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L'anno in cui diventammo papere
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L'anno in cui diventammo papere
E-book140 pagine2 ore

L'anno in cui diventammo papere

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Info su questo ebook

Antonio Gennari è un docente che vive in una cittadina del Nord dove insegna Lettere. Per la sua indole altruistica è soprannominato il Samaritano, da cui Sam, nomignolo con il quale viene riconosciuto da alunni e colleghi.

Con lo scoppio della pandemia, Sam vede vacillare le certezze e le illusioni maturate negli anni passati; in particolare, la prigionia dei tre lunghi mesi di lockdown lo portano a rivedere i rapporti con gli altri e a rievocare fatti che tornano a farlo riflettere e soffrire.

Alla fine del lockdown, il bilancio dei cambiamenti generati dagli eventi di un anno cruciale nella storia collettiva lo porterà a compiere una scelta cruciale.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2022
ISBN9791221425284
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    Anteprima del libro

    L'anno in cui diventammo papere - Pietro Fischietti

    UNO

    NIENTE FOTO, PLEASE!

    «Proof! Proof! Possiamo mangiare?»

    Antonio Gennari, alle prese con l’elenco dei nominativi dei presenti da flaggare e contestualmente (avverbio che amava usare sempre nei verbali del Consiglio d’istituto che gli toccava redigere, poiché per l’ennesima volta gli avevano appioppato la carica di Segretario) con la conta delle teste che sporgevano dai sedili senza stare fermi un solo dannato attimo, si arrese. È universalmente noto che un uomo non sa fare due cose insieme, figurarsi tre: per cui, aggiungendosi quella prevedibile domanda alle altre occupazioni in cui era affaccendato, decise di mollare l’elenco firmato dalla Dirigenza e altresì timbrato dall’Ufficio competente e, data un’occhiata al conducente, in quel momento distratto dalla sua collega che stava estirpando una serie di informazioni al malcapitato, assentì silenziosamente, dando il via ai bagordi.

    Prevedibile domanda, quella, davvero. Quando una o più classi si ritrovano su un pullman che li porta in gita, ancorché tale si potesse chiamare quell’uscita didattica di poche ore in una località dell’entroterra lombardo ricca di arte e di storia ma dispersa come una ghost town nel deserto americano, ecco che scatta, immantinente, la merenda fatta di ogni ben di dio, almeno dal punto di vista degli studenti.

    Anche questa volta, infatti, gli alunni non lo delusero: tirarono fuori dai capienti zaini le sempiterne patatine al formaggio, o presunto tale, con cui unsero per bene prima le dita e poi qualsiasi cosa nel raggio di alcuni metri; srotolarono gomitoli di liquirizia con la quale si annerirono denti e lingua, nemmeno avessero masticato oppio; infine, sterminarono un numero spropositato di orsetti di vario colore, innaffiando il tutto con bibite gasate le quali generarono qua e là portentosi rutti che qualcuno cercò, invano, di spacciare per semplici borborigmi.

    Il professor Gennari attese il momento giusto e poi, magicamente, estrasse da una tasca del suo giubbonero (non si era mai abituato a quel termine, ma tant’è, lì al Nord si usava accorciare tante parole e perciò bisognava adeguarsi...) un consistente pacchetto di caramelle che chiuse degnamente quell’orgia di zuccheri e che fu accolto da un’ovazione degli studenti e dallo sguardo sospettoso e corrucciato del conducente nello specchietto retrovisore.

    Gennari era fatto così. Ogni occasione era buona per offrire gratuitamente qualcosa agli altri o per rendersi utile, come dimostravano le incalcolabili ore in più passate a scuola con l’obiettivo di svolgere dignitosamente le svariate funzioni che gli erano state assegnate, alcune obtorto colodata la totale noncuranza di buona parte dei colleghi verso mansioni e obblighi burocratici che venivano recepiti unicamente come una totale perdita di tempo a discapito della didattica. Era vero, ma intanto lui e pochi altri erano oberati come bestie da soma su sentieri di montagna; e oltretutto, qualsiasi evento o progetto che poteva arricchire l’offerta formativa dell’istituto veniva dirottato sulla sua e-mail, tant’è che egli, ironicamente, si era attribuito la Funzione Strumentale alla Frazione Organica.

