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I Maldini: Una questione di famiglia
I Maldini: Una questione di famiglia
I Maldini: Una questione di famiglia
E-book417 pagine6 ore

I Maldini: Una questione di famiglia

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Info su questo ebook

Mai, nella storia del calcio tricolore, una famiglia è riuscita a lasciare un segno più profondo di quello inciso dai Maldini. Per il patriarca Cesare, il figlio Paolo e il promettente Daniel, il fil rouge (o meglio rossonero) è sempre lo stesso: il Milan, di cui Cesare e Paolo sono stati gloriosi capitani, vincendo scudetti e Coppe dei campioni in epoche diverse, a distanza di quarant’anni l'uno dall'altro. I due si sono ritrovati sia a Milano, per un breve periodo nel 2001, che in Nazionale, quando dal 1996 al 1998 Cesare è stato commissario tecnico. Papà e figlio, certo, ma guai a parlare di raccomandazioni: anzi, “Cesarone” non ha mai voluto intromettersi nelle vicende di Paolo, uno dei più grandi difensori nella storia del calcio. Non ce n'era bisogno. Questo è un racconto che parte da Trieste, luogo lontano nel tempo e nello spazio, e che arriva a Milano. In un'Italia che cambia continuamente e in cui i Maldini si sono ritagliati un ruolo unico, quello di leggenda assoluta, degno di una grande saga famigliare.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita27 mar 2024
ISBN9788836163960
I Maldini: Una questione di famiglia

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    Anteprima del libro

    I Maldini - Alessandro Ruta

    MALDINI_FRONTE.jpg

    Alessandro Ruta

    I MALDINI

    Una questione di famiglia

    Dame el tempo!

    Nereo Rocco a Cesare Maldini in panchina

    Non si è mai allontanato da un senso della morale, del dovere, della fedeltà e dell’etica che ne fanno una delle icone del calcio.

    «L’Equipe» su Paolo Maldini

    La vita può essere compresa solo guardando indietro, anche se dev’essere vissuta guardando avanti – ossia verso qualcosa che non esiste.

    Claudio Magris, Danubio

    Introduzione.

    Romanzo popolare

    Se vivi a Milano, prima o poi, un Maldini lo incontri. Ma non perché questa sia una famiglia che vada in giro con vestiti fluorescenti o suonando il clacson, gridando da un megafono frasi tipo Donne, è arrivato l’arrotino. No, niente di tutto questo. Semplicemente perché sono persone talmente legate al tessuto di questa metropoli che è inevitabile finirci addosso e condividere parte della propria vita.

    Questo è capitato anche a me. Di rimbalzo, naturalmente, perché pur essendo un giornalista sportivo il mio lato milanese ha prevalso su quello del cronista. Ed è successo quando ero ancora un bambino e mio padre lavorava in banca.

    Andava a Città Studi e ci è rimasto per diversi anni, lui che si spostava in realtà di continuo, quasi come un calciatore. Lì conobbe i Maldini (oltre che Enzo Jannacci, in questo surplus di milanismo). Perché? Fine anni Ottanta, la famiglia era cliente della banca dove lavorava. E quindi più ancora che Paolo era entrato in contatto un po’ superficialmente con Cesare e con maggiore frequenza con Monica, Donatella e Valentina Maldini, le sorelle dell’allora giovane calciatore del Milan.

    Così, quando un giorno era arrivato in filiale Cesare Maldini, mio padre gli aveva chiesto un autografo per me. Mi immagino questo breve dialogo, magari con un sorriso e pochi fronzoli. Poco tempo dopo ecco il risultato, la tipica cartolina presa dalla figurina Panini di Paolo con la frase: Ad Alessandro con simpatia, Paolo Maldini.

    Per anni credo di averla tenuta appesa in camera, trasloco dopo trasloco, la scritta nera in orizzontale al centro, fatta apparentemente con un pennarello. Piano piano si è sbiadita, quella frase, ma nella mia ingenuità bambinesca mi ripetevo: "Accidenti! Paolo Maldini, quel Paolo Maldini, si è preso del tempo per scrivermi un saluto". Roba da bullarsi con gli amici a vita, naturalmente. Uno dei giocatori più famosi d’Italia e del mondo che aveva dedicato qualche secondo (dieci, venti, cento?) per salutarmi a distanza.

