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Leo Messi. La Pulce
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E-book224 pagine3 ore

Leo Messi. La Pulce

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Info su questo ebook

'La pulce', o 'D10S', come Maradona. É considerato uno dei migliori giocatori del pianeta e uno dei giocatori più forti di tutti i tempi. Ha accumulato record su record grazie ai suoi gol, alle sue ottime prestazioni in campionato e nelle coppe. É il calciatore con il maggior numero di reti realizzate in tutte le competizioni ufficiali con la maglia del Barcellona e dell’Argentina. Ha vinto 5 Palloni d’Oro, 4 consecutivamente. In questo libro tutta la vita e la carriera.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita28 nov 2019
ISBN9788832176971
Leo Messi. La Pulce

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    Anteprima del libro

    Leo Messi. La Pulce - Alessandro Ruta

    Introduzione

    C’è un ragazzo di quasi trentadue anni in lacrime nello spogliatoio di Anfield Road, a Liverpool, uno degli stadi più iconici del mondo. È un giovane uomo affranto per essere stato eliminato in maniera a dir poco brutale della Champions League, la competizione che ha già conquistato quattro volte, di cui tre da protagonista assoluto, segnando sempre nella finale. In teoria non dovrebbe versare quelle lacrime di disperazione, perché è da almeno un decennio il simbolo stesso del gioco che rappresenta: di più, è il simbolo di una città e di una squadra. Se oggi un ragazzino, in qualsiasi parte del mondo, pensa al pallone, pensa al calcio, al gol, che del calcio è appunto l’essenza, allora pensa a lui, a quel ragazzo di trentadue anni, nato in Argentina, che adesso è inconsolabile.

    È talmente giù di morale che quasi si dimentica di dover fare il test dell’antidoping, e tutto si risolve in una catena di ritardi, con i suoi compagni di squadra che lo attendono sul pullman, prima di prendere l’aereo per tornare a casa. Ma mica lo puoi lasciare a terra uno così. Perdere ok, si è perso, ma senza di lui le cose sarebbero andate molto peggio. Tipo nella partita d’andata di quell’eliminatoria, una settimana prima, quando nel momento più difficile della gara contro il Liverpool, quasi dal nulla, si era inventato due gol pazzeschi, specialmente il secondo, un calcio di punizione da trenta metri finito all’incrocio dei pali. Roba da vantarsene per una vita, nel caso di un giocatore normale; quasi la normalità, per il giovane uomo.

    Sì, è un calciatore speciale, quello. Asciugandosi le lacrime è probabile che pensi a quando, poche settimane prima, il 17 marzo del 2019, uno stadio intero si era alzato in piedi, spellandosi le mani per applaudirlo. E non era il suo, di stadio, non era il Camp Nou di Barcellona, a rendergli omaggio: erano i tifosi del Betis Siviglia, al Benito Villamarín, che si stavano inchinando dopo aver visto l’ennesimo gol meraviglioso, l’ennesima opera d’arte di quel piccoletto con la maglia numero dieci. E lo facevano consapevoli del fatto che la loro squadra stava perdendo sonoramente, ma davanti a certi capolavori non rimane che arrendersi. Quattro a uno, il risultato finale, tre reti del giovane nato in Argentina, una più bella dell’altra: un calcio di punizione all’incrocio dei pali (un altro), un tocco d’esterno mancino in velocità su assist di tacco dell’uruguaiano Luis Suárez, e infine la terza, l’apoteosi, assist dalla sinistra verso il limite centrale dell’area, e lui, senza pensarci, almeno apparentemente, colpisce il pallone di nuovo col suo piede preferito, quello con cui ha già segnato due volte. Potrebbe essere il pennello di un pittore o lo scalpello di uno scultore: ne nasce una parabola perfetta; molti da lì forse avrebbero tentato il tiro di potenza, o un controllo a seguire, ma lui no, lui è diverso dagli altri. Il portiere non è nemmeno posizionato malissimo, a dire il vero, eppure viene scavalcato dal pallonetto, che bacia la parte inferiore della traversa ed entra in rete.

