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Donne di un anno tranquillo
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E-book263 pagine3 ore

Donne di un anno tranquillo

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Info su questo ebook

Le storie di quattro donne che abitano nello stesso caseggiato di un quartiere genovese, tra amori e drammi, perbenismo e ipocrisia.
Sullo sfondo di un anno apparentemente tranquillo s’intrecciano le storie di quattro donne che abitano nello stesso caseggiato di un quartiere genovese. Gli uomini entrano ed escono dalle loro vite, ma tengono in ostaggio il loro cuore. Gli occhi dei bambini seguono ogni episodio famigliare con trepidante attenzione; vorrebbero contare qualcosa e mutare il corso degli eventi. L’atmosfera dell’epoca trapela da ogni vicenda: usi e costumi di esistenze semplici o complesse, rapporti umani all’insegna del perbenismo e dell’ipocrisia. Un mondo di ieri che, alla fine, risulta meno lontano del nostro rispetto a quanto solitamente siamo disposti ad ammettere.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2014
ISBN9788875639754
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    Anteprima del libro

    Donne di un anno tranquillo - Luciana Chiesi De Fornari

    Estate 1935

    Capitolo 1

    Le sentiva correre sopra la sua testa. Una parte del terrazzo di copertura del caseggiato di via Pendola era riservato agli inquilini dell’ultimo piano.

    Antonia stendeva la biancheria nel rettangolo più piccolo; non un gran pavese come gli altri dato che viveva sola.

    Quell’assolato pomeriggio di luglio vi salì senza un’intenzione precisa, se non quella di distrarsi guardando la corsa delle bambine.

    La biondina dell’interno 20 stava indugiando affannata davanti al sipario di un lenzuolo umidiccio, un attimo dopo vi affondò il viso e vi si appoggiò con l’esile figura, allargando le braccia e facendo ondeggiare i panni stesi sul filo.

    La brunetta che l’inseguiva, appena scorse l’estranea sbucare dall’uscio delle scale, rallentò la corsa, intimidita.

    Non lanciò un richiamo, speranzosa che l’amica si staccasse dalla scorretta positura e riprendesse a gareggiare.

    Intanto che avanzava lentamente, Antonia storse la bocca vedendo le ditina a ventaglio stampate proprio su uno dei suoi lenzuoli.

    D’improvviso la birichina, colpita dal silenzio alle sue spalle, fece ricadere le braccia, arretrò e si voltò guardinga.

    Il riverbero del sole la costringeva a strizzare gli occhi, dandole un’espressione un po’ comica.

    Che fai, Rita? chiamò con la vocina strozzata.

    L’amica, ormai ferma a breve distanza, non le rispose, gettando un’occhiata inquieta verso Antonia. Erano due belle bambine: una bionda e ricciuta dal viso rotondo e lo sguardo azzurro un po’ duro, l’altra bruna, grassoccia, con la frangia compatta dei capelli che sfiorava gli occhietti neri e lustri come due chicchi di caffè tostato.

    Antonia le aveva già incontrate per mano alle madri, in qualche bottega o nell’ascensore.

    Rita era la figlia della bustaia del secondo piano. Stella era la figlia della signora Arditi, come indicava l’etichetta d’ottone sempre lustra sulla porta dirimpetto alla sua.

    Sentendosi osservata la biondina fece saettare di lato lo sguardo. Lunedì è giorno di bucato, per giocare potete spostarvi più in là le ricordò bonaria Antonia accostandosi.

    A quest’ora non c’è più niente sui fili s’intromise Rita a mo’ di discolpa.

    Antonia sorrise, dopotutto il torto era suo che aveva steso i panni in ritardo.

    A volte sono i piccioni a sporcare la biancheria si fece animo Stella, sbattendo le palpebre.

    Ma appena ci vedono volano via rilevò l’amica.

    Non è vero, sono gli uccellini a scappare che sono più paurosi dei piccioni.

    Cip, cip risero le bambine. E seguitarono a dialogare spigliate e allegre, senza spostarsi.

    Antonia si sentì un’intrusa tra quelle ingenue dispute, le piccole a tratti la sbirciavano con le faccine accese dall’enfasi.