    Vicino eppure così lontano, impegnato a girare il pianeta con il Milan e con la Nazionale e al tempo stesso nella mia cameretta: beata incoscienza del ragazzino che tendenzialmente si beve tutto e crede a tutto. Quanti altri autografi aveva firmato e avrebbe continuato a firmare Maldini, prima ancora che arrivasse l’epoca dei selfie? Migliaia e migliaia. Tuttavia, aver giocato così tanto – ventiquattro anni da professionista, per la precisione – ha toccato talmente tante generazioni che non si può considerare Paolo Maldini uno qualsiasi. E come lui il padre, Cesare, che a parte bazzicare la banca dove lavorava mio papà era uno che era stato un personaggio clamoroso nel calcio e, oserei dire, nella cultura italiana per un tempo ancora maggiore.

    Su Cesarone forse non si è scritto mai abbastanza. Poche fonti? Personaggio poco notiziabile? E perché mai? Anche la sua vicenda, come quella del figlio Paolo, merita di essere ripercorsa. Perché quella dei Maldini è davvero una saga, peraltro non ancora finita visto che Daniel, secondogenito di Paolo, ha vinto nel 2022 uno scudetto con il Milan. Una saga come quella delle grandi famiglie dei romanzi dell’Ottocento, dove non mancano anche i momenti difficili, certo; ma con un’epopea che la rende unica, da romanzo popolare.

    Me ne sono reso ulteriormente conto quando, il 30 aprile del 2016, mentre ero in aeroporto a Bergamo in attesa di un volo per Santander, mi trovai in coda al check in proprio Paolo Maldini. Lì, in mezzo a tanti altri passeggeri qualunque, assieme a Ibrahim Ibou Ba, ex giocatore del Milan diventato negli anni ambasciatore del club.

    Personaggio del tutto agli antipodi di Maldini, il francosenegalese: da calciatore lo si notava in particolare per i capelli ossigenati di biondo, un’ala destra arrivata tra squilli di tromba, nell’estate 1997, e rivelatasi una meteora. Anche se era stato nella rosa campione d’Italia nel 1999. Ora me lo vedevo lì, accanto a Maldini, un po’ sovrappeso rispetto a quando era calciatore, mentre Paolo, a quasi cinquant’anni, sembrava ancora in grado di scendere in campo.

    Ricordo che rimasi di stucco vedendo un calciatore del suo spessore in coda per prendere un aereo low cost. Avrebbero potuto, lui e Ba, prendersi un volo privato e comodo; e invece eccoli lì, insieme a noi comuni mortali. Poco prima di imbarcarmi mi ero concesso alcuni selfie assieme ai calciatori del Crotone, che la sera precedente, a Modena, avevano conquistato la loro storica prima promozione in Serie A. C’erano il portiere Alex Cordaz, l’ex juventino Matteo Paro, il mediano Andrea Barberis, tutta gente che, non per sminuirla, ma mi sembrava più a suo agio in un contesto simile, anche un po’ casinista, con i tifosi al seguito pronti per scortare i loro eroi a Crotone.

    E in coda per Santander, Maldini e Ba. Era un periodo in cui Paolo non ricopriva alcun ruolo nel Milan, eppure avvicinandomi gli posi questa domanda, memore della figurina Panini che ancora avevo da qualche parte a casa: «Ma quando torni al Milan?» Lui mi aveva guardato, abbozzando un sorriso, rispondendo senza rispondere e sollevando le spalle. Alto, molto più di me, non so come, però, mi aveva convinto.

    Stava andando a Santander per ritirare nello stadio San Mamés di Bilbao il premio One man club, che ogni anno l’Athletic Club, la squadra locale, consegna a un calciatore che in carriera ha vestito solo una maglia. Nel caso di Maldini, naturalmente quella rossonera del Milan.

    Io pure stavo andando a Bilbao, ma perché mi ero trasferito lì da poco. Ricordo, nel giorno della premiazione, un’ovazione per lui da parte di uno stadio che l’anno prima aveva applaudito Matthew Le Tissier, geniaccio del calcio inglese, una vita intera al Southampton a deliziare il pubblico con le sue giocate, che forse avrebbero meritato un palcoscenico migliore. Campioni, tuttavia, che avevano lasciato un segno nella storia del pallone. E che, nel caso di Maldini, prendevano lo stesso mio volo.

    Prima parte.

    Il mulo di Servola

    Un odontotecnico mancato

    A Servola fanno un pane che è la fine del mondo. Trieste pure, di cui Servola è un’enclave prevalentemente di lingua slovena, sopraelevata e chiassosa a sud del centro, è tutto sommato la fine del mondo, o di un mondo: quello austro-ungarico che declina verso l’Adriatico, quella che ormai per questioni formali chiamiamo Italia ma che per secoli ha vissuto orgogliosamente con una propria e riconoscibile dignità. A cominciare dal pane, appunto, unico nel suo genere, realizzato dalle pancogole, donne laboriose che si dedicavano anima e corpo alla nobile arte dell’impastare e del cuocere, addirittura attraverso uno statuto municipale risalente al 1589 che obbligava a un giuramento davanti ai magistrati per esercitare «con ogni diligenza e senza frode alcuna». Per rifornirsi di grano c’è il fontico pubblico, il deposito, anche se la materia prima non è che fosse granché. Tanto che i servolani arrivarono a protestare, senza successo.

