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Chiodo della terra
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E-book336 pagine3 ore

Chiodo della terra

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"Chiodo della terra" è il racconto di una delle più devastanti eruzioni mai avvenute nella storia dell'Etna. Un cataclisma che si consuma nell'arco di una notte. Un'apocalisse vista attraverso l'ottica di sei personaggi, sei percorsi che si intrecciano tra loro. È la storia di Luca, un ragazzo fuggito a Milano per sottrarsi alla violenza del padre Giuseppe. Appresa la notizia del disastro sull'Etna, Luca cercherà di tornare a Catania per salvare sua madre Agata, intrappolata sul vulcano insieme al marito, ormai accecato dalla sua stessa follia. Il loro destino si incrocia con quello di Matt e Lisa, una coppia di turisti inglesi dispersa tra i sentieri dell'Etna durante un'escursione notturna, e con quello di Carmine, un ambizioso politico con alle spalle un'oscura tragedia personale. Ognuno di loro cercherà un modo per sopravvivere, e allo stesso tempo dovrà perdonarsi per le colpe del proprio passato. Un passato che rischia di rimanere seppellito dalla furia dell'Etna, trascinando con sé il carico di tormenti e rimpianti che ogni persona cela nell'animo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2023
ISBN9788832816051
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    Anteprima del libro

    Chiodo della terra - roberto zito

    Luca

    Milano, 28 giugno 2019, ore 17.30

    Silenzio.

    Un lungo, interminabile silenzio.

    Non gliel’avrebbe data vinta.

    Si scrutavano da quasi un’ora, senza pronunciare una sillaba. Il suo orgoglio gli avrebbe impedito di schiudersi, anche stavolta.

    Sentiva il tremolio delle sue palpebre, l’unica scheggia che scalfiva la corazza impenetrabile. Non poteva controllarla a lungo. Osservò in alto, controllando i battiti dell’orologio che scandivano quell’interminabile rottura di coglioni.

    «Luca…».

    Si sentì d’improvviso euforico, come un bambino che aveva vinto nel gioco del silenzio. Aveva ceduto prima lei.

    «Se non mi aiuti, come ti aiuto? Se non ti apri, tutto questo è inutile. Io non capisco davvero perché sei venuto qui. Vieni sempre qui, non manchi mai all’appuntamento, però poi, insomma… questo».

    Lo disse aprendo le braccia e indicando semplicemente questo. La stanza, le pareti ricoperte da una vernice color verde alga, mucchi di attestati di formazione appesi, quadri con paesaggi aridi e indecifrabili, la scrivania in mogano, le tende grigie, il divano grigio, il parquet pieno di levigature, le sue braccia conserte, le gambe irrigidite, lo sguardo ridotto a una sottile fessura.

    «Possiamo restare qui e continuare così quanto vuoi. Non sei il primo né l’unico che attua un meccanismo del genere. Il solo fatto che sei qui ti tradisce: tu vuoi parlarmi. Ma non sai come. E io non posso costringerti. Quando capirai come farlo, sarò pronta ad ascoltarti».

    Quattro minuti. Sentiva il ticchettio dell’orologio alla parete, si fondeva con il tic nevrotico della sua gamba. Il movimento incontrollato faceva ballonzolare la collana a forma di conchiglia appesa al collo.

    Sentì d’improvviso un velo che gli ricopriva gli occhi. Una patina leggera.

    Lei la colse, si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia, in attesa. Lui si alzò di scatto, sentendo ogni arto del corpo percorso da una scossa elettrica. Fissò a terra un punto imprecisato tra i lacci delle scarpe.

    «Mi perdoni, perdiamo solo tempo. Meglio se non vengo più».

    Si voltò, percorrendo a scatti quella stanza che ora pareva aprirsi e richiudersi sul suo corpo in fuga. Afferrò la maniglia, salutò senza voltarsi, ebbe appena il tempo di sentirla rispondere, con un tono sereno che gli fece più male di uno schiaffo:

    «Al prossimo venerdì».