    Stella aveva l’aria di prevalere, l’altra si mostrava accondiscendente più per abitudine che per convinzione. Si era mosso un po’ di vento; federe, asciugamani e una camicia da notte presero a svolazzare, le due lenzuola a una piazza si gonfiarono come vele, costringendo le bambine a scostarsi. Antonia tastò il bucato con gesti rapidi come per giustificare la sua presenza, quindi si allontanò verso il muricciolo.

    Poggiò i gomiti sul parapetto che era alto e largo, per cui anche se allungava il collo, non poteva andare oltre ai coppi dei tetti, ai vetri degli abbaini, alle terrazze, alcune fiorite, altre anonime e nude, come questa.

    I rumori della strada salivano ovattati: qualche clacson, lo stridore del tramvai allorché frenava nella curva di piazza Martinez, il fischio di un treno sotto il ponte di Terralba.

    Malgrado abitasse in quel quartiere da sei mesi, stentava ancora a considerarlo un luogo di appartenenza, e spesso si confondeva nel dedalo delle strade.

    La nostalgia di Castelpoggio, la cittadina a ridosso del crinale che separa l’Emilia dalla Toscana, dove era nata e cresciuta, tornava di frequente a farsi sentire.

    Trasferirsi a Genova era stato un bel salto per una ragazza di provincia, ma una soluzione necessaria per sottrarsi alle conseguenze di una batosta sentimentale.

    Aveva combinato tutto sua cugina Neera, da sola Antonia non si sarebbe mai decisa a tagliare i ponti.

    Una domenica d’inverno Neera era arrivata davanti alla palazzina degli zii, su una Lancia scura guidata da un giovane con i capelli impomatati e l’aspetto di un damerino.

    "Questo è Pablo Gasull, il mio amico tenore, ha una voce straordinaria dovreste sentirlo nella Vedova allegra e nel Conte di Lussemburgo" l’aveva presentato con fervore.

    Neera andava su e giù per le stanze, pavoneggiandosi in un abito di maglia rossa che ne esaltava la scattante figura. Aveva occhi lunghi e languidi sotto l’ala del feltro nero messo di traverso sulla capigliatura corvina, le dita nervose stringevano due giri di perle che le sfioravano il seno prosperoso.

    La madre di Antonia era scombussolata dalla visita imprevista.

    Le pareva che l’ambiente non fosse degno degli ospiti e tantomeno il pranzo, che aveva arricchito all’ultimo momento con un paio di contorni. Neera era la figlia di sua sorella Mara che aveva sposato un ricco ingegnere delle ferrovie, destando l’invidia di tutto il parentado e destando un’immensa pietà quando era morta di tubercolosi a soli trentasette anni.

    Neera era cresciuta col padre e aveva viaggiato per mezzo mondo. Viziata, esuberante e volubile, aveva collezionato flirt e fidanzamenti mal riusciti all’insegna di uno sfacciato egoismo.

    A metà degli anni Trenta una ragazza della media borghesia dai comportamenti anticonformisti di Neera, apparteneva a una specie piuttosto rara.

    Quella domenica, dopo mangiato, aveva tirato in camera la cuginetta intanto che lo spagnolo conversava in un italiano stentato con i padroni di casa.

    Guarda che faccino smunto ti è venuto, Antonia, non vorrai restare qui a rosicchiarti il cuore e a farti leggere la vita dietro.

    Antonia non sapeva cosa dire, seduta sulla sponda del letto guardava mortificata quella bruna disinvolta e le si inumidivano le ciglia, quasi fosse colpa sua se il fidanzato l’aveva piantata in asso a pochi mesi dalla nozze.

    Dunque è meglio sparire per un po’, Antonia, te ne vieni da me a Genova, finché i pettegolezzi si placano e ti rimetti in sesto.

    Io e te insieme? aveva esitato Antonia.

    Già nell’adolescenza aveva sperimentato le stranezze della cugina, difficili da condividere. Allora Neera aveva allungato una mano e le aveva tirato su il mento, sgranandole addosso gli occhi bistrati di nero.

    Ascolta, io tra quindici giorni parto sull’Augustus, diretto in Sud America con Pablo, impegnato in una lunga tournée, al ritorno deciderò se è l’uomo giusto per me.

    E siccome Antonia seguitava a fissarla interrogativamente, l’altra le aveva mollato il mento, assumendo un’aria concentrata.

    Ho ventisette anni, cinque più di te, forse è l’ora che mi sistemi per sempre, ti pare?.

