Chiocciole e rapimenti
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Da qui la necessità di riportare il vissuto e le esperienze personali alla luce, non solo per conservarne memoria, ma soprattutto per coglierne il valore educativo. Infatti se un’esperienza non viene raccontata si disperde e restano nell’oblio anche i saperi che essa produce. Grazie al suo potere demiurgico il metodo narrativo rappresenta lo strumento privilegiato per costruire significati. Attraverso la narrazione l’esperienza viene ricostruita, modellata e riempita di senso e tale lavoro diviene un esercizio meta-riflessivo in grado di promuovere educazione e apprendimento sia per chi narra sia per chi ascolta. Ogni vissuto cela un significato che chi lo narra ha il dovere di far emergere e chi lo ascolta ha il diritto di accogliere.
Rolando Guerriero tratteggia in quattro racconti, con garbo e un pizzico di ironia, gli anni in cui la televisione era un elettrodomestico a disposizione di pochi privilegiati, per mantenere i contatti con amici e familiari occorreva riempirsi le tasche di gettoni telefonici o monete equivalenti, andare all’estero era un’avventura.
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Anteprima del libro
Chiocciole e rapimenti - Rolando Guerriero
bruna.
Chiocciole e champagne
Se faccio un bel terno, Ada, offro a tutti ostriche e champagne!
Era questa la promessa che Ivo ripeteva frequentemente incuriosendo in particolare il piccolo Filippo.
"Cosa sono le ottriche? Sono buone?"
Sono una specialità francese. Sono come delle grosse chiocciole di mare: difficili ad aprirsi, ma dentro sono squisite. Si mandano giù con un po’ di succo di limone. Le mangiano solo i grandi signori.
Filippo, quattro anni, non sembrava molto convinto, però insisteva a chiedere: "E cosa è lo ciampagne?"
"È un vino prelibato, frizzante: fa pizzicare il naso. Lo bevono in pochi perché costa caro. Quando apri la bottiglia fa plop." E qui Ivo si metteva un dito in bocca e faceva vibrare la guancia in un suono simile a quello di una piccola esplosione.
Filippo era affascinato da Ivo, per la sua vivacità, allegria, per il suo strano modo di parlare, in cui l’accento toscano era piacevolmente mescolato a quel rotolare buffo della erre tipico dei francesi e a quella u tagliente come un rasoio.
Ivo era amato e coccolato da tutti. Non era molto alto, ma di taglia atletica e muscolosa. Il volto abbronzato era illuminato da un sorriso incantevole e da due occhi verdi splendenti. Portava capelli lunghi, lisci, per lo più contenuti o da una reticella quasi invisibile che gli pendeva da un lato o da un archetto flessibile di acciaio brunito. Qualche volta, quando temeva di sporcarsi la capigliatura, si calcava in capo un fez nero, morbido che gli ricadeva di lato. Era un amico, o forse un lontano parente del padre di Filippo, e anche lui veniva da quella città lontana che si chiamava Marsiglia. Ma il punto di forza di Ivo erano le mani, lunghe e sottili, sempre ben curate, nonostante il suo lavoro. Con esse faceva giochi di prestigio con le carte ed era capace di costruire sotto gli occhi incantati di Pippo da una pagina di giornale, corone, castelli, file di soldati o di ballerine. Per il piccolo aveva messo insieme un cappello di carta di giornale più bello di quello che aveva fatto per Nando, il ragazzo grasso che lo accompagnava nelle consegne dei carichi