    «Non hai detto una parola manco stavolta, vero?».

    «Le sedute sono riservate, lo sai».

    «Luca, basta. Finiscila con le stronzate. Non hai parlato manco stavolta. Quanto vuoi continuare ancora?».

    «Ste’, ne parliamo a casa».

    «Non ci vediamo proprio a casa, stasera siamo al Baia Club. Compleanno, Fabrizio, te lo ricordi Fabrizio?».

    «E non mi prendere per il culo ora, Ste’. Io comunque passo da casa, mi devo docciare e prepararmi. Non ci vado con la puzza di fritto addosso».

    «Va bene. Ne parliamo quando ne vuoi parlare. Tu sei ’na cosa…».

    Non continuò. Cosa fosse lo sapevano entrambi. Stefano aveva già effettuato la sua diagnosi: la tua, ripeteva, è la sindrome dell’orgoglio alla Tony Soprano. Detta anche: ci vai in terapia, per far vedere che non ti serve la terapia. Che sei troppo maschio siculo per ammettere le tue debolezze. Uno stereotipo umano, questo sei.

    Luca di solito rispondeva che scoparsi un bartender di Bergamo era uno stereotipo peggiore.

    La tattica riusciva sempre, entrambi poi finivano nudi sul tavolo del salotto. Non c’erano parole che potesse sopportare, voleva solo stringergli le mani, stringerlo tutto, sentirlo addosso.

    Basta parlare. Non serve a niente.

    Afferrò la sacca di Glovo nascosta nel ripostiglio del ristorante. Aveva ancora cinque minuti, il tempo di una sigaretta prima del gran casino di corso Buenos Aires. Non fece in tempo a tirare la prima boccata. Simo spalancò la porta con la gonna già mezza calata, la strappò via e cercò di infilarsi la divisa da cuoca senza nemmeno togliersi le scarpe.

    «In. Ritardo. Scusami».

    Saltellava, mentre stringeva in vita i pantaloni rattoppati e ci piazzava sopra un grembiule col logo aziendale. Luca continuava a trattenere il fumo in bocca.

    «Respira, amico. Non lo dico a nessuno». Trattenne una risata, mentre Luca sputava il fumo a terra, tra le casse di pomodorini di Pachino.

    «Buon lavoro, caro» affermò Simo dando una culata alla porta e richiudendola con un calcio.

    Luca spense la sigaretta in un bicchierino ripieno d’acqua, la nascose dove prima aveva nascosto la sacca del delivery, osservò il display dell’orologio, poi l’app sul cellulare. Erano entrambi collegati e sincronizzati, avrebbero dettato il corso delle successive sette ore e controllato ogni sua minima scrollata di piscio. Con la sacca ancora in mano, oltrepassò la porta, corse in mezzo al caos urlato della cucina, andò al bancone delle ordinazioni, trovò le prime portate da infilare nella sacca con sopra i tagliandini, gli indirizzi, interno numero, piano quarto, meno bacon, meno lattuga, più cipolla e salsa barbecue.

    Il resto delle successive ore passò come doveva passare: la schiena umida per il calore della sacca e l’odore dei panini che si infilava sottopelle, la gincana in sella al People di terza mano comprato appena aveva messo piede a Milano, lo slalom nel casino di Porta Venezia, corso Indipendenza, poi Forlanini, ritorno a Porta Romana, un citofono dietro l’altro, un piano alla volta, ascensore sempre occupato, ma che cazzo!

    E l’ansia maledetta.

    I panini sbagliati, freddi, saccagnati, e gli otto minuti di ritardo che l’è un bel problema, e il navigatore che con voce calmissima, da fargli desiderare il porto d’armi, lo mandava a tre chilometri lontano da dove Fausto Paladino dell’interno quattro attendeva il suo hamburger a cottura media.

    Sette ore. Con pausa pisciata in un bar. Due minuti e trentaquattro secondi, cronometrati.

    Alla fine di quelle sette ore, Luca si concesse la sigaretta che aveva pregustato all’inizio. Rientrò in tempo per salutare Simo e gli altri in cucina di cui non ricordava nemmeno i nomi, forse erano stati appena assunti.