    Quante volte Neera aveva abbozzato propositi assennati per poi non metterli in pratica!

    Dapprima Antonia aveva creduto di non farcela a un cambiamento così drastico, malgrado a Genova ci fosse già stata per due brevi soggiorni dalla cugina.

    L’appartamento Neera l’aveva ereditato da una prozia e le era venuto bene, allorché, stanca di abitare a Roma col padre, aveva deciso di vivere per conto suo.

    Al contrario per Antonia la sola idea di vivere per conto suo in una grande città, l’aveva tenuta con l’animo sospeso per settimane. Ma i genitori stessi l’avevano spinta ad accettare l’invito, in fin dei conti ci tenevano a smorzare il compatimento dei paesani per l’affronto subito dalla figlia.

    E, ignorando l’assenza di Neera, confidavano che nonostante le eccentricità, la cugina fosse adatta a rinfrancare Antonia.

    Il vento s’era calmato, il sole incominciò a bruciarle le braccia nude e a farsi sentire sulla nuca.

    Antonia si staccò dalla balaustra e lanciò un’occhiata circolare alla terrazza deserta. Non sentiva più cinguettare le bambine; restò delusa non scorgendo le macchie colorate dei grembiulini.

    Forse si erano nascoste dietro i due vecchi lavatoi di cemento, ormai fuori uso, che ingombravano il lato a ovest.

    Facendo solecchio con la mano, vide solo i vasi delle erbe aromatiche che Norma, la portiera, aveva posto sul piano inclinato per l’insaponatura, creando una piccola oasi di basilico, salvia e rosmarino, protetta dalla tettoia di lamiera.

    Dunque Rita e Stella erano sparite senza salutarla, probabilmente messe in soggezione dalla sua comparsa.

    Lei non era certo il tipo da ispirare confidenza. Anche la signora Mary, la titolare del Gomitolo d’oro, che le affidava i lavori da sferruzzare, tentava invano di farla uscire dal suo istintivo riserbo: Signorina Valle, su faccia un bel sorriso così scaccerà i brutti pensieri l’incitava, roteando gli occhi bulbosi.

    E lei l’accontentava con un sorriso da fototessera.

    Una domenica la signora del gomitolo l’aveva invitata a casa sua per una festicciola familiare.

    Gli invitati erano numerosi, e tra un salatino e un bicchiere di moscato, la signora Mary le ammiccava perché si sciogliesse un po’.

    Faccia conto di essere sua cugina Neera, quella sì che sa divertirsi le aveva suggerito.

    Sul grammofono aveva messo un disco di Rabagliati, dopo aver sgombrato le sedie e accostato il tavolo della sala da pranzo alla parete.

    Così era iniziato il rito delle danze.

    Nemmeno il tempo di adeguarsi al cambiamento di scena, che un giovane smilzo con gli occhiali s’era piegato in due per invitare Antonia a ballare. Non valevano granché come ballerini, sebbene ce la mettessero tutta per ben comparire.

    Troppo impegnati a non pestarsi i piedi non potevano che scambiarsi dei monosillabi. Il giovanotto si chiamava Oscar ed era commesso di farmacia. Si presentò allorché un fox-trot più veloce li mise a dura prova e finirono col riparare ansanti nel vano di una finestra.

    Io la conosco di vista, signorina, lei va sempre di fretta.

    Di fretta? Non me ne accorgo.

    Non guarda le vetrine, eccetto quella del libraio.

    È vero, mi piace leggere.

    Sua cugina invece preferisce la vetrina della profumeria di via Paggi.

    Che impiccione! Con un’occhiata fiera gli aveva tolto la parola ed era filata in cucina a dare una mano alla padrona di casa, che nella confusione, non sapeva dove posare un vassoio di bicchieri sporchi.

    Perché mai avrebbe dovuto confrontarsi con Neera? si domandò Antonia tornando sui suoi passi, incurante della vampa del sole.

    Se erano in molti ad ammirarla – gli uomini per la sua bellezza vistosa, le donne per fingersi moderne – lei non poteva che considerarla tutta apparenza e niente sostanza, come diceva sua nonna.

    Da sua cugina riceveva saltuariamente cartoline e biglietti postali da paesi d’oltreoceano. Le scriveva che era felice e sperava che lei avesse superato i suoi crucci.

