a dire che doveva trattarsi del diavolo che, durante il giorno, prendeva le sembianze di quell’uccello per volare a cercarsi una vittima a cui venire a rubare l’anima nella notte. In poco tempo l’isola verde diventò così il nascondiglio del diavolo. In molti portavano vecchi e ammalati in altri sobborghi lontani, al sicuro a casa di famigliari o amici. E chi non poteva andarsene si proteggeva come riusciva, magari semplicemente fissando con un chiodo gli amuleti e i crocifissi sui davanzali delle finestre.

    Jorge non ha mai creduto alle superstizioni, sa che sono solo favole create dalla gente semplice. Lui non crede al diavolo e nemmeno agli angeli, crede solo in se stesso. Non crede neanche in dio e ha sempre cercato di tenersi lontano dalla chiesa e dalle sue teorie. Fin da piccolo ha visto troppe cose che non andavano, bambini poveri e sfruttati, a volte violentati da preti che invece, nella favela, la gente chiamava angeli.

    Aveva solo cinque anni quando perse per sempre la capacità di credere in qualsiasi religione. Sua madre voleva mandarlo ad aiutare Armando, il fratello maggiore di Raffaele, che la domenica mattina andava a preparare la chiesa per la messa. I due fratelli, cresciuti insieme con Jorge, erano i figli di un’amica di sua madre e vivevano in una casa vicina alla loro. Jorge non voleva andare in chiesa, perché preferiva passare la giornata con suoi amici. Anche la mamma di Armando insisteva, spinta dalle richieste del prete. Era molto religiosa e ci teneva a fare qualunque cosa per la chiesa. Ma Jorge continuava a rifiutarsi, anche se per questo le prendeva dalla madre e dal patrigno. Lui però resisteva e diceva che no, non ci voleva andare, perché sapeva che quel prete faceva strane cose al suo amico Armando, nella camera dietro la sacrestia, e lui aveva paura. Ma sua madre non poteva crederci. Cosa ne sapeva? Come gli venivano in mente certe cose? Non si vergognava a parlare così di un angelo come Don João Levãdõs? E gli dava altre botte per punirlo di queste bugie oscene, ordinandogli di chiudere la bocca. Secondo lei si inventava queste storie solo perché era uno sfaticato e voleva passare il tempo con suoi amici ladri.

    Ma non erano bugie, era stato Armando a fargli capire cosa succedeva in chiesa la domenica mattina. Più volte aveva accennato alle strane richieste del prete, alla stanza dove lo portava, senza però trovare la forza di dirgli altro. Arrossiva, abbassava lo sguardo e quasi soffocava per la vergogna. E lui lo sapeva che era vero.

    Armando non era forte come lui. Aveva un cuore buono, non diceva mai di no. Continuava a andare in quella chiesa a prepararla per la cerimonia del giorno di festa. Ma Jorge si era accorto che il suo amico, prima sempre allegro e pronto a raccontare qualche barzelletta divertente, era diventato sempre più silenzioso e triste. Aveva perso il suo sorriso e non parlava quasi più con Jorge, che lo vedeva dimagrire e spegnersi di giorno in giorno.

    Due mesi dopo, quando Armando aveva da poco compiuto sette anni, successe la tragedia. Raccontarono che quel giorno il bambino era andato al solito appuntamento della domenica, la mattina presto, come voleva il prete. Ma questa volta aveva portato con sé l’arma del padre, una pistola di grosso calibro. Perché suo padre era uno spacciatore molto conosciuto, uno con tante anime sul suo conto. Aveva l’arma in uno zaino, dove la madre metteva sempre qualcosa di buono da portare al prete. Entrato per l’ultima volta nella camera dietro la sacrestia, mentre Don Levãdõs si sedeva come sempre nella poltrona, Armando mise la mano che tremava nello zaino e tirò fuori la pistola. Forse si fissarono in silenzio, per qualche lunghissimo istante.

    Cinque colpi esplosero nel corpo del prete. Il primo in testa, poi uno in ogni mano, poi uno nel cuore. Forse Armando aveva fissato quel volto ormai irriconoscibile prima di sparargli l’ultimo colpo, dritto in mezzo ai coglioni.

    Subito dopo il bambino si infilò l’arma in bocca e la puntò in alto. Lo aveva visto fare a suo padre per costringere un cliente a pagare un debito. Si sparò l’ultima pallottola rimasta nel cervello, facendolo esplodere come una nuvola. Lo trovarono accasciato ai piedi del prete, in un lago di sangue. Il suo viso non c’era più.