    Tuttavia, il pane a Servola è una sorta di filo conduttore. Per secoli le pancogole sono entrate a Trieste a dorso di mulo dalle tre di mattina in avanti dalla porta dei cappuccini di Cavana dichiarando le loro generalità, pena la confisca delle pagnotte appena sfornate. Tutto regolato attraverso norme e leggi, come il regolamento del 1756: le pancogole potevano «comperare solo due polonichi di frumento se non avessero acquistato la farina, potevano vendere il pane in piazza ai privati ma non ai bottegai se non dopo le undici del mattino, in caso arrivassero in piazza dopo tale ora, dovevano aspettare almeno un’ora prima di venderlo ai bottegai». Il pane delle donne servolane, soprattutto le bighe, diventerà talmente famoso per la sua qualità che alcune delle pancogole verranno invitate a Vienna nientemeno che alla corte di Francesco Giuseppe, il Cecco Beppe imperatore e marito dell’altrettanto famosa principessa Sissi.

    Possiamo comunque immaginarci questo formicolio triestino di arti e di mestieri, di donne e di uomini sempre al lavoro. Con nomi assolutamente poetici, in dialetto locale: pancogole, mussolère, impizaferai, sessolote, foghisti, conzapignate, breschizze, tonnarot. Ed essendo Trieste pur sempre un porto, per secoli il più prestigioso dell’impero austroungarico, anche di marinai e di navigatori, come Albino Maldin, sottufficiale di marina. In tanti a Servola si chiamano così, ancora oggi: anzi no, Maldini, perché a un certo punto quando cadono gli Asburgo è tempo di italianizzare i cognomi e Maldin diventa Maldini. Basta aggiungere una vocale.

    Fine, dunque, del trilinguismo tipico di Servola, brulicante non solo di gente di lingua italiana e slovena, ma con l’Austria non lontana era normale sentir parlare anche tedesco. Per questo motivo, sempre per legge, i maestri di scuola dovevano conoscere tutti e tre questi idiomi, senza dimenticare naturalmente il dialetto triestino, anzi il servolano, che ha parecchie contaminazioni slovene. L’italiano, in quel quartiere sopraelevato, tipica meta del fine settimana per i triestini di città che a un certo punto grazie a un tram possono recarsi più facilmente in direzione sud dal centro, quantomeno fino al 1918 è stata una lingua minoritaria.

    Pure la moglie di Albino, Maria Vodeb, diventa Maria Sancin. Anche questo cognome oggi a Servola è tra i più diffusi. In un’era in cui moltissime coppie avevano una valanga di figli Albino e Maria, loro si limitano a uno solo: lo chiamano Cesare, nasce il 5 febbraio del 1932. Con un padre spesso assente, di frequente lontano da casa, spetta alla mamma occuparsi del bambino, che cresce bello e con gli occhi chiari. La sua è una famiglia che potremmo definire della media borghesia, non ricca e non povera, ma un’onesta via di mezzo con lo stipendio assicurato del papà che non è cosa da sottovalutare. Certo, quell’assenza prolungata da casa del genitore fa crescere nel figlio a volte dei momenti di malinconia, che si fa passare dopo lunghe camminate al molo, guardando verso l’orizzonte e cercando di stabilire un contatto qualsiasi con il padre.

    Purtroppo, quando arriva la Seconda guerra mondiale la città di Trieste è uno dei fronti più caldi e l’adolescenza di Cesare è segnata anche da questo periodo molto duro, che comunque il ragazzo affronta alla sua maniera, con quel pizzico di incoscienza tipico non solo di quelli della sua età, ma in generale dei servolani. Del resto il quartiere era conosciuto anche per un altro evento, imperdibile: il Carnevale. Cominciava sempre il primo giorno dell’anno, con le osterie piene di bande che iniziavano a suonare e si beveva il vino prodotto soprattutto nella zona: il comune di Trieste considerava quel periodo così importante che a lungo manteneva interdette alle auto le strade intorno a Servola. Quando poi mancavano venti giorni alla fine del Carnevale, tutti in maschera per il cuore della festa goliardica e godereccia, con travestimenti di ogni tipo, inclusi quelli da austriaci. E il rumore giocava un ruolo di fondamentale importanza, scandito dai suonatori di tamburo come Guido De Santi, futuro ciclista professionista e vincitore di due tappe al Giro d’Italia.