    A causa dei suoi continui spostamenti non poteva risponderle. Tanto meglio. C’era già il suo appartamento a ricordargliela, arredato con un gusto ibrido che non era il suo.

    Abbondavano le cineserie, i fiori finti, i cuscini, i ventagli sotto vetro, posacenere d’ogni foggia e siepi di fotografie dove Neera era ritratta in atteggiamenti da diva.

    Nella camera di Antonia sopra il tetto dell’armadio c’erano due valigie di fibra che, prima o poi, si sarebbero riempite dei suoi indumenti. Si riprometteva di tornare in autunno a Castelpoggio, confidando che l’intervallo cittadino l’avrebbe resa abbastanza forte per affrontare con più spirito luoghi e facce.

    Sua madre nelle lettere non faceva ancora cenno a questa eventualità. Quando i suoi genitori erano venuti a trovarla si erano mostrati soddisfatti della sistemazione. Che la figlia avesse trovato un lavoro dignitoso con cui occupava le giornate costituiva un titolo di merito. In ogni modo l’importo del loro vaglia mensile non sarebbe stato ritoccato, considerando la somma modesta dei suoi introiti.

    Antonia fece una bracciata dei panni, ormai asciutti, e si avviò verso la scala per discendere.

    Capitolo 2

    Due giorni di pioggia, sottile come filigrana, avevano attenuato l’afa. Col ritorno del sole le bambine avevano ripreso a giocare in terrazza.

    Seduta sulla sedia di Vienna, accanto ai vetri spalancati della saletta, Antonia infilava un punto dietro l’altro sugli aghi da calza che si muovevano veloci.

    La lana era color ruggine a tre capi; il gomitolo saltellava nel suo grembo man mano che l’indice sudaticcio tirava il filo.

    Ogni tanto Antonia si fermava, contava i punti facendoli scorrere sul ferro, oppure lo alzava per esaminare la compattezza della trama in controluce.

    Fra una settimana circa avrebbe terminato il pullover a punto treccia per la signora Corsani, che contava di regalarlo al nipote di ritorno dal servizio militare.

    Un lavoro extra, dato che la signora in questione abitava sul suo pianerottolo e rivolgendosi direttamente a lei, aveva risparmiata almeno venti lire sul prezzo del negozio, facendone guadagnare dieci di più alla solerte magliaia.

    Non che Antonia avesse problemi economici, per carità, era una ragazza di modeste esigenze. Al massimo si comprava un foulard, un paio di calze di seta o una scatola di cipria; e naturalmente qualche romanzo della Delly e della Glyn, da leggere la sera per popolare il sonno di sogni romantici che sfumavano alle prime luci dell’alba.

    Sulle pagine di Clandestini dell’anima e Dell’infedele ci tornava spesso, immedesimandosi negli amori contrastati delle protagoniste e non mancava mai di sciogliersi in pianto, allorché le storie arrivavano al lieto fine.

    Persisteva in lei il senso precario di una condizione che riteneva transitoria, sebbene non riuscisse ad immaginarne una più stabile per il futuro.

    Rintuzzava di proposito il rimpianto per il suo breve passato, rilevandone i lati negativi di cui non era responsabile, come i pregiudizi familiari, le chiusure mentali del piccolo mondo provinciale, che probabilmente avevano contribuito a renderla introversa e remissiva, nonché troppo fiduciosa nei confronti di colui che aveva tanto amato.

    Si perdeva in quelle analisi con rabbia e tristezza, condannava o assolveva a seconda dell’umore, proponendosi rivincite fantasiose al ritmo incessante dei ferri da calza.

    E per conciliarsi con se stessa rievocava l’infanzia, per esempio quando bambina protendeva gli avambracci cinti da una matassa di lana, e osservava incuriosita sua madre che speditamente la dipanava.

    Il gomitolo aumentava di volume fino a diventare una palla soffice tra le mani adulte e allora lei immaginava che, così rotondo e colorato, rimbalzasse nell’aria e poi si librasse in volo e scomparisse nel cielo.

    Un gioco dunque per la figlia, ma un’attività lucrosa per la madre, che al banco della merceria ci lasciava il marito, preferendo appartarsi a sferruzzare con Mani di Fata sulle ginocchia.