    Questo suo essere così presenzialista, poi, lo aveva reso sospetto agli occhi di alcuni, che lo additavano come il cocco della Dirigenza o più sottilmente come un leccaculo desideroso di far carriera, anche se nessuno mai aveva osato dirglielo in faccia, sia mai che tornasse utile ritrovarselo a fianco vista la sua presunta posizione di vicinanza ai poteri forti della scuola. I più, però, ossia i nuovi docenti che arrivavano anno dopo anno, ingranaggi di quell’immarcescibile meccanismo che era il precariato, molti dei quali alla prima esperienza d’insegnamento nonché di trasferimento nelle lande padane dalle assolate spiagge meridionali, mostravano di fidarsi di lui, e questo gli bastava.

    Questo, e il fatto che anche gli alunni, in generale, gli volevano bene e lo consideravano uno di loro, senza tuttavia trascendere dai rispettivi ruoli.

    Fu, quindi, inevitabile il coro dei Grazie, prof, Ah, se non ci fosse lei!, Ma lei è un amore!, durante la spartizione delle caramelle che Gennari accolse al solito con un sorriso schivo prima di volgersi alla collega che lo stava chiamando.

    «Sam, ma hai sentito che cosa dicono alla radio?»

    Sam era lui, proprio lui, Antonio Gennari. Altrimenti conosciuto come il Samaritano. Per brevità Sam, così com’è scritto, non pronunciato all’inglese. E il motivo del suo soprannome era dovuto non solo a quanto già detto sul suo modo di fare, ma ai mille episodi nei quali si era comportato come il buon uomo del Vangelo che, pur essendo uno straniero e per giunta ritenuto nemico, aveva soccorso l’ebreo spogliato e percosso dai predoni, il quale invece era stato schifato dal sacerdote e dal levita suoi connazionali.

    Sam c’era sempre. C’era lui quando il padre di una ragazza araba quindicenne aveva cercato di picchiarla nell’atrio della scuola perché aveva preso voti bassi, e questo era motivo di vergogna, in quanto lei presto sarebbe andata sposa a un tizio sui trent’anni e dunque doveva essere perfetta da studentessa come lo sarebbe poi stata da moglie! Il pugno indirizzato alla ragazza aveva preso Sam in pieno viso, ma lui, seppure sanguinasse da una narice, aveva continuato a parlare con l’uomo fino a quando questi non si era calmato; e dopo, avevano pattuito che lui non lo avrebbe denunciato per quel pugno se l’altro avesse promesso di permettere alla figlia di diplomarsi, prima dell’ineluttabile matrimonio combinato.

    O quell’altra volta, quando durante l’intervallo un primino si era rotto il braccio dopo essere scivolato su una lattina che insieme ad altri compagni stava usando come rimpiazzo del pallone, ed egli era salito sull’ambulanza per accompagnarlo in ospedale, rimanendo ore in attesa prima che si facesse vivo uno dei genitori, nonostante non spettasse certo a lui farlo ma al collega a cui era affidata la sorveglianza.

    E le mille volte in cui aveva consolato ragazzi e ragazze che lo fermavano nei corridoi per raccontargli i propri problemi, da quelli soliti di cuore a quelli ancor più dolorosi perché meno sopportabili a quell’età, come la perdita di un’amicizia o la scomparsa di una persona cara. Stare a sentirli era, nella sua ottica di educatore, fondamentale; e perciò ogni volta che qualche collega diceva: Eh, ma pure io ci parlo con i ragazzi!, lui rispondeva: Sì, ci parli, appunto, ma non li ascolti...

    «Ho sentito pure io. Stanno parlando del virus, quello cinese», disse una ragazza dal viso affilato e dai capelli ramati, l’unica seduta davanti.

    Sam si fece più attento e captò la notizia, che era evidentemente la breaking news.

    «...è stata rilevata anche nel nostro Paese la presenza del nuovo coronavirusSARS-CoV-2 da cui si è originata la malattia da poco denominata Covid-19. Il primo caso attestato è quello di un uomo di Codogno, in provincia di Lodi... »

    Il silenzio, che aveva accompagnato l’annuncio dello speaker radiofonico, venne spezzato quasi subito dalle mille considerazioni degli alunni (Cazzo, ma Codogno è a due passi da noi!, fece notare uno), che però ben presto, con la tipica volubilità degli adolescenti, tornarono a occuparsi di altro: qualcuno si sistemò le cuffiette nelle orecchie, altri si accoccolarono meglio sui sedili per farsi un sonnellino prima dell’arrivo, mentre un alunno con lo sguardo fissò sul finestrino urlò:

    «Guardate là, c’è una pussybility.»

