L'inganno del tempo: Enigmi in spiaggia a Imperia
Di Ugo Moriano
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Info su questo ebook
Ugo Moriano è nato a Imperia nel 1959 e vive con la propria famiglia a Diano Marina in provincia di Imperia. L’amore per la lettura e l’interesse per la storia lo accompagnano fin dalla più giovane età. Esordisce nel mondo della carta stampata con il romanzo giallo: Il ricordo ti può uccidere a cui fanno seguito L’Alpino disperso (2009), A Sanremo si gioca sporco (2010), Sospetti dal passato (2011), L’arte del delitto (2012), L’Inganno del tempo (2014) 1° classificato al Premio Internazionale Montefiore, Antiche amicizie (2015) e Radici lontane (2016) pubblicati da Fratelli Frilli Editori. Nel 2011 è stato pubblicato Arnisan il longobardo. Nel 2012 L’ultimo sogno longobardo vincitore del 61° premio Selezione Bancarella 2013. Nel 2013 Il diamante di Kindanost, terzo classificato al Premio Internazionale di Cattolica. Nel 2014 Gnorff & Lenst. Nel 2015 Sangue longobardo. Nel dicembre del 2009 vede la luce anche il suo racconto gotico Il Ritorno e nella primavera del 2010, sul sito della biblioteca di Diano Marina, viene pubblicato il link ad un suo racconto umoristico intitolato La vera storia della scoperta del fuoco. È componente della giuria del Premio Città di Cattolica 2016.
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Anteprima del libro
L'inganno del tempo - Ugo Moriano
Capitolo 1
20 luglio
Sapore di terra
Le note finali del quintetto in do maggiore, La musica notturna delle strade di Madrid, di Boccherini, risuonavano nei saloni del piano rialzato della villa e, come da consuetudine, quella sarebbe stata l’ultima interpretazione dei quindici elementi dell’Orchestra Sinfonica di Sanremo invitati per l’occasione a esibirsi. Al termine i componenti di una delle più prestigiose realtà musicali italiane si sarebbero congedati e con loro avrebbero lasciato la villa tutti gli ospiti che non erano stati alloggiati nelle camere al terzo piano.
Andrea Giovanni Maraliano Sperrone Borvento, rampollo di un’antica e nobile famiglia ligure, aveva salutato amici e conoscenti e augurato la buona notte alla padrona di casa. Precedendo gli altri invitati aveva raggiunto il guardaroba, un locale accanto all’ingresso adibito a tale scopo quando in villa giungevano degli ospiti, per farsi riconsegnare il leggero soprabito lasciato in custodia alcune ore prima.
La ragazza presa a servizio per quella sera, bruna e poco più che ventenne, appena lo vide attraversare le due grandi porte vetrate che separavano l’ingresso dai saloni retrostanti, gli rivolse un sorriso quasi complice, come se il fatto che lui se la fosse portata a letto alcuni mesi prima stabilisse tra loro una sorta di intimità.
La sua disponibilità venne subito gelata dallo sguardo di lui e questo la spinse a voltarsi per cercare, tra i vari capi conservati sugli appositi attaccapanni di legno, quello da riconsegnare al signore in piedi davanti al mobile su ruote che, per l’occasione, fungeva da banco su cui appoggiare soprabiti e giacche.
Giovanni, perché quello era il nome con il quale veniva chiamato dai familiari e dagli amici più intimi, posò distrattamente lo sguardo sul fondoschiena della ragazza, fasciato dall’aderente gonna nera della divisa. Di lei non ricordava neppure più il nome, poi ingannò la breve attesa osservandosi nel grande specchio antistante.
Aveva 36 anni e da tempo aveva raggiunto quell’età che le donne, soprattutto se madri di giovani rampolle, ritenevano perfetta, per un figlio della buona società, per convolare a nozze e così, due anni prima, si era fidanzato con Maria Luisa Favegna, figlia primogenita di una ricca famiglia discendente, a loro dire, da una casata decaduta della nobiltà genovese. I futuri suoceri, nonostante avessero ricostruito minuziosamente tutto il loro albero genealogico per dimostrare la propria ascendenza, non venivano mai invitati alle riservatissime serate nella villa di Bordighera, posta al centro di un grande parco sul confine con Ospedaletti. Solo lui poteva aprir loro le porte d’accesso sposando una delle figlie.
La ragazza del guardaroba stava tardando nel consegnargli il soprabito, ma Giovanni decise di ignorarla e si concentrò su quanto vedeva riflesso nello specchio. Alto un metro e settantacinque con un corpo ben modellato da attività sportive come il nuoto, il tennis e l’equitazione, portava lo smoking con la naturale eleganza di coloro che da sempre erano abituati a indossarlo e il capo di abbigliamento, con la giacca a monopetto e pantaloni con il gallone di raso nero, valorizzava la sua figura al punto che si poteva pensare che fosse stato inventato per lui. Folti capelli castani, occhi azzurri e denti perfetti completavano la sua immagine di uomo abituato ad ottenere tutto dalla vita.
In realtà un piccolo neo offuscava la perfezione del suo vivere mondano ed era dovuto alle sue finanze. Molti sicuramente lo avrebbero potuto definire ricco perché non aveva bisogno di lavorare e poteva permettersi auto lussuose e vestiti firmati da noti stilisti, ma nel mondo che contava realmente, le sue sostanze non erano ritenute così rilevanti. Questo non gli impediva di restare nella cerchia dei grandi nomi, ma se nulla fosse cambiato, non avrebbe mai potuto aspirare a diventarne uno dei punti di riferimento.
La villa in cui Giovanni aveva appena trascorso la serata apparteneva alla Contessa Beatrice Alessandra Sanazaro Melzo Gambarra, un’anziana nobildonna lombarda a capo di un immenso impero finanziario internazionale poco appariscente, le cui complete diramazioni erano note solo ad un famoso studio legale di Ginevra.
La donna, dopo essere rimasta vedova, undici anni prima si era trasferita stabilmente nella villa in provincia di Imperia e qui viveva una vita appartata, ma non separata dalle vicende del mondo che continuava a seguire e a influenzare, soprattutto in Italia, tramite le sue conoscenze.
Partecipare alle sue rare cene era un privilegio concesso a pochi e chi riceveva l’invito disdiceva qualsiasi altro appuntamento mondano o di lavoro perché quel semplice cartoncino color crema privo di alcun monogramma, con sopra poche parole vergate a mano, rappresentava il segno dell’appartenenza a una ristretta casta in cui si poteva solo essere cooptati.
La dimora principale era disposta su tre piani.
Il piano rialzato, quello di rappresentanza, era arredato con preziosi mobili d’epoca tra i quali spiccavano una comode in radica appartenuta a Luigi XV, antichi orologi a pendolo, vasi cinesi e tre splendidi mobili Bull francesi.
Il secondo piano era utilizzato dalla nobildonna e dai suoi familiari più stretti, il terzo era composto da sei camere, ognuna con servizi, in cui venivano alloggiati i privilegiati che rimanevano ospiti anche durante la notte.
Il nome della casa era Villa del Mare
perché così la chiamava, quando era ancora una bambina, una delle figlie della contessa purtroppo poi morta alla soglia dei quindici anni e, pertanto, quello era diventato il nome della dimora in Riviera