    La gente, sconvolta, diceva che quel povero sacerdote, quell’angelo, era stato massacrato da un bambino del diavolo. Il modo in cui lo aveva ammazzato, come crocifisso da quelle cinque pallottole, era un chiaro segno della diabolica pazzia del bambino, dicevano. Don Levãdõs era stato fatto sedere sulla poltrona, senza l’abito cerimoniale e, cosa ancora più spaventosa, con i pantaloni a terra, nudo dalla vita in giù. Doveva essere una cerimonia blasfema pensata da quel bambino pazzo per coprire di vergogna il sacerdote. Quando lo avevano trovato, Armando stringeva ancora la pistola nella mano. Forse, aveva pensato Jorge, voleva sentirsi protetto anche dove si trovava ora.

    Un crimine del genere doveva essere opera del diavolo, che aveva agito per mezzo di quel piccolo mostro. L’ingenuità del popolo che crede al maligno troverà sempre un peccatore da incolpare. Questa volta un bambino innocente, che la gente descriveva come un indemoniato. Chiedevano addirittura alla madre di pagare i funerali del prete. Solo una cerimonia sontuosa poteva rimediare ai peccati di suo figlio e ripulire dalla vergogna la memoria di quel santo uomo.

    Dalla morte di Armando Jorge non ha più creduto in nessuna religione o dio. Si fidava solo del suo gruppo di amici, che tante volte lo avevano salvato dalla morte, dal carcere o da falsi angeli come quel prete. Oggi si fida solo di chi conosce da una vita e gli ha dimostrato con i fatti di essere leale come il suo amico scomparso. L’unica volta che Jorge aveva dato una mano in chiesa ad Armando, ricorda, gli ordinò di non andare nella stanza dietro la sacrestia, per nessun motivo, minacciando anche di picchiarlo se lo avesse fatto. Era l’unico modo che aveva per proteggerlo.

    Alla fine la madre del bambino aveva pagato per salvare l’anima del figlio dalla condanna della gente. Girava voce che avesse sborsato una grossa somma. Adesso poteva partecipare alla funzione, così come il suo bravo marito. Naturalmente il funerale del prete si svolse nella chiesa in cui Armando si era tolto la vita. Tra i fedeli che la riempivano ce n’erano tanti che compravano la droga dal padre del bambino. Nel suo lungo e commovente sermone, il nuovo sacerdote non aveva usato parole di perdono, anzi, aveva detto che Armando e la sua famiglia erano condannati dalla stessa pazzia. Così nessuno comprò più la droga dal padre, perché temevano di essere contagiati dal male.

    Presto anche la madre di Armando morì. Secondo le voci, l’aveva uccisa il marito, strangolandola. Non era chiaro se per il pizzo che aveva pagato alla chiesa o perché le dava la colpa di tutto, della disgrazia causata dal figlio e della rovina che aveva portato ai suoi affari. La donna, comunque, ebbe la sepoltura gratuita.

    Jorge lasciò quei ricordi nel passato, tornando alla realtà. Doveva riuscire a entrare in quella specie di giungla, nel nascondiglio del diavolo, e trovare la gazza ladra.

    Si infilò a fatica tra le piante, strappando foglie e rami cercando di scavarsi un sentiero. Sentiva che i cespugli gli graffiano le braccia e le gambe, ma inoltrandosi la vegetazione si faceva meno fitta e lui poteva camminare più facilmente. Intanto continuava a guardare in alto, in cerca della gazza. L’aveva vista saltare sui rami e poi raggiungere un albero che adesso si trovava proprio davanti a lui, al centro di un’apertura illuminata dal sole. Sembrava molto più vecchio degli altri, aveva un tronco altissimo e robusto. Jorge vide l’uccello che arrivava con qualcosa nel becco e si infilava in una spaccatura nel tronco. Poi sgusciò di nuovo fuori e volò via. Così lui si arrampicò e raggiunse facilmente lo squarcio aperto nella corteccia. Si tirò su con le braccia, a un paio di metri da terra, e riuscì a guardare all’interno del tronco.

    Quello che vide gli fece lanciare un grido. L’uccello aveva accumulato un vero e proprio tesoro lì dentro, in quello che doveva essere il suo nido. Un bottino davvero impressionante, una montagna di oggetti che a prima vista sembravano d’oro e di argento. Prese in mano un anello grosso, pesante e davvero incredibile. Doveva essere di platino o oro bianco e aveva tanti diamanti messi a forma di cuore. Era di sicuro il regalo di un ladro o di uno spacciatore a qualche amante. E poi collane e orecchini preziosi, tra i quali gli sembrò di riconosce anche quello rubato il giorno prima alla turista bionda. Ma nel nido c’erano anche amuleti e piccoli crocifissi di metallo luccicante, oggetti di vetro, le biglie che lui aveva usato come esca e pezzi di altri materiali senza valore. Jorge tirò fuori manciate di quegli oggetti, lasciandoli cadere a terra. Mentre li afferrava, si rese conto che alcuni gioielli erano finti, di plastica dorata, ma non importava. Una volta sceso dall’albero si tolse la maglietta sudata e ci buttò dentro tutto quel tesoro, anche le cose senza nessun valore.