    «Eh?», fece Sam, mentre altri ragazzi si fiondavano al finestrino, sull’esempio del compagno.

    «Massi, prof. Quella tipa laggiù, la vede? Sarebbe da agganciare e poi ci sarebbe la possibilità di. beh, dai, non ha capito il gioco di parole?», cominciò a ghignare.

    Sam scosse la testa, non sapendo se ridere o se piangere.

    Prof, lei crede che questo virus porterà delle conseguenze gravi?, gli si rivolse la ragazza dai capelli ramati.

    Il professore indugiò per un attimo sui suoi ricci e considerò l’idea di fare una panoramica sulle grandi pandemie del passato, dalla Peste di Atene alla Spagnola di inizio Novecento, passando per la Peste Nera del 1348 raccontata da Boccaccio e da quella secentesca che faceva da sfondo alle vicende narrate da Manzoni. Era una deformazione, la sua, che lo portava a riversare sugli altri il proprio sapere per condividerlo, mica per ostentarlo, ma questa volta ci rinunciò, optando per una classica quanto inutile alzata di spalle.

    «Nah», disse, la voce impostata su una nota di sicurezza. «Vedrai che si risolverà tutto in breve tempo, cosa vuoi che sia un caso isolato? Non siamo mica in Cina dove milioni di persone vivono a stretto contatto e possono infettarsi facilmente l’uno con l’altro! Qualche giorno ancora e poi non ne sentiremo più parlare, fidati.»

    Disse così, e però sentì quel leggero brivido sulla nuca che sempre aveva anticipato ogni evento negativo della sua vita, come una brezza sottile che s’incuneava tra i capelli e poi sotto la cute. Si sforzò di ignorarlo, e poco dopo ripeté la medesima risposta ottimistica anche a un collega il quale, quando già si era addentrato insieme agli alunni in un palazzo rinascimentale dall’aria assai vissuta ma le cui pareti decorate da splendidi affreschi trasudavano l’atmosfera di tempi irripetibili, lo chiamò per sapere se la gita a Roma, programmata per il lunedì successivo, si sarebbe svolta, visto l’allarmismo generato dalla notizia.

    «E perché non dovremmo andare? L’agenzia non ci ha comunicato nulla così come l’albergo. Mi sa che qui stiamo correndo un po’ troppo con la fantasia! E che coglioni!»

    L’ultima parte in realtà la pensò solamente, perché non era abituato a usare volgarità, tranne in quelle rare, ma non infrequenti, occasioni nelle quali sbroccavasoprattutto contro chi, vuoi in malafede vuoi per incapacità conclamata, combinava disastri ai quali toccava poi a lui, di solito, porre rimedio.

    Per tutta la durata della visita, Sam si comportò come al solito. Nonostante insegnasse Lettere e amasse visitare mostre e musei, lo annoiavano a morte le dissertazioni dei ciceroni: secondo lui, le opere d’arte andavano assaporate con gli occhi, senza essere filtrate da tecnicismi, ma al massimo corredate da aneddoti sulla loro realizzazione, in modo da fissare bene la personalità di chi le aveva prodotte e il periodo storico in cui questi aveva operato.

    Finse, perciò, di ascoltare la guida che illustrava le gesta di uomini e donne che avevano abitato quel palazzo (costretta, povera donna, a interrompersi spesso per riprendere qualcuno degli alunni impegnato a trasgredire le regole dettate prima di iniziare, in particolare il divieto di scattare foto senza permesso), e intanto era lui che fotografava con il suo smartphone i soggetti che lo colpivano di più, inclusa la statua di un tizio dalla barba riccioluta che con aria disdegnosa e piglio severo distendeva dinanzi a sé il palmo della mano come a proteggersi, intimando anche lui Niente foto, please!

    Ma Sam non era fatto per obbedire, e anzi era propenso ad assecondare le sue debolezze, specie se l’effetto di queste potesse portare un beneficio a qualcuno. Ecco, forse

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