    Chissà se per scherzo o perché ci credesse davvero, ma un giorno mentre altrove infuria la guerra, Cesare scende con un amico alla caserma di Cervignano per arruolarsi nella Wehrmacht, l’esercito dei nazisti: del resto le divise sono così belle, magari per indossarle durante il Carnevale di Servola. Quando mamma Maria lo scopre lo prende a colpi di scopa e gli fa cambiare idea, visto che nel frattempo, di notte, i partigiani bussavano alla loro porta in cerca di cibo. Una bella presa di contatto con la realtà.

    I progetti per lui sono di ben altro tipo: diventare un odontotecnico. Il giovane Maldini studia e inizia anche a collaborare con alcuni professionisti della zona, però non è che gli piaccia tanto quel lavoro. Lui preferirebbe dedicarsi a quello sport che nella Trieste del dopoguerra inizia a spopolare, assieme ai tanti canti e balli portati lì dagli anglo-americani: il calcio. Del resto, la città è al centro di quel milieu austroungarico e soprattutto danubiano in cui il football è al centro: allenatori come Arpad Weisz, giocatori come Matthias Sindelar, detto Cartavelina, e tanti altri avevano segnato l’immaginario collettivo anche italiano, visto che erano venuti in alcuni club nostrani.

    La squadra della Triestina permea talmente tanto il tessuto culturale cittadino che il poeta Umberto Saba le ha dedicato addirittura alcuni dei suoi versi più celebri:

    Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-

    alabardati,

    sputati

    dalla terra natia, da tutto un popolo

    amati.

    Trepido seguo il vostro gioco.

    Ignari

    esprimete con quello antiche cose

    meravigliose

    sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari

    soli d’inverno.

    No, decisamente meglio il pallone: anzi, el balòn, per dirla in dialetto. Cesare Maldini sogna di giocare per i rosso-alabardati, che in città devono vedersela in quanto a tifo col Ponziana, l’altra squadra di Trieste. Servola in tal senso è un quartiere tattico, dal punto di vista logistico: scendendo dalle sue colline si può andare indifferentemente al campo della Triestina o del Ponziana. Cesare riesce a entrare nelle giovanili della Triestina, anche se è un po’ magrolino e bisogna portarlo a mangiare qualche piatto extra al ristorante Pordenone; altri muli, altri ragazzi di Servola come lui, invece finiscono al Ponziana. Un nome su tutti, quello di Giorgio Ferrini, coetaneo di Maldini, che diventerà un grande capitano del Torino.

    E a proposito di Torino, del Grande Torino, in città l’entusiasmo è palpabile quando nel 1948 la Triestina arriva seconda in campionato proprio dietro agli invincibili granata: miglior piazzamento di sempre per i biancorossi dalla loro fondazione. In campo i giocatori di riferimento sono Ivano Blason, il capitano Bruno Ispiro e Guglielmo Memo Trevisan, quest’ultimo pure di Servola, come suo fratello minore Ettore, che però è ancora troppo giovane per essere ammesso in prima squadra.

    In panchina, per la Triestina, un uomo che farà la storia non solo degli alabardati, ma dell’intero calcio italiano. Di nome fa Nereo, di cognome sarebbe Roch, ma italianizzato pure lui diventa Rocco. Ex giocatore sempre della Triestina, gran mezzapunta dal sinistro devastante, figlio di un macellaio che riforniva di carni le grandi navi e nipote di un distinto borghese di Vienna scappato con una ballerina spagnola: una presenza in Nazionale, primo calciatore di Trieste a indossare la maglia azzurra, seppur per soli 45 minuti, sostituito poi da Giovanni Ferrari in un 4-0 contro la Grecia a Milano.

    Legato alla sua città in maniera viscerale, lui originario più del centro, vive nel quartiere di Rozzol dopo essere nato nella zona popolare di San Giacomo nel 1912. Parla un italiano pieno di influssi dialettali triestini e tatticamente si ispira a quello che verrà chiamato in maniera un po’ dispregiativa catenaccio. Rocco è un allenatore molto alla buona, è uno che va regolarmente in osteria e una delle sue preferite è Da Jeti, perché il proprietario è un omone grande e grosso, proprio come il mitologico mostro: lì oltre al pallone si dedica a interminabili partite a briscola e a tressette. Sposato con Maria, ha due figli: Bruno e Tito. Lo chiamano El Paròn, Il padrone, più che altro in maniera bonaria.