    Separati gli oggetti preziosi dagli altri, Jorge andò a rivenderli al mercato nero. Gli fruttarono cinquemila real. Una vera fortuna per bambino di otto anni. Certo, avevano cercato di fregarlo sul valore della merce, ma questo lo aveva già messo in conto. Quei soldi, comunque, gli sarebbero bastati a lungo. Perché lui non era uno che andava a ubriacarsi o a fare festa con gli amici, non si drogava con gel di colla o altri vapori chimici, crac o cocaina, come facevano in tanti. Queste cose non gli interessavano. Lui invece sognava di diventare abbastanza ricco da comprarsi una di quelle case bianche dei quartieri dei ricchi, vicino al mare.

    Con i soldi fatti, per prima cosa, andò da sua madre e le diede mille real. Ma si pentì subito di averlo fatto. La trovò sdraiata sul letto insieme a un uomo, sembravano ubriachi o sotto l’effetto di qualche droga. Lei prese i soldi senza dire niente, li contò e poi, invece di ringraziarlo, gridò che la stava imbrogliando, che di sicuro le nascondeva chissà quanti altri soldi. Lo conosceva bene suo figlio, strillava. Allora l’uomo con lei, un cosiddetto zio, uno di quelli che la pagavano per stare in sua compagnia, si alzò dal letto e si immischiò subito nella faccenda. Aveva le spalle larghe, puzzava d’alcol e sudore, sembrava fuori di sé. Prese a schiaffi Jorge, doveva dirgli dove aveva nascosto gli altri soldi. Jorge giurò che non ce n’erano altri, disse che li aveva trovati in una borsa lasciata al tavolo di un ristorante. Lo zio, dopo averlo picchiato sotto gli occhi annoiati della madre, le prese i mille real dalle mani con la scusa volerli mettere al sicuro, poi spinse Jorge a terra e scappò in strada. Di sicuro andava a ubriacarsi o in cerca di uno spacciatore. La madre allora riprese a gridare, impazzita per aver perso i mille real: Chissà quanti soldi nascondi alla tua povera madre! Ladro, bastardo!.

    Jorge la guardò senza nemmeno ascoltare i suoi insulti, quasi non la sentiva. Intanto fece un patto con se stesso, o forse con il diavolo, e giurò che da quel momento non avrebbe mai più pensato agli altri, non si sarebbe più fatto guidare dai sentimenti, perché gli creavano solo problemi e lo rendevano debole. Così, con la bocca che sanguinava per le botte prese, se ne andò per sempre da quella casa, senza sapere che quella è l’ultima volta che vedeva sua madre.

    Si incontrò con Raffaele in una casa abbandonata vicino ai ruderi di una chiesa. Anche lui era abituato a scappare di casa e spesso lo avevano fatto insieme, lui Armando e Jorge, quando i loro padri o patrigni, ubriachi, li picchiavano senza un motivo, gridandogli che erano degli inutili bastardi affamati. Raffaele e Armando erano i soli a sapere tutto di Jorge. Ma adesso Raffaele era l’unico rimasto a preoccuparsi per lui e lo aiutava sempre. Lo fece anche questa volta, portandogli da mangiare e qualcosa per coprirsi, così quella notte poteva dormire lì.

    La mattina dopo, disse che gli aveva trovato un posto dove stare per qualche giorno. Un suo amico, il barbiere, lo poteva ospitare a casa sua. Lo faceva sempre volentieri per aiutare i bambini costretti a vivere per la strada. Jorge accettò, sapeva che si poteva fidare di Raffaele.

    Era quel barbiere che aveva incoraggiato Jorge a scappare via dopo il furto alla turista. Viveva sopra il suo negozio nella Piazza dell’artigiano e si chiamava Rodriguez Ferreira, per gli amici Rod. Un omone con una gran barba scura. Jorge lo aveva visto tante volte ed erano diventati un po’ amici, ma non gli aveva mai parlato tanto perché gli metteva soggezione. In realtà, anche se aveva una voce profonda che faceva tremare l’aria, Rodriguez era un uomo buono a cui piaceva farsi grandi risate e dire battute maligne sui suoi clienti. Era nato in Spagna e si era trasferito in Brasile tanti anni prima, per amore, diceva, senza mai aggiungere altro. Sembrava davvero amico di tutti nella comunità, forse grazie alla sua simpatia e discrezione. Sapeva dire chi era una brava persona e chi un criminale o uno spacciatore, chi aveva molte amanti e chi soffriva per amore, chi era pieno di debiti e chi un assassino... Perché mentre lui tagliava i capelli o la barba agli uomini, quelli parlavano, anche troppo, magari solo per darsi delle arie... Ma tutti quei segreti, ci teneva a chiarirlo, lui non li aveva mai rivelati a nessuno. Si dice il peccato, non il peccatore.