    Ed è qui che lo stadio si inchina. È qui che l’appassionato neutrale, o addirittura l’avversario, riconosce quanto quel calciatore sia speciale. Quanti gol si sono visti al Benito Villamarín? Migliaia, decine di migliaia. Quante volte ha perso il Betis in casa? Un mucchio. Però è come essere davanti a un’opera d’arte, a un momento indimenticabile. I cinquantamila presenti non possono che alzarsi in piedi. E lui, il piccoletto, ricambia, il giorno dopo, davanti a così tanto affetto: «Non ricordo che mi sia successo nulla del genere in precedenza».

    Eppure, poche settimane dopo, le lacrime. Cosa è successo? Sei il migliore e le aspettative sono sempre altissime, un passo falso può rovinare tutto il lavoro fatto in precedenza. E dopo una partita d’andata da protagonista, accettare il tracollo è veramente dura. Il tuo cognome è diventato l’essenza del calcio, ed è come se un mondo intero ti crollasse addosso. Vedi gli altri fuori festeggiare, lo stadio colorato di rosso che intona un coro da brividi, You’ll never walk alone, Non camminerai mai da solo. Allora è come se parlassero a te, non puoi rimanere solo lì, devi reagire, devi dimostrare ancora una volta di essere il più forte. Di essere, ancora una volta, Lionel Messi.

    Dalle Marche

    Angelo Messi guarda il Mediterraneo. È al porto di Barcellona, sta facendo scalo dopo essere partito da Genova. L’obiettivo è raggiungere l’Argentina, assieme alla moglie, Maria Latini. In realtà no, non sono partiti da Genova, ma dalle Marche. E come loro centinaia e centinaia di conterranei, che con la loro valigia di cartone, piena di cibo portato da casa, perché non si sa mai, un solo vestito, quello che hanno addosso, stanno tentando la fortuna.

    È il 1893, Angelo ha ventisette anni, non ha ancora figli, per l’epoca è un po’ tardi a dire il vero, però ora che andrà a Rosario, il granaio dell’Argentina, la vita sicuramente cambierà. Tentare non costa niente, la vita nella Valle Cantalupo è diventata ingestibile, la povertà dilaga, il lavoro scarseggia, da dopo l’Unità d’Italia la situazione è degenerata per i contadini come lui. Le tasse salgono, ci sono da pagare le guerre del neonato Regno, e chi paga per tutti sono i mezzadri e i loro dipendenti. Chi fa in tempo, scappa. Col rischio di prendere qualche fregatura da famigerati agenti dell’emigrazione, che promettono una sorta di Terra Promessa, e di perdere i già pochi risparmi in un’avventura disastrosa.

    L’emigrazione italiana verso l’America, che sia del nord o del sud, è un fenomeno regolare alla fine del XIX secolo. Le Marche, assieme al Veneto, sono le regioni più colpite. Fino al 1960 in duecentomila circa partiranno, sia dalla costa che dall’interno: i marchigiani di mare soprattutto verso Mar del Plata, e tra questi c’è la famiglia Ginobili, che si stabilirà a Bahía Blanca. Quelli di collina e di montagna non cambiano panorama, rimangono sempre all’interno.

    La Valle Cantalupo è una zona al confine tra Recanati e Montefano, oggi è una frazione della cittadina che ha dato i natali al poeta Giacomo Leopardi, che si chiama Montefiore. E se Angelo è di lì, recanatese, la moglie è di Montecassiano, un altro borgo dell’interno. Sono poverissimi, ma pieni di speranza. Barcellona è la penultima tappa, prima di attraversare l’oceano e ricongiungersi con altri italiani, altri marchigiani, già presenti a Rosario.

    Il cognome Messi, in provincia di Macerata, è piuttosto diffuso. Anche al giorno d’oggi, ad Appignano, per esempio, c’è stato un sindaco che si chiamava Osvaldo Messi. Un vescovo, Joao Maria Messi, è nato a Recanati ma ha operato tantissimo in Brasile. E se i marchigiani spostatisi in Sudamerica sono stati circa duecentomila, a livello nazionale la cifra lievita fino a settecentomila. Alcuni di loro, nel corso degli anni, sono diventati calciatori o allenatori: Mauro Camoranesi e Jorge Sampaoli (Potenza Picena), Renato Cesarini (Senigallia), Nestor Sensini (San Benedetto del Tronto), Pablo Osvaldo (Filottrano), Bruno Pesaola (Montelupone), Albano Bizzarri (Montefiore dell’Aso). Se non hai un parente, anche lontano, in Argentina, non sei marchigiano, si dice.