    Mezzanotte passata. E da un bel pezzo.

    Si era perso il tanti auguri a Fabrizio. Stefano gli stava mandando un video in chat, ma il caricamento era lento. Intravide una torta, candeline accese. Sperò che gli avessero messo da parte una fetta. Rispose con un cuore color viola, decise che non sarebbe passato a casa per la doccia.

    Non aveva fame, solo voglia di un Sex on the beach. Per fortuna al Baia non ci sarebbe stato modo di parlare. E l’indomani avrebbe evitato in tutti i modi la solita predica di Ste’. Lo avrebbe sfinito a letto, una tattica perfetta. In fondo, quando non si lamentava era bello come una scultura greca.

    Si rimise in sella al People, le strade cominciavano a svuotarsi. Qualche stronzo in Maserati si divertiva a rombare per viale Monza, sfottendo l’andatura sbilenca e arrancata del suo scooter.

    D’improvviso sentì il cellulare vibrare nella tasca in modo incontrollato. C’era una chat impazzita, forse, o qualche messaggio ripetuto a oltranza. Sperò davvero che non fosse Stefano, incazzato per qualcosa.

    Accostò, tirò fuori il cellulare dalla tasca, la gamba poggiata sull’asfalto in precario equilibrio. Guardò le notifiche, erano di Facebook. Non usava mai il suo profilo, lo annoiava quel social pieno di frustrati. Non fece in tempo a leggere le notifiche che se ne aggiunsero altre, decine. Sempre Facebook. Aumentò la luminosità del display per osservare meglio: erano contatti, profili di vecchie conoscenze di Catania. Dicevano di stare tutti bene.

    Poi tastò una notifica a caso, lesse e rilesse, scandì ogni parola. Era di un ragazzo di Nicolosi con cui aveva avuto una storia alle superiori. Anche lui confermava di stare bene.

    Aggiunse che casa sua non c’era più. Non era rimasto più nulla. Stava crollando tutto.

    D’improvviso sentì uno strappo attorno alla gola. Il respiro tolto, annullato, strozzato dalla collana a forma di conchiglia che si attorcigliava sul collo. La gamba che lo manteneva in piedi cedette, rischiò di cadere trascinandosi lo scooter addosso. Stirò l’altra gamba, trattenendo il peso del mezzo, si osservò attorno, nella calma innaturale di una notte a Sesto San Giovanni.

    Cercò quel numero. Si accorse di averlo cancellato.

    Si sforzò di ricordarlo, fu inutile.

    E non era per il terrore che gli penetrava nelle ossa.

    Era perché non voleva mai più ricordare.

    E ci era riuscito. Aveva rimosso tutto.

    Dimenticato.

    Dimenticati.

    Agata e Giuseppe

    Catania, 28 giugno 2019, ore 5.30

    «Guarda che ho trovato, Luca!».

    «Una conchiglia? E che ci fa ’sta conchiglia sull’Etna?».

    «Ah non so, l’ho trovata vicino la pineta, era ricoperta di gusci di castagne».

    «Mica è questo il suo posto. Le conchiglie stanno nelle spiagge, non nei boschi. Forse l’avrà persa qualche turista».

    «Forse. O forse è per ricordarci che un tempo qui non c’era il vulcano, c’era il mare».

    «Mamma, ti fai troppi film ’nda testa. Sarà stato tipo miliardi di anni fa».

    «Non ha importanza, per la natura è uguale a mezzo secondo».

    «E che ci vuoi fare con quella conchiglia?».

    «Un’ideuzza ce l’ho…».