    Raffaele lo conosceva bene, perché anche suo padre frequentava quel negozio e lo aveva sempre portato con sé. Così gli aveva chiesto di aiutare Jorge. Sapeva che l’amico, altrimenti, non avrebbe mai chiesto aiuto a nessuno.

    E in quella casa, per la prima volta, Jorge si sentì al sicuro insieme a un adulto che lo trattava bene e non chiedeva niente in cambio. Sua madre non era mai stata buona e affettuosa con lui, voleva solo che andasse in giro tutto il giorno a rubare, e se non tornava con un po’ di soldi lo picchiava. Oppure lo faceva picchiare da uno dei tanti zii ubriaconi o drogati che si portava a casa...

    Una sera, mentre chiacchierava con Rod e Raffaele, Jorge disse che gli era venuta una grande idea.

    Che idea? chiese Raffaele incuriosito.

    Ho pensato che potremmo farci aiutare alla gazza.

    A fare cosa? chiese il barbiere.

    A rubare.

    E come facciamo? disse Raffaele.

    Potremmo addestrarla rispose Jorge risoluto.

    Addestrarla?... disse Raffaele, che forse non sapeva che cosa significasse quella parola.

    Sì, possiamo insegnarle a rubare ai turisti qui in piazza. Così lo farà lei al nostro posto.

    Adesso l’amico aveva capito e sembrava tutto eccitato a quell’idea.

    Lei non dà nell’occhio e soprattutto può volare via velocemente, senza farsi prendere da nessuno! spiegò Jorge.

    Raffaele lo fissava a bocca aperta.

    Il barbiere invece restava in silenzio con gli occhi abbassati sul tavolo. Poi disse:

    Questa non mi sembra una buona idea… E lo disse seriamente, con una voce preoccupata, come se volesse spegnere subito l’entusiasmo di Jorge.

    No, piccolo, questa idea non è buona… Alzò gli occhi, fissò quelli scuri e sorpresi di Jorge, si godette un attimo il momento di silenzio e subito dopo aggiunse: Questa idea è semplicemente grandiosa! Poi scoppiò in una risata potente, battendo entrambe le mani sulle spalle di Jorge.

    Il giorno seguente i due amici andarono in una discarica, dove Jorge trovò quello proprio che gli serviva: un vecchio manichino, uno di quelli che si usano nei negozi di vestiti. Raffaele lo aiutò ad appenderci biglie di vetro, pezzi di metallo e gioielli finti che avevano trovato nel nido della gazza. Poi lo sistemarono nella cucina di Rod, vicino alla finestra, in modo che la gazza potesse vederlo. E così, il giorno dopo, la gazza iniziò a volare sempre più vicino a quel manichino luccicante come un albero di Natale. Prima si appoggiò alla ringhiera del balcone, poi fece qualche salto sul pavimento. Jorge e Raffaele la guardavano nascosti in un angolo della stanza, senza fiatare. La gazza prese sempre più confidenza e i giorni seguenti entrò dalla finestra, iniziò a saltare sul manichino e a staccare i gioielli uno a uno.

    Per addestrarla meglio, Jorge vestì il manichino con alcuni vecchi vestiti del barbiere e infilò gli oggetti nelle tasche, in modo che si vedessero solo un po’. La gazza doveva imparare a sfilarli velocemente e volare via.

    Andarono avanti così per molti giorni. Bastava aprire la finestra e la gazza arrivava a prendere qualcosa dal manichino. Pochi secondi, un battito d’ali ed era già lontana. Ma Jorge non si accontentava. Si mise addosso i vestiti del manichino e rimase immobile, in attesa. Quando l’uccello gli si posava addosso lui si muoveva di colpo e lo faceva scappare. Ma quegli oggetti luccicanti erano troppo attraenti per la gazza, doveva averli. E piano piano imparò a sfilarli quasi senza farsi sentire.