    Angelo Messi non lo sa che 117 anni dopo un suo pronipote farà il percorso inverso, da Rosario a Barcellona. E di quella città e di quelle strade diventerà il re, l’imperatore, il simbolo: si chiamerà Lionel, ma per tutti sarà Lio, Leo, La Pulce. Non prenderà il piroscafo, ma un aereo, e con tutta la famiglia, compreso papà Jorge. È il calcio ad averli portati lì, uno sport che all’epoca della partenza di Angelo da Recanati e dintorni praticamente non esisteva, a parte in Inghilterra. I Messi non hanno fatto una grande fortuna, hanno mantenuto una vita onesta, senza troppi squilli: contadini erano e contadini sono rimasti, ma non sono morti di fame.

    Nel loro piccolo anche Jorge, nipote di Angelo, e Lionel sono arrivati a Barcellona per tentare la sorte, ma con il fútbol. Lio, fin da quando ha iniziato a muovere i primi passi, si è portato dietro un pallone: come tutti i bambini era un discolo, un rompiscatole, specialmente dopo una sconfitta, persino giocando a carte, sparigliava tutto, tavolo ribaltato e via. L’unico suo divertimento, anche a scuola, era il calcio. Aspettava l’intervallo per poter correre al campetto della scuola, al Colegio General Las Heras, a dimostrare le sue qualità. E ne ha parecchie, nonostante il pallone sia grande come lui o forse anche di più.

    I Messi a Rosario vivono in Calle Estado de Israel. No, non stanno in centro, dove invece era nato il cittadino più conosciuto di tutti: Ernesto Guevara, futuro Che, figlio della buona borghesia, che infatti studierà per diventare medico. Jorge, la moglie Celia, i figli Rodrigo, Matias, Lionel e Maria Sol conducono una vita riservata. Il papà lavora in un’acciaieria, la mamma in una fabbrica di bobine magnetiche e arrotonda facendo la donna delle pulizie. Si sono sposati il 17 giugno del 1978 nella chiesa del Corazòn di Maria, a Rosario: luna di miele a Bariloche, in Patagonia, sulle Ande. E lì Jorge non si era voluto perdere per nessuna ragione le partite del Mondiale in Argentina, vinto dall’Albiceleste per la prima volta nella storia, trascinata da Kempes, Bertoni e Passarella, con la dittatura militare trionfante in tribuna.

    Fondamentale, nell’infanzia del piccolo Lio, la nonna materna Celia, la persona che capisce meglio di tutti quanto la passione per il pallone del nipote travolga il resto. Tanto da avergli regalato il primo, in occasione di un compleanno (e da allora, ogni 24 giugno, uno nuovo). La scuola va bene, i voti sono senza infamia e senza lode, ma buoni per andare avanti, anno dopo anno: una volta uscito da Las Heras, però, Lionel vuole solo el fútbol. Anche scalzo, per le strade del quartiere, dove tutti lo riconoscono perché pur essendo abbastanza timido e riservato è già un fenomeno, in rapporto all’età. E il quartiere si chiama la Bajada, nella zona di Grandoli, accento rigorosamente sulla o, che come qualsiasi barrio argentino ha la sua bella squadretta di calcio: ed è lì che nonna Celia, alternandosi con papà Jorge, porta il piccolo Leo. Un giorno, quando manca un giocatore perché si completino due formazioni per una partitella amichevole, la mamma della mamma dice agli allenatori presenti: «Vabbè, ma mettete mio nipote, no?». I tecnici la prendono in giro: «Ma se è troppo piccolo: quanti anni ha?». «Quattro: e quindi?». La trattativa si conclude positivamente e Messi comincia a fare il Messi, anche a quell’età. Dribbling, avversari che cadono come birilli, una padronanza tecnica impensabile, un piede sinistro fatato. Quella partitella è la prima interpretazione pubblica, e non solo al campetto del Colegio Las Heras, di uno che sembra nato per giocare a calcio.