    Si svegliò, sentendo il fianco del cuscino umido. Si passò una mano tra gli occhi appannati. Li richiuse, sperando di tornare in quel ricordo. Non ci riuscì. Il terremoto aveva risvegliato suo marito, nulla lo avrebbe placato. La scossa, per quanto debole, l’avevano avvertita distintamente, seguita subito dopo dagli ululati dei cani nei dintorni. Giuseppe sembrava più inferocito per il casino dei cani che per il tremolio che aveva solo spostato il letto di pochi millimetri. Si alzò, tastando tutto attorno al buio in cerca del bastone, emettendo un rauco sbadiglio che pareva il verso di un orso. Una volta afferrato il bastone, cominciò a sbatterlo lungo le inferriate delle finestre, urlando a ogni essere vivente di fare silenzio. Agata rimase asserragliata nelle lenzuola, sperando che le tornasse il sonno o che lui non tornasse affatto a letto. Così accadde, Giuseppe ciondolò con i piedi umidi a terra in cerca delle ciabatte, le trovò sotto al materasso, imprecò nuovamente mentre se le infilava e andava in salotto, in cerca di qualcos’altro, i suoi sigari forse, la bottiglia di caffè freddo da un lato, il Disaronno dall’altro. Le uniche cose che continuò a sentire Agata furono i suoi rutti e il rombo sordo dell’Etna.

    Quando i primi raggi del sole filtrarono lungo le inferriate, decise di controllare che la zona fosse sgombra. E nonostante la nottata insonne, Giuseppe non c’era. Anche quella mattina, suo marito avrebbe seguito il solito itinerario quotidiano. Agata emise un sospiro di sollievo: anche lei avrebbe seguito il suo di itinerario, senza intoppi.

    Iniziò dalla colazione, una poltiglia di Macine inzuppate nel latte fresco, che Giuseppe si procurava da un allevamento lì vicino. Seguì una veloce riassestata al letto, una spazzata a terra, per fortuna stavolta la cenere non aveva invaso il loro piccolo podere. Poi il ritiro della biancheria, il riordino dei cassetti, un rapido controllo al recinto di polli, galline e conigli in cortile e alle stalle dove riposavano gli asini. Infine, la solita fugace occhiata alle foto nascoste nel doppio fondale del comodino, che Giuseppe non era ancora riuscito a scovare. Se lo avesse fatto, quelle foto sarebbero finite dritte in una pira. Agata accarezzò quei ricordi sbocconcellati dal tempo e dal rimorso, osservò i lineamenti del figlio, gli occhi verdi come i suoi, le braccia spalancate come a chiedere un abbraccio, le labbra contratte in una smorfia. Represse il tutto in un debole singhiozzo, trattenuto dalla mano a pugno sul labbro, infine con la stessa mano afferrò il rosario e recitò le sue preghiere, sempre le stesse, una, due, tre volte.

    Quando ebbe finito, si sentì purificata. Tutto le verrà perdonato. E anche lui, un giorno, li perdonerà.

    Il programma prevedeva adesso la visione di Unomattina, come ogni mattina, poi l’attesa per A sua immagine, prima di passare al lungo lavoro preparatorio per il pranzo. Quando però accese il vecchio Mivar che aveva resistito a tante sciagure della loro storica convivenza, si accorse a malincuore che Franco Di Mare era stato sostituito da una puntata speciale di Linea Verde dedicata all’Etna. Le ultime notizie sul vulcano avevano alimentato una certa curiosità, e complice il fatto che Unomattina era andato in ferie e che nelle ultime due settimane avevano trasmesso solo repliche, la Rai aveva pensato di mandare in onda uno speciale sulle bellezze paesaggistiche dell’Etna, che Agata poteva benissimo vedere dalla finestra della sua casa a Piedimonte etneo. Inoltre, Agata non aveva più una concezione del tempo e dello spazio, sapeva solo che quel tempo era il suo tempo, che casa era quella casa, e che ogni giorno a quell’ora doveva esserci Unomattina con Franco Di Mare alla conduzione, che fosse una replica o meno, che fosse inverno, estate, autunno, primavera. Si gettò sulla poltrona di fronte al televisore, abbandonandosi allo sconforto. Linea Verde si interruppe per la pubblicità, annunciando al rientro un collegamento dalle magnifiche spiagge di Favignana. Non sapeva nemmeno dove fosse Favignana, era in Sicilia? Quanto era grande la Sicilia? Quanto poteva essere azzurro il mare? Più del cielo, quando non era coperto dalle nubi di cenere e dalle piogge improvvise che si abbattevano su quei sentieri di montagna? Non conosceva nemmeno la sensazione dell’acqua marina che le sfiorava la pelle, tutt’attorno vedeva solo il fogliame del bosco a ridosso dei Monti Sartorius e il nero spento delle colate laviche accumulatesi nei secoli.