    L’addestramento durò un paio di settimane, poi Jorge disse che era il momento di mettere alla prova il ladro volante. Fece sparire tutte le esche e quando la gazza tornò sembrava meravigliata non trovando più niente vicino alla finestra. Rimase un po’ sulla ringhiera del balcone, poi iniziò a perlustrare la piazza e la gente che la affollava. Jorge e Raffaele la tenevano d’occhio, ammirati dalla velocità con cui si lanciava sulle sue prede. Certo non era facile come derubare un manichino di plastica, ma la gazza aveva imparato a farlo in fretta e con tocco leggero. E soprattutto Jorge le aveva insegnato a rubare anche monete e banconote.

    Per quasi due mesi il sistema funzionò alla grande. La gazza riusciva a mettere a segno almeno un paio di colpi ogni giorno. Il bottino diventava sempre più ricco e Jorge aveva trovato un posto perfetto per tenerlo al sicuro. Proprio sotto il nido della gazza, infatti, nascosto tra le radici dell’albero, c’era un buco profondo, forse la tana di qualche animale. Era abbastanza grande per contenere una scatola di sigari, dentro la quale Jorge chiudeva i soldi rubati dalla gazza e quelli che faceva rivendendo i gioielli. Nessuno poteva immaginare che nel nascondiglio del diavolo ci fosse un tesoro del genere.

    Tutti quei furti allertarono la polizia, che presto fece vari tentativi per abbattere quell'uccello che dava fastidio ai turisti . Ma poi bastò pagare agli agenti quello che chiedevano, mille real al mese, e la lasciarono in pace.

    Improvvisamente, però, la gazza non si fece più vedere. Jorge temeva che l’avessero uccisa, aspettò qualche giorno e poi, non sapendo dove cercarla, andò al suo nido. Scoprì così che il ladro volante aveva trovato una compagna e si preparava a creare una famiglia. Da quel momento, per mesi, non si fece più vedere e così, non avendo più entrate, consumarono gran parte dei soldi accumulati.

    Poi, un giorno, la gazza fece finalmente ritorno nella piazza. Ma presto tornarono anche i poliziotti e iniziarono a tenere d’occhio i suoi movimenti. E un pomeriggio – così raccontò il barbiere – presero un fucile dalla macchina e la abbatterono al primo colpo. C’erano state molte lamentele dei turisti, dissero. Ma Jorge sapeva che non era vero. L'avevano ammazzata solo perché lui non poteva più pagare il pizzo sempre più alto deciso dal capo dei poliziotti, un certo Rodolfo, un tipo senza scrupoli che prendeva soldi anche dagli spacciatori.

    Fu davvero un brutto colpo per tutti. I due amici si erano ormai affezionati a quell’animale così intelligente. Ma anche il barbiere la prese male. Durante le pause del lavoro gli piaceva sedersi davanti al suo negozio, con un panino o un caffè, a osservare lo spettacolo della gazza ladra. Era ammirato dalla bravura del piccolo Jorge, che da solo era riuscito a insegnarle come rubare ai turisti.

    Fu lui a dargli quel soprannome che porta ancora oggi, El Urracaõ, o più semplicemente Urra. Infatti a Rodriguez piaceva raccontare storielle ai clienti e iniziò spesso a ripetere quella del piccolo Urra e della gazza. La raccontò per tanto tempo e i clienti, che pensavano fosse una specie di fiaba, gli chiedevano cosa significasse quello strano nome, Urra. Il barbiere allora spiegava che veniva dalla parola spagnola Urraca, cioè gazza ladra, adeguata in portoghese, mentre El in spagnolo significava il grande e veniva usato per i personaggi importanti. El Urracaõ quindi significava più o meno Il grande ladro volante e voleva indicare l’astuzia di quel bambino, paragonabile solo a quella della gazza.

    Jorge era ricercato e rimanere in quella casa era un rischio, e poi non voleva approfittare dell’aiuto di Rodriguez mettendolo per di più in una posizione scomoda. Così fece come i tanti bambini delle favelas che vengono abbandonati dalle loro famiglie. Dormiva dove capitava, a volte per strada, quando era più fortunato in qualche casa abbandonata. Continuava a rubare ai turisti, se si presentava l’occasione giusta, ma doveva stare sempre molto attento, perché alla polizia non era bastato uccidere la gazza e lo teneva d’occhio più di prima.

    Le entrate dei furti ai turisti non bastavano per pagare il pizzo sulla sua testa. Così, per fare più soldi, lui e Raffaele decisero di entrare nel giro della droga. Diventarono due dei tantissimi niños che l’organizzazione ingaggia come corriere d’ogni tipo. Perché i bambini sono svegli, agili e bravi a nascondersi nei labirinti delle favelas, sono perfetti per quel lavoro.

    Così Jorge risolveva anche il problema della taglia sulla sua testa, perché ormai veniva automaticamente protetto dall’organizzazione, che pagava un pizzo per ogni suo membro.