    A Rosario, però, il Grandoli è soltanto una minuscola realtà. Nella città dove è stata inventata la bandiera argentina, con le strisce orizzontali biancocelesti e il sole al centro, chi comanda a livello di pallone sono altri due club. C’è il Rosario Central, per cui tifava Che Guevara, e chi tifa per i gialloblù è una canalla, una canaglia. Il più grande calciatore della sua storia (per Diego Armando Maradona addirittura migliore di lui) è stato, probabilmente, uno che non ha mai giocato in Primera División. Era figlio di un immigrato croato e giostrava in teoria da volante, da centrocampista davanti alla difesa: si chiamava Tomás Carlovich, ma guai a dimenticarsi il suo apodo, il suo soprannome, e cioè El Trinche. Il Rosario Central, si dice, se c’era lui in campo faceva pagare i biglietti più cari di quando non c’era. Leggende, voci, miti del Sudamerica e dell’Argentina. «A chi mi domanda perché non sono arrivato, chiedo: cosa significa arrivare? Io volevo solo giocare a pallone e stare con le persone che amo, e loro vivono tutte qui, a Rosario», ripeterà anni dopo El Trinche, che coi suoi baffoni è diventato il simbolo del calcio da strada, che in gergo si dice potrero, fatto di tunnel e contro-tunnel agli avversari, più se ne effettuano e meglio è. Carlovich saltò il Mondiale del 1978 perché preferì andare a pescare piuttosto che raggiungere César Luis Menotti, El Flaco, rosarino pure lui, che l’aveva praticamente convocato. Quattro anni prima, in compenso, l’Albiceleste in partenza per la Germania, per un altro mondiale, aveva organizzato un’amichevole contro i migliori calciatori di Rosario: sotto 3-0 all’intervallo, venne chiesto al Trinche, che era con i rosarini, di non scendere in campo nella ripresa perché stava umiliando la Selección.

    Tuttavia, in città, se non sei una canaglia sei quasi con sicurezza un lebbroso, e cioè del Newell’s Old Boys, una squadra che oggi gioca in uno stadio intitolato a uno che è ancora vivo: Marcelo Bielsa. La grandezza non fa differenza tra vita e morte. Già, El Loco, altro personaggio di culto, che ovunque è andato ha lasciato il segno, figuriamoci con il Newell’s, la squadra della sua città, che ha portato a una finale di Coppa Libertadores, la Champions League sudamericana, nel 1992. Con il Nob ha giocato anche Jorge Valdano, che al pallone ha sempre dato del tu non solo con i piedi, ma pure con le parole: «Essere di Rosario significa essere argentino in maniera esagerata, fino alle estreme conseguenze». Gente non banale, anche fuori dal calcio, come Lucio Fontana, l’artista dei tagli, che ha trovato fortuna a Milano.

    El Clásico de Rosario, ovvero il derby tra il Central e il Newell’s, è una partita sempre sentitissima. Specialmente da quando, nel 1970, Aldo Poy, attaccante delle canaglie, rifiutò la cessione ai rivali cittadini. Troppo legato al suo club e a quello stadio: d’altronde era nato a pochi passi, letteralmente, dal Gigante de Arroyito. Poy nel 1971 ha segnato quello che è il gol più celebrato nella storia del calcio, e proprio in un derby rosarino: la famosa palomita, una rete in tuffo di testa, al Monumental di Buenos Aires, per l’1-0 decisivo per la qualificazione alla finale (poi vinta) del campionato nazionale. Ogni anno, da allora, da qualche parte del mondo, in Spagna, in Cile o in Messico, lo stesso Poy o qualcun altro (addirittura Ernesto Guevara, figlio del Che, a Cuba) riproduce l’azione di quel gol.

    Il Newell’s Old Boys è la seconda fermata di Lionel Messi dopo il Grandoli, quando ha quasi sette anni, nel marzo del 1994. Sul campo di allenamento Malvinas, dove giocano i più piccoli, c’è un gigantesco murales con i nomi di tutti quelli che ce l’hanno fatta, che sono arrivati nella massima serie: Valdano, già detto, ma anche, tra gli altri, Gabriel Omar Batistuta, Gerardo Tata Martino, Mauricio Pochettino, Abel Balbo e Nestor Sensini. Molti sono venuti a giocare anche in Italia.