    Sperò che almeno il suo Luca fosse andato a vivere in un posto vicino al mare.

    Non gli aveva mai chiesto dove fosse andato. Non avrebbe avuto più modo di chiederglielo.

    Giuseppe era partito all’alba col suo fuoristrada. Nonostante gli facesse già male la testa e non avesse chiuso occhio, percorse in fretta le curve strette e sinuose che puntavano verso Piano Provenzana, a quota 1.800 metri. Sentiva un freddo cane, nonostante fosse ormai estate inoltrata. Giuseppe si maledisse per essere uscito solo in canottiera e pantaloni della tuta, tastò l’abitacolo nel tentativo di far partire i riscaldamenti ma quel catorcio lasciatogli in eredità dal padre, insieme al podere, alla fattoria e alla cappella di famiglia, non rispondeva più ai comandi. Restava solo una radio gracchiante con soli due canali memorizzati, Radio Maria e Radio Etna Espresso. Entrambi mandavano al momento notiziari allarmistici sulla recente scossa di terremoto che aveva colpito la costa orientale della Sicilia, percepita persino in alcune zone della Calabria.

    «Minchia, chi buddellu ca’ fanu!» esclamò Giuseppe, mischiando risate e grumi di saliva in gola.

    Per lui quello era niente, tutto fumo, una scossa come le tremila scosse che aveva sopportato nella vita, oltre alle colate, le nubi di cenere, le tempeste improvvise, le nevicate e i mesi di soffocante siccità.

    «Iddi c’avissiru a sapiri…» mormorava, sempre rivolto a un non meglio specificato Iddi. Tutti quelli che non erano come lui, che sul vulcano ci era nato e cresciuto. E non gliene fotteva niente del mondo al di fuori dell’Etna, non l’avrebbe mai lasciata.

    Arrivò a destinazione, si accorse che il clima diventava finalmente più tiepido. La patina di umidità notturna che ricopriva l’asfalto si stava asciugando. Il sole illuminò i contorni della cappella del Sacro Cuore di Gesù, donandole un’aura mistica. Giuseppe stette a osservarla a lungo, in principio per controllare che la scossa non avesse lasciato crepe o danni alla struttura. Si accorse da solo di quanto ridicolo fosse il suo pensiero. Una targhetta sull’ingresso della cappella testimoniava la forza e la tenacia di quella piccola chiesa intonacata di bianco, colorata da vetri con sopra l’icona della corona di spine e dei chiodi, simboli della Passione, una croce di ferro posta sul tetto, un altarino con la statua di Gesù e le mura interne che conservavano la forma grezza della lava che riuscì a penetrarvi, arrestandosi prima che la struttura potesse soccombere. Un prodigio, un miracolo di Dio, che gli abitanti del luogo testimoniarono incidendo sulla pietra lavica la data del 3 agosto 1979.

    Tutt’attorno alla cappella, una schiera di rocce laviche segnate da numeri a caratteri romani riportava altre incisioni, ogni roccia era sormontata da una piccola croce pitturata di rosso.

    I: Gesù è condannato a morte.

    IV: Gesù caricato della croce.

    VII: Gesù cade sotto la croce.

    IX: Gesù incontra sua madre.

    XI: Gesù inchiodato sulla croce.

    Giuseppe seguì tutte le sequenze fino alla dodicesima roccia, su cui era intagliata la frase che costituiva l’apice della Via Crucis: Gesù muore in croce.