    Jorge capì in fretta che con la droga si guadagnava meglio che con i furti, e iniziò a studiare gli spacciatori per capire quali erano i vari livelli di carriera in quel mestiere.

    I ragazzi più grandi di lui, dai dieci fino ai tredici anni, li chiamavano semplicemente uomini. Li usavano come scudo per proteggere il gruppo e come spacciatori. Erano loro i primi a morire in caso di scontri con gli altri gruppi, sempre in lotta per controllare lo spaccio nelle favelas. Poi c’erano quelli dai quattordici anni in su, chiamati zio, che si occupavano di tutto quello che doveva essere fatto nell’organizzazione. Sopravvivere oltre i venti anni in quel giro era un vero miracolo e ci riuscivano solo i più forti e crudeli, che poi diventavano i capi dei vari gruppi. Questi venivano chiamati padrini, come nei film sui mafiosi.

    Jorge era sveglio e anche in quegli affari mostrò subito di saperci fare. Diventò un niño molto rispettato dai compagni. Ma questo non gli bastava. Si stancò presto di fare il corriere, voleva salire di livello, voleva diventare uno spacciatore e puntava ancora più in alto.

    Ormai conosceva tutti gli uomini del gruppo che controllava il suo quartiere. Uno di loro, uno spacciatore ciccione detto Pelita, sembra davvero poco intelligente e teneva per sé molta polvere. Così, Jorge iniziò a rubare una piccola quantità di coca dal pacco che gli portava ogni settimana. Quell’idiota non controllava mai il peso, si fidava ciecamente. Per diverse settimane il trucco funzionò senza problemi e Jorge riusciva a rivendere la droga sottratta in un’altra favela. Ma un giorno, proprio mentre stava prendendo la solita quantità di polvere, il pacco gli cadde a terra. Lo raccolse subito ma il vento forte di quel giorno, in pochi secondi, ne soffiò via quasi un terzo. Jorge fu preso dal panico. Poi pensò che poteva sostituire la polvere sparita con della farina bianca. Non sapeva ancora con quale roba tagliavano la cocaina. Così Jorge segnò la fine del fornitore e insieme quella dello spacciatore.

    Pelita infatti si accorse dell’imbroglio e si presentò a casa del fornitore, detto il Marcio. Aveva la pistola in mano, era fatto di coca e voleva fargliela pagare. Non aveva pensato che poteva essere stato qualcun altro, un niño come Jorge, a fregarlo.

    Appena Pelita vide il Marcio gli sparò tre colpi, ma l’altro, prima di cadere, ebbe il tempo per fare fuoco e colpirlo alla testa.

    Il giorno dopo Jorge trovò i loro corpi stesi nell’ingresso della casa. Era andato a prendere i pacchi da consegnare ai vari spacciatori.

    Non ci pensò due volte e chiese a Raffaele di aiutarlo a far sparire i cadaveri. Quella notte li caricarono, uno per volta, in una carriola, coprendoli di terra, rami ed erbacce, e li portarono nel nascondiglio del diavolo, che fortunatamente era molto vicino alla casa. Scavarono una piccola fossa e ce li rovesciarono dentro.

    Jorge e Raffaele si installarono nella casa del Marcio, fingendo di essere i suoi aiutanti. Avevano trovato i soldi del fornitore in un nascondiglio della casa. Una montagna di soldi. Con quelli potevano pagare la prima fornitura di droga, pensava Jorge. Con i guadagni ottenuti dallo spaccio della coca avrebbero pagato le forniture future, e così via. Jorge era ancora giovane ma ragionava come un adulto, e aveva le idee chiare. Voleva diventare il nuovo fornitore del quartiere.

    All’inizio temeva che qualcuno dell’organizzazione avrebbe chiesto del Marcio. Ma nessuno era mai venuto a cercarlo. A quelli importava solo che la coca venisse smerciata e le percentuali dovute ai capi arrivassero regolarmente.

    Tutto filava liscio e gli affari crescevano in fretta, perché Jorge aveva aumentato il numero degli spacciatori assoldando il suo gruppo di amici.

    Poi pensò di coinvolgere anche l’agente Rodolfo, il capo dei poliziotti all’epoca della gazza ladra. Lo pagò per assicurarsi libertà di movimento e protezione in quel piccolo territorio e per eliminare il fastidio degli spacciatori rivali, che i poliziotti arrestavano uno per uno. Naturalmente il pizzo era adeguato al favore.

    E così il territorio che riusciva a controllare si ingrandiva sempre più.