    Le clienti commissionavano corredini per neonati e capi vari, qualcuna più volonterosa comprava la lana e cercava d’imparare i punti semplici, ma a metà dell’opera, si inceppava e pagava l’esperta perché rimediasse.

    Antonia intanto procedeva stentatamente negli studi tra ripetizioni ed esami di riparazione, finché dopo la quarta magistrale aveva detto addio alla scuola. Suo padre c’era rimasto male, ci teneva ad una figlia maestra.

    Per sua madre la delusione era stata minore. La bottega rendeva bene e due braccia in più, per giunta di famiglia, costituivano un valido aiuto.

    Antonia subito non si era resa conto che vendere nastri, bottoni e cotonine per otto o nove ore al giorno non era il modo migliore per impiegare l’adolescenza, ma ormai non poteva più tirarsi indietro. Per giunta sua madre, nei tempi morti, le insegnava l’arte del lavoro a maglia, soddisfatta che lei dimostrasse una discreta versatilità nell’apprendimento.

    Pertanto non le restavano che le domeniche e le feste comandate per il cinematografo e qualche gita in campagna.

    Al luna park, che allestivano sempre a Noceto, un paese poco distante da Castelpoggio, c’era andata con le amiche per la ricorrenza di San Giovanni Battista. Era il 24 giugno del ‘30, un giorno che non avrebbe più scordato.

    S’erano divertite un mondo e avevano speso gli ultimi centesimi per una cascata di zucchero filato che mangiavano ridendo e sgomitando tra la folla. D’un tratto a causa della baraonda si erano perse di vista.

    Antonia s’era trovata vicino a un banco di tiro a segno, dove un giovane bruno aveva appena centrato con un colpo di fucile il cartone che fungeva da bersaglio. Qui le era sfuggita un’esclamazione di meraviglia, soffocata subito in una boccata della candida golosità che teneva in mano.

    Il campione s’era girato a guardarla con un sorriso smagliante sotto i baffetti scuri, poi le aveva toccato il naso con un dito e l’aveva ritirato bianco di zucchero.

    Mangi anche con il naso?.

    Antonia avrebbe voluto sprofondare dinnanzi a quegli occhi irridenti di un grigio cangiante; rossa e confusa aveva fatto l’atto di filarsela, ma l’altro sempre con quel sorriso fermo sulle labbra carnose l’aveva trattenuta: Io ti conosco, sai, ti chiami Antonia.

    Io invece non so chi sei gli aveva mentito stupidamente.

    Sono Silvano, il figlio della sarta Perego che è vostra cliente.

    Quindi s’era voltato per prendere il cane di pezza che gli toccava in premio.

    Te lo regalo, mi hai portato fortuna.

    Lei non voleva accettarlo, poi vinta dalla sua insistenza l’aveva preso e con un grazie a fior di labbra era scappata via.

    Le amiche l’aspettavano all’uscita, già in sella alle biciclette.

    Chi ti ha dato quel cane?.

    Clark Gable aveva risposto trafelata.

    Quelle avevano capito a volo, era d’uso tra loro indicare col nome di un attore chi aveva il pregio, anche lontanamente di somigliargli. Davvero hai incontrato Silvano Perego?.

    Sì, l’ho incontrato.

    E per tutto il percorso tra una pedalata e l’altra, avevano celebrato a turno il bel Silvano; in paese non c’era ragazza che non se lo mangiasse con gli occhi.

    La sera prima di addormentarsi Antonia aveva guardato il cane di pezza che si doppiava nello specchio del comò. E siccome aveva appena compiuto sedici anni, gli aveva dato un significato che andava oltre il dono casuale fatto ad una ragazzina.

    Uno strillare improvviso, seguito da un correre per le scale, sbandò i ricordi di Antonia.

    Riconobbe la vocina di Stella, dunque chi strillava doveva essere Rita.

    S’avviò in ingresso e si sporse nella fessura dell’uscio.

    Stella pigiava il dito sul campanello della porta e agitatissima la colpiva a calci perché non s’apriva.

    Rita, sul limitare del ballatoio, si teneva una mano sugli occhi e singhiozzava.

    Non ci vedo più, mi hai accecata.

    Mamma, mamma… gridava invano Stella, seguitando a prendersela con la porta chiusa.

    Non c’è, non c’è, vuoi capire, scema? Andiamo giù da me... e così dicendo Rita discese

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