    Non arrivò all’ultima pietra. Si fermò lì, aggrappandosi su quella roccia squadrata, ringhiando per il dolore che gli torceva lo stomaco. Con un panno tolse della cenere dalla superficie, poi pianse.

    Gli capitava spesso, proprio in quel punto. Non si chiedeva il perché, non si chiedeva mai il perché di nulla. A parte una volta, una sola volta. Un unico perché, a cui suo figlio non aveva mai dato una risposta.

    Quando non ebbe più lacrime, si rialzò a fatica, tossì come se la cenere gli fosse entrata in gola, si asciugò la fronte madida di sudore, chiuse a chiave la cappella e ripartì, lasciandosi alle spalle quella Via Crucis inondata dalla luce d’inizio estate.

    Carmine

    L’autista sventolava il cartello in alto, mostrando le chiazze di sudore malamente coperte dalla giacca di ordinanza: ON. MURABITO.

    Carmine si avvicinò all’uomo, che da vicino pareva il sosia di Danny DeVito, mormorando con tono assonnato:

    «Eccoci».

    Dietro di lui arrancava Totino Barbagallo, trascinando con sé tutto il corredo: due trolley, la giacca nel cellofan, un tablet con sopra l’adesivo del partito, cellulare suo e dell’onorevole. Carmine si tirò su gli occhiali da sole, tenne la mano incollata sulle asticelle mangiucchiate, un tic che gli veniva quando sapeva che qualcuno lo stava osservando. Per questo aveva trattenuto la risata di fronte a quel ridicolo cartello: la sua foto era sui cartelloni pubblicitari di mezza regione, compariva in formato pop-up non appena digitavi Siciliaonline.it, era in mezzo agli annunci pubblicitari dei principali social. Probabilmente, l’omino che adesso stava spalancando le porte della Volvo V90 non possedeva un account oppure viveva nel più sperduto angolo dell’entroterra siciliano, dove nessuno aveva affisso i suoi manifesti elettorali.

    Carmine e Totino salirono in fretta, dopo aver caricato il bagagliaio. Attorno all’auto, sentì altri occhi che lo osservavano, mani che lo indicavano. Tolse gli occhiali non appena poté alzare il finestrino. Era grato del fatto che non ci fossero giornalisti nei paraggi. Se l’aereo fosse atterrato in orario, probabilmente lo avrebbero assalito. La scossa della notte precedente aveva fatto spostare il volo di almeno due ore. Una sciocchezza, nessun danno serio, nessuna segnalazione di feriti, ma tanto era bastato. Questo voleva dire che i giornalisti non avevano più idea di quale volo avrebbe preso l’onorevole per tornare a Catania. Ma voleva anche dire: solo un’ora di tempo per prepararsi. L’esatta durata che ci voleva per arrivare a Mineo.

    «Sa già dove dobbiamo andare?».

    «Certo, dottor Murabito. Guardi, se non becchiamo lavori in autostrada siamo lì in massimo quaranta minuti».

    Aveva dimenticato quell’abitudine tutta sicula di attribuire il titolo di dottore a chiunque sembri vagamente più istruito della media. Fece un sorriso di circostanza, prima di afferrare il tablet e scorrere il discorso che lo spin doctor del suo comitato aveva scritto in meno di mezz’ora. Non si era mai laureato, aveva cominciato subito dopo il diploma con la politica, ma con la sua memoria sarebbe arrivato senza intoppi alla laurea. Gli ci volevano pochi minuti e avrebbe imparato quel discorso senza nemmeno provarlo. Sarebbe salito sul palco con lo sguardo fisso sui cronisti e la sicurezza di un attore alla sua centesima replica dell’Amleto.

    «Toti’, non hai fatto modifiche, vero?».

    «No, Carmine, mi avevi detto che andava bene».

    «La verità… ho letto due righe dopo il decollo e sono crollato dal sonno».

    «Ora però mi metti ansia, Carmine».

    Totino prese un fazzoletto di stoffa dal taschino della giacca, lo poggiava ritmicamente sulla fronte. Nonostante l’aria condizionata, faceva quel caldo maledetto

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