    Nel suo primo giorno al Nob, accompagnato come al solito da nonna Celia, Lio incontra uno degli allenatori delle giovanili: Gabriel Digerolamo. Vedendolo così minuto, quest’ultimo chiede alla donna: «Ma è forte? È duro?». La risposta della nonna è inequivocabile: «Be’, Maradona lo era?». E Digerolamo: «Ok, ok, vediamo questo piccolo Maradona cos’è capace di fare: ti metto all’ala destra, va bene?». Lionel annuisce, va verso il campo d’allenamento poi si volta di scatto: «Signore, io non sono piccolo», rivolto al tecnico.

    Tra i suoi primi allenatori c’è Carlos Marconi, coordinatore delle giovanili dei Nob, che ricorda così le qualità e il carattere di Lio con la maglia rossonera, rigorosamente la diez, la dieci, delle giovanili del Newell’s: «Con lui si faceva una sorta di scommessa: per ogni gol segnato gli davo un alfajor [una sorta di biscotto ripieno, dolce tipico del Sudamerica e di alcune zone della Spagna, ndr]. Siccome le reti cominciavano a diventare tante, allora ho dovuto rendere più difficile la prova: ogni gol di testa, due alfajor. E lui che faceva? Scartava anche il portiere, si alzava il pallone e lo metteva in rete con la testa. Poi esultava mimando il due, come a ricordarmi di mantenere la promessa. Io la mantenevo, eccome, e gli alfajores andavano in grande quantità tra le mani di Lionel. Che però li smezzava assieme ai compagni, dimostrando un invidiabile spirito di squadra».

    Con le sue gambette piccole e magre, quello che è già stato ribattezzato La Pulce, per il fisico minuto, è arrivato al Newell’s perché in precedenza ci avevano provato sia il papà che i due fratelli maggiori, Rodrigo e Matias. Ben presto si sparge la voce di questo piccolo fenomeno che sta facendo sfracelli con le giovanili del Nob: molte persone si sciroppano cinquanta, sessanta o settanta chilometri solo per vederlo, sul campo Malvinas, e rimanerne strabiliati.

    Diventa presto un punto di riferimento per i compagni, nel riscaldamento è il primo negli esercizi e durante le partite domina. I piccoli del Newell’s non perdono praticamente mai, e se succede sono pianti a dirotto proprio perché è una cosa rara e inattesa. Lio non è il miglior marcatore della squadra, ma ci sono dei momenti in cui prende la palla, va in porta, segna, e quando riprende il gioco uguale, scarta tutti, altro gol e si ricomincia, a oltranza. Devono addirittura toglierlo dal campo, in certe occasioni, un po’ per non umiliare troppo i rivali e un po’ per lasciare spazio ad alcuni compagni. La chiamano Máquina 87, dall’anno di nascita sia di Messi che degli altri membri della rosa: per molti, la miglior squadra nella storia delle giovanili dei Leprosos, non si contano le partite terminate 7-0 oppure 8-0.

    Tra i compagni più intimi di Lio c’è Juan Cruz Leguizamón; i due si frequentano anche fuori dal campo, e a casa dell’amico per ore e ore Messi, nel giardino, simula partite vere mettendo bidoni o pali al posto del portiere.

    Nel 1997 la Máquina viene invitata in Perù a un torneo giovanile chiamato Coppa dell’Amicizia, assieme a decine di altre squadre. Il cammino è tutto in discesa, fino alla finale contro il Cantolao di Callao. A Lima sono arrivate centinaia di persone per vedere il fenomenale Newell’s e l’altrettanto fenomenale Messi: papà Jorge è in tribuna allo stadio, accanto a lui la famiglia Méndez, il cui figlio Kevin milita, appunto, nel Cantolao. Morale, la partita finisce 10-0 per il Nob, e Messi ha segnato ben otto gol. All’intervallo, quando il risultato era già ampiamente acquisito, la Pulce aveva deliziato i presenti palleggiando su e giù per le tribune: chi voleva andare in bagno si era tenuto la pipì per ammirare questo marziano, giunto

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