    Rocco lascia la Triestina per andare ad allenare il Treviso in Serie B, comunque sempre abbastanza in zona per poter tornare a casa dopo le partite. Senza di lui la squadra si mantiene nella parte media della classifica di Serie A, anche se non raggiungerà mai più il secondo posto del 1948. Cesare Maldini, intanto, ce l’ha fatta: addio alla carriera da odontotecnico e spazio finalmente al pallone. Entra in prima squadra a partire dalla stagione 1952-1953 e debutta da titolare contro il Palermo allo stadio La Favorita in una gara che per la Triestina ha un peso specifico enorme, visto che deve evitare la retrocessione a due giornate dalla fine e con soli due punti di vantaggio sulla penultima, il Como.

    L’allenatore, Mario Perazzolo, ha appena dodici uomini a disposizione e sembra che il giocatore destinato alla panchina sia proprio Maldini, «terzino in soprannumero», come scrive alla vigilia il quotidiano di Trieste «Il Piccolo». In effetti nella probabile formazione non c’è Cesare, nonostante sia aggregato alla squadra: è rimasto per mesi a disposizione delle riserve, è stato convocato qualche volta da Perazzolo, ma non ha ancora esordito in A. Ora invece anche lui deve sorbirsi quel viaggio lunghissimo in aereo da Gorizia con decollo alle 7.30 di mattina; dopodiché serata in giro per Palermo, c’è chi va al cinema per trascorrere il tempo, e in albergo «lunghe partite di canasta», come si premura di comunicare sempre «Il Piccolo».

    Alla fine, invece, Maldini gioca terzino sinistro, maglia numero 3. Va detto che la dicitura terzino sinistro non è la stessa che in epoca recente abbiamo conosciuto: Cesare è uno dei difensori che si dedicano alla marcatura di uno degli attaccanti, non va certamente su e giù per la fascia, il suo ruolo è quasi solo di contenimento sul lato sinistro, appunto, degli alabardati. La partita finisce 0-0 ed è un punto d’oro per la Triestina, che praticamente si salva in quel pomeriggio grigio del 24 maggio 1953 a Palermo. Il proscenio se lo prende il portiere Cantoni, autore di un paio di parate miracolose, ma è tutta la difesa che regge bene, con Maldini che «non si comporta male» secondo i cronisti del «Piccolo». Per Cesare è l’unica presenza in quella stagione, che si conclude con la permanenza in A dei suoi, visto che nella successiva e ultima partita di campionato, vinta 3-0 con la Lazio, Perazzolo recupera un po’ di titolari e li schiera lasciando fuori il mulo di Servola, ormai ventunenne.

    Gli osservatori, adesso che comincia a giocare partite vere, iniziano a descriverne pregi e difetti. Si legge sulle pagine del quotidiano triestino:

    Maldini dovrà giocare con tutti e due i piedi se vorrà affermarsi in Serie A e dovrà acquistare maggiore velocità. La sua dote migliore è quella di avanzare per fare un buon servizio, ma questo lo si può fare se si è veloci e ripetiamo che lo scatto non sembra la dote migliore di Maldini.

    In pochi in realtà danno grosso credito a Cesare, colpito in passato da problemi di salute non indifferenti, come la pleurite. Tra l’altro, vede amici e compagni di squadra tecnicamente migliori di lui morire all’improvviso, come il suo amico Uccio, giovane pieno di vita e gran ballerino al Circolo Lumière frequentato dai socialisti, ammazzato dal tetano per essere caduto, sanguinante, sul campo d’allenamento dove avevano sparso concime di bassissima qualità. In fondo, il mulo Maldini si ritiene fortunato: se proprio dovesse andar male con il pallone le vie d’uscita non gli mancherebbero.

    Invece la stagione successiva Cesare la disputa tutta. E da protagonista. Il problema è che la Triestina sta attraversando una grave crisi economica. Memo Trevisan, per dire, torna dopo due anni al Legnano e dopo uno al Piacenza, accettando di giocare a gettone, lui che sarebbe il fuoriclasse della squadra, pur di non pesare troppo sul bilancio.

    Torna anche Rocco Nereo in panchina, ma la situazione è davvero disastrosa: lo spogliatoio è diviso in tanti piccoli clan, i vecchi si dice che giochino solo perché sono i favoriti del Paròn, molti sono anche in là con gli anni, forse troppo. La dirigenza nel precampionato era pure divisa, con Rocco confermato solo dopo una lunga diatriba societaria, con dimissioni e rimescolamenti di ruoli. Il caos si concretizza alla vigilia della prima giornata, da disputarsi contro la Juventus a Torino: per questioni economiche (uno stipendio di 94 mila lire mensili più 25 mila lire per ogni punto ottenuto in trasferta e 15 mila per quelli in casa) ritenute inaccettabili, in quattro si ammutinano e non si presentano alla partenza in treno per il capoluogo piemontese. Sono Curti, Belloni, Petagna e Valenti: al loro posto Rocco non può fare altro che convocare in emergenza delle riserve, che sono Ballarin, Jugovaz, Meggiolaro e Maldini. Per Cesare maglia numero 2, mentre la Triestina becca tre gol da Boniperti, doppietta, e Muccinelli, con il bianconero Hansen che sbaglia pure un calcio di rigore.