    Iniziò anche a prendere contatti con i fornitori più grandi. Erano legati a gruppi molto pericolosi, ma finché ricevevano pagamenti regolari se ne stavano buoni, o quasi.

    Urra andò avanti così per alcuni anni, facendo soldi in modo tutto sommato tranquillo. Il suo giro d’affari cresceva e così il suo potere, che ogni anno diventava più grande.

    Anche le armi iniziarono ad avere un ruolo sempre più importante nella sua vita. Imparò a usarle con aiuto dell’agente Rodolfo, che lo portava a sparare lontano dalla favela, tra le fosse di un cimitero abbandonato. Jorge si dimostrò bravo anche con la pistola, tanto che riusciva a sparare con precisione usando entrambe le mani.

    Raffaele era il suo braccio destro, sempre accanto a lui. Si fidavano l’uno dell’altro come fratelli. Ma un giorno, poco prima che l’amico compisse sedici anni, il destino decise di separarli per sempre. Raffaele fu ucciso dal gruppo che controllava il quartiere Villa dos Mineiros, vicino alla zona ovest di Rio. Anche Jorge era nel loro mirino, perché ovviamente il suo successo dava fastidio a molti. Avvelenato dalla collera per la perdita del suo unico amico rimasto e sentendosi per la prima volta solo e in pericolo, Jorge si chiuse in casa per qualche giorno, cercando un modo per vendicarsi. Pensò di proporre una pace finta al capo dei Dos Mineiros, che tutti chiamavano Minos. Si era infatti ricordato della storia del cavallo di Troia, che il barbiere Rodriguez gli aveva raccontato anni prima. Decise così di sottoscrivere quel patto di pace regalando a Minos dodici bottiglie di un pregiato bourbon di contrabbando. Uno dei suoi ragazzi, che teneva sotto controllo la casa del padrino con un binocolo, lo avvisò via radio al momento giusto. Così, Jorge e due dei suoi entrarono nella casa mentre il capo, i suoi scagnozzi e le guardie del corpo erano completamente ubriachi. Li ammazzarono tutti senza pietà. Jorge sparò a Minos in mezzo agli occhi. Lo doveva al suo amico Raffaele. Così anche quel quartiere finì sotto il suo controllo.

    Jorge ormai era conosciuto da tutti come El Urracaõ. Con il tempo il suo potere si era allargato a tutte le zone vicine, alle favelas Joaquim Martins, Clovis Daudt, dos Mineiros, Orlando Leite, Antonina, Barao e fino alla favela Fubá. In tutte quelle comunità, da sud a nord, da est a ovest, fu proclamato il regno di Urracaõ.

    Ben presto, però, la calma finì. Arrivarono gli squadroni della morte. Lo stavano cercando perché aveva preso sotto il suo controllo anche la favela Praca Orlando Bonfim Junior, che si trovava all’estremo ovest. Questo non era un territorio come gli altri e per un semplice motivo, perché comprendeva uno dei pochi porti strategici di Rio. Quello da cui entrava tutta la polvere bianca destinata alla città. Una mossa azzardata da parte di Jorge, che per riuscire nell’impresa aveva dovuto affrontare una vera e propria battaglia in cui erano morti molti dei suoi ragazzi. Ma alla fine aveva vinto e poteva controllare un punto nevralgico dello spaccio a ovest di Rio. Non doveva più trattare con nessun intermediario. Era lui a vendere la materia prima ai capi delle favelas confinanti con le sue. Ma la battaglia combattuta era solo l’inizio della guerra, perché aveva tolto quel regno a gente molto più pericolosa e spietata di lui, gente che non scherzava affatto.

    Il giovane Urracaõ si era fatto troppi nemici e rischiava di perdere completamente il controllo delle sue favelas. La gente diceva che di sicuro non sarebbe vissuto ancora a lungo. E questa idea si diffuse veloce come una superstizione tra gli abitanti delle varie comunità, che ormai lo consideravano un benefattore, una specie di santo. Perché Urracaõ spendeva tanto della sua fortuna per aiutarli. Con i suoi soldi aveva fatto sistemare scuole che cadevano a pezzi, ma aveva anche costruito impianti idraulici e elettrici e risolto molti dei guai provocati dalle acque di scarico. In cambio aveva ottenuto il sostegno della popolazione, che faceva scudo intorno a lui per proteggerlo.

    Lo scopo profondo di questi suoi gesti era legato a sentimenti nascosti che non faceva mai vedere a nessuno. Perché mostrare i propri sentimenti, per lui, significava apparire debole. Tanti anni prima si era ripromesso di non farlo mai più e finora aveva sempre rispettato questo patto segreto con se stesso.

    I capi che nessuno vedeva, chiusi nelle loro colossali ville bianche affacciate sul mare, quelle ville sognate da Jorge fin da quando era un bambino, avevano firmato un patto per eliminarlo.

    All’inizio Jorge non aveva capito a chi stava realmente rubando il territorio del porto. Ma scoprì presto che aveva messo le mani negli affari dei criminali più pericolosi. Quelli senza nome, insospettabili, che si vestivano con eleganti abiti italiani e governavano i loro traffici da lussuosi uffici nel centro della città. Non si sporcavano mai le mani, pagavano killer mercenari, sempre in cerca di ingaggi lucrativi. Gli squadroni della morte.

    I pifferai che suonano la musica magica dei soldi facili, attirano ogni genere di persone in cerca di un futuro migliore. Quella musica arrivava fino a orecchie lontane dalle sue favelas e faceva dell’Urracaõ uno degli uomini più ricercati dai mercenari brasiliani. Diecimila real, questa era la taglia che pendeva sulla sua testa. Niente male per un capo di appena ventidue anni.

    Jorge riuscì a evitare gli attentati organizzati da quei killer scrupolosi solo grazie alla sua furbizia. Sopravvivere così a lungo sembrava una magia per la gente delle favelas, una capacità quasi miracolosa, tanto che in molti iniziarono addirittura a chiamarlo El Sant’Urracaõ.

    Riuscì a sopportare altri due anni di questa vita, ma quasi ogni giorno, ormai, qualche suo ragazzo veniva ammazzato in pieno giorno nelle favelas più lontane, e queste perdite creavano falle pericolose nella rete di sicurezza che lo circondava.

    Il gruppo che aveva concluso quel patto per eliminarlo aveva moltissimi più uomini di lui, oltre a montagne di armi e di denaro. Il loro piano sembrava funzionare. Ormai stavano per prenderlo.

    Dopo l’ennesimo agguato in cui morirono in quattro, rinchiuso nella sua roccaforte, Urra decise di scappare. Avrebbe lasciato tutto nelle mani del suo nuovo braccio destro, senza però svelare le sue vere intenzioni.

    Il suo tesoro segreto, quello che aveva sotterrato in una vecchia scatola di sigari nel nascondiglio del diavolo, ammontava a cinquantamila real. Quei soldi simboleggiavano la sua salvezza, la possibilità di farsi una nuova vita.

    Fin da piccolo sognava di fare i soldi e vivere un giorno in una villa al mare. Crescendo, però, aumentava sempre più la sua voglia di andarsene per sempre via da Rio, lontano delle favelas. Ascoltava le storie del barbiere Rodriguez. Ogni tanto raccontava di un posto che lui chiamava paradiso. Un luogo dove il denaro scorreva in abbondanza, dove tutto era pulito ed elegante, tutto meravigliosamente ordinato e sicuro. Un posto dove non esisteva il pericolo delle squadre della morte. Il vero nome di questo paradiso non lo conosceva ancora, all’epoca, ma adesso sì, ed era lì che voleva andare. Tutto era organizzato. Un passaporto nuovo di zecca, un biglietto aereo e un visto valido per un mese.

    Raggiunse l’aeroporto di notte, in segreto, scortato dalle moto dei suoi uomini. Il viaggio andò liscio. Durante il tragitto fissò a lungo la destinazione scritta sul biglietto aereo che stringeva in mano.

    Lesse quel nome, Svizzera, riversandoci sopra così tante speranze da sentirsi euforico.

    2                Il Paradiso delle bare a due anime

    Un paese minuscolo la Svizzera. Lui non avrebbe saputo nemmeno indicarla sulla mappa del mondo. Uscito dell’aeroporto di Zurigo Kloten, rimase subito impressionato dall’ordine che vedeva ovunque guardandosi intorno. Durante il volo aveva letto tutta la guida turistica per informarsi sulla cultura e l’economia di quel posto. Lo incuriosivano soprattutto le banche e il rigoroso segreto bancario di cui gli avevano parlato. Quel paese era pieno di banche di ogni tipo. E assicurazioni, un’altra cosa sconosciuta per lui. Gli sembravano qualcosa di inutile. Eppure, secondo la guida, alcune erano addirittura obbligatorie. Ma doveva esserci un errore, pensava. E poi un’organizzazione quasi maniacale di ogni aspetto della vita. Sembrava proprio vero tutto quello che raccontava il suo amico barbiere. Quel paese, così pieno di soldi, attraeva Jorge come una luce accesa attira un insetto in una notte completamente buia.

    Le differenze culturali lo spaventavano un po’. Lì si parlavano diverse lingue, ma questo, invece di creare problemi, sembrava spingere gli svizzeri a sentirsi ancora più uniti. Questo

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