    Andare avanti così è molto difficile, per Rocco. La squadra arranca in zona retrocessione, al termine del girone d’andata ha solo due punti di vantaggio sul penultimo posto, ma il peggio deve ancora venire. Quattro partite dopo allo stadio comunale di Valmaura si presenta il Milan allenato da Bela Guttmann, tecnico ungherese già in passato alla guida della Triestina. Cesare è ormai titolare, ma è una di quelle giornate in cui i rossoneri sono intrattabili, trascinati da un attaccante svedese che in patria faceva il pompiere perché da quelle parti non esisteva la figura del calciatore professionista: è Gunnar Nordahl, incidentalmente marcato proprio da Maldini. Il vichingo segna quattro gol, il Milan sei e Rocco viene esonerato. Paga anche Trevisan, che sparisce dalle rotazioni.

    La squadra, con il nuovo allenatore Severino Feruglio, che l’anno prima era ancora in campo proprio con la Triestina, riesce a salvarsi e Cesare chiude la sua prima vera stagione da titolare con trentuno presenze. L’ultima in una vittoria 3-1 contro il Novara, dove si fa male al ginocchio. Cesare Maldini comunque sembra una pedina fondamentale con cui la squadra dovrebbe ripartire dalla stagione successiva, e invece ai primi di giugno del 1954 viene ceduto per 58 milioni di lire al Milan. Ma come? E il poker di Nordahl? E la difesa completamente travolta dai rossoneri? Niente, non importa: all’allenatore Bela Guttmann era piaciuto molto quel giocatore così elegante, e poi ancora abbastanza giovane. Ci ha visto qualcosa di speciale, e se si spende così uno come l’ungherese, un assoluto guru del calcio dell’epoca, qualcosa vorrà pur dire.

    Tenendo conto che in quel periodo il reddito dell’italiano medio è di 25 mila lire nel Nord, ricco e industriale, e di circa la metà al Sud, si capisce come quella spesa di 58 milioni venga vista inizialmente come uno sproposito. In realtà è anche un modo da parte del Milan di aiutare la città di Trieste, all’epoca ancora parte dell’omonimo Territorio libero, ovverosia due zone che prendono più dell’attuale territorio comunale, espandendosi verso la costa dalmata: una zona A angloamericana dove prospera anche un altro sport, la pallacanestro, e una zona B jugoslava. Quando Maldini va al Milan, la divisione è ancora in atto e verrà sanata solamente nel novembre 1954: per Cesare il compito di sostituire il vecchio Arturo Silvestri, che con i suoi trentatré anni si sta avviando verso la fine della carriera.

    Protagonista in un grande Milan

    Come esborso economico il colpo di Cesare Maldini è senza dubbio clamoroso per il Milan. Allo stesso tempo, in quell’estate del 1954 il vero rinforzo sul mercato è un altro, con tutto il rispetto per il mulo di Servola. I rossoneri, infatti, si assicurano nientemeno che Juan Alberto Schiaffino, detto Pepe, oppure in maniera ancora più altolocata El fútbol: formidabile centrocampista offensivo uruguaiano, con la sua nazionale ha vinto il Mondiale nel 1950 sconfiggendo nella gara decisiva i padroni di casa del Brasile in quello che passò alla storia come Maracanazo, uno dei disastri sportivi più famosi della storia. Non solo: Schiaffino era andato a bersaglio in quella partita, realizzando l’1-1 con un potente destro di prima intenzione. E anche nella successiva Coppa del mondo, che si disputa proprio nel 1954, Pepe è uno dei protagonisti di quella Celeste che si spinge fino alla semifinale, sconfitta dalla grande Ungheria di Puskas.

    L’uruguaiano segna due gol in quel torneo prima di venire a Milano, dove diventa uno dei pilastri della squadra che sta costruendo Bela Guttmann. In ogni reparto c’è almeno un fuoriclasse, a cominciare dal portiere, Lorenzo Buffon: in difesa, oltre a Silvestri c’è Francesco Zagatti, al Milan fin dalle giovanili, mentre a centrocampo Schiaffino va a fare compagnia a un altro gigante, anche dal punto di vista fisico, come Nils Liedholm. Un vero portento, questo svedese dalla grande visione di gioco e al contempo dotato di un tremendo tiro dalla distanza. Quando era arrivato al Milan dal Norrkoeping nel 1949 aveva rassicurato la famiglia, che per lui sognava una carriera da consulente fiscale: «Tranquilli, presto sarò di ritorno». E invece eccolo ancora lì a dispensare sapienza in mezzo al campo, tanto che la leggenda racconta di come il pubblico di San Siro una volta si fosse alzato in piedi ad applaudire un suo passaggio sbagliato: sì, Il Barone Liedholm era umano come gli altri.

    Davanti, un altro svedese. Lo abbiamo già incontrato in questo racconto, Gunnar Nordahl, leader carismatico della squadra e capitano. Quando Maldini arriva in sede a firmare il contratto, l’ex pompiere lo riconosce, lo saluta vigorosamente e un po’ lo sfotte, ricordando la magra figura rimediata dalla Triestina nella precedente stagione. Del resto, chi non finiva sotto con Nordahl, uno dei migliori attaccanti al mondo? Quattro volte capocannoniere della Serie A, è tutt’ora il miglior marcatore nella storia del Milan con 221 gol in 268 partite.

    I rossoneri, con i due svedesi in rosa, sono tornati a vincere lo scudetto nel 1951 dopo un’astinenza lunghissima, di ben quarantaquattro anni. C’era un altro connazionale di Liedholm e Nordahl: Gunnar Gren, centrocampista cerebrale e dal fisico tutt’altro che trascendentale ma dall’ineguagliabile abilità tattica. I tre svedesi assieme avevano formato il cosiddetto Gre-No-Li, coniato dalle iniziali dei rispettivi cognomi. Nel 1953 Gren si sarebbe trasferito alla Fiorentina lasciando un buco evidente nella rosa, che ora il presidente rossonero Andrea Rizzoli voleva tappare con l’acquisto di Pepe Schiaffino.

    In campionato, l’inizio del Milan è semplicemente perfetto. Per una strana congiunzione astrale, il debutto è contro la Triestina, in cui Maldini si ritrova a fronteggiare i suoi ex compagni di squadra: finisce 4-0, è il 19 settembre del 1954 ed la prima vittoria di una lunga serie. In dieci giornate, infatti, i rossoneri lasciano per strada solamente un pareggio nel derby della Madonnina e chiudono il girone d’andata in vetta comodamente con 4 punti di vantaggio sul Bologna. Nordahl e Schiaffino sono rispettivamente capocannoniere e vicecapocannoniere a quota 11 e 10 gol. Insomma, un dominio assoluto e una difesa che ha preso appena 14 gol.

    Alla prima di ritorno, però, ecco un inaspettato rovescio. Proprio a Trieste, sul campo di Valmaura, che Maldini conosce bene. Partita folle in cui il Milan si schiera senza Schiaffino – squalificato – e Liedholm, e in cui Cesare trova in un colpo solo il suo primo gol in Serie A (un tiro ravvicinato) e il suo primo autogol, deviando un tiro di Secchi da fuori. Finisce 4-3 per la Triestina, non sembra un passo falso troppo grave, ma quando a San Siro la settimana successiva la Sampdoria passa con autorità sopra i rossoneri per 3-1, si accendono tutti gli allarmi: incredibilmente a pagare è Guttmann, esonerato dopo un pomeriggio di discussioni a distanza con la proprietà. Il Milan è ancora primo, ma l’allenatore viene cacciato; un unicum nella storia del calcio italiano.

    Al posto di Guttmann viene scelto Hector Puricelli, vice del tecnico magiaro, uruguaiano pure lui e artefice dell’acquisto di Schiaffino da parte del club. Testina d’oro del Milan, era stato anche calciatore, nonché uno dei migliori attaccanti a cavallo della Seconda guerra mondiale. Non è che proponga chissà quali ricette, la squadra rimane forte ma forse fiaccata da troppi bagni caldi che hanno rilassato i giocatori. Sta di fatto che con Puricelli i rossoneri riprendono a correre e vincono agilmente il campionato il 12 giugno 1955 grazie al 6-0 alla Spal, una settimana dopo aver rifilato 8 gol al Genoa. Miglior attacco, miglior difesa e capocannoniere del torneo (Nordahl, con 26 reti): insomma, un trionfo decisamente meritato con l’apporto fondamentale anche di Schiaffino (15 centri) e dell’irrequieto danese Sorensen (13). Per Maldini ci sono 27 presenze e la consapevolezza di poter stare tranquillamente in mezzo ai grandi: due anni prima debuttava in A e adesso vinceva lo scudetto.

    Un tricolore tira l’altro

    Il Milan ha l’opportunità, nella stagione successiva, di essere la prima squadra a disputare una nuova competizione destinata ai vincitori dei tornei nazionali: si chiama Coppa dei campioni e promette di dare gloria imperitura ai club che la dovessero vincere. Molto più di quella della Mitropa Cup, che impegna solo le squadre della Mitteleuropa, e più della Coppa latina, che si disputava dopo la fine dei campionati in un mini torneo con quattro partecipanti. No, stavolta si fanno le cose in grande stile, visto che patrocina la Uefa: tabellone tennistico, andata e ritorno ed eventuale spareggio in caso di parità complessiva nei due incontri, finale in partita secca in campo neutro.

    Come detto, il Milan c’è e debutta contro una squadra un po’ particolare: il Saarbrucken. Per qualche anno questo club aveva giocato nel campionato francese, visto che la regione della Saar era sotto quella bandiera; tuttavia, dopo la Seconda guerra mondiale i nerazzurri erano riusciti a rientrare nella lega tedesca al termine di un complesso periplo logistico. Ed eccoli dunque a sfidare i rossoneri al primo turno della Coppa campioni 1955-1956: a sorpresa, a San Siro, 4-3 per il Saarbrucken davanti a un pubblico letteralmente sbigottito. Meno male che al ritorno il Milan si sveglia e liquida i rivali 4-1, guadagnandosi l’accesso agli ottavi di finale, dove molto più agilmente cade il Rapid Vienna.

    Sta di fatto che il doppio fronte logora parecchio: in campionato il Diavolo allenato da Puricelli fatica enormemente a star dietro alla lepre Fiorentina, che batte il Milan 2-0 a San Siro e vola verso la conquista del primo scudetto con distacchi non recuperabili. I rossoneri resistono al secondo posto, ma è una corsa a handicap: meglio concentrarsi sulla Coppa campioni, che in semifinale regala a Maldini e compagni il Real Madrid, una delle società che maggiormente aveva spinto per la creazione di quella competizione continentale.

    Stretta di mano da Nordahl e Muñoz, si comincia. Gli spagnoli sono uno squadrone, con la stella Alfredo Di Stefano a guidare l’attacco, un calciatore universale e velocissimo tanto da essere soprannominato "La saeta rubia, La saetta bionda". Ci sono 120 mila spettatori circa allo stadio Santiago Bernabeu ad assistere a un incontro che nel primo tempo è un inno allo spettacolo: botta e risposta continui, con il Real che due volte va in vantaggio e in entrambi i casi si fa riprendere. Rial, Nordahl, Iglesias e Schiaffino illuminano la contesa, prima che i blancos si riportino avanti di nuovo con Olsen e chiudano sul 4-2 con il timbro di Di Stefano. Tra i più sballottati c’è Maldini, che si rende conto di come all’estero i ritmi e gli avversari siano tutt’altra cosa rispetto al pur competitivo campionato di Serie A.

    Al ritorno un gol di Joseito mette ancora di più in discesa la qualificazione per il Real, ma il Milan non si arrende e con una doppietta di Dal Monte su rigore torna a una rete di distanza. Tradito dai suoi assi Nordahl e Schiaffino, stranamente non in giornata, l’undici rossonero finisce eliminato a un passo dalla finale, con gli spagnoli che in realtà tirano un bel sospiro di sollievo visto il forcing finale della squadra di Puricelli. Di Stefano e compagni andranno a vincere la prima Coppa campioni della storia battendo 4-3 in finale il Reims. Sarà l’inizio di una lunga dinastia.

    Il Milan comunque chiude la stagione trionfando nella Coppa latina, a cui partecipa per la rinuncia da parte della Fiorentina campione d’Italia: nessun problema, all’Arena Civica è 4-2 al Benfica in semifinale e 3-1 all’Athletic Bilbao in finale. Grande protagonista di quella vittoria è una mezzapunta brevilinea nata nel quartiere operaio della Bovisa, a Milano, che risponde al nome di Osvaldo Bagnoli. Sta di fatto che i rossoneri mettono in bacheca un titolo europeo a cinque anni di distanza dall’ultima volta.

    Puricelli intanto lamenta la mancanza di un attaccante in grado di capitalizzare le occasioni e quasi subito dopo la fine della stagione vola in Sudamerica a cercarne uno che possa sostituire un Nordahl apparso un po’ logoro. Torna a casa con Walter Gómez, centravanti uruguaiano: il problema è che nel frattempo la società lo ha esonerato, ritenendo insufficiente il bilancio dell’annata precedente. Al suo posto la scelta è caduta su una sorta di guru nel panorama del calcio italiano, Giuseppe Viani detto Gipo, o più brutalmente Lo Sceriffo, per i suoi metodi spicci. Non che Puricelli non ne avesse, ma l’allenatore di Nervesa della Battaglia, nel trevigiano, è di un altro livello, anche come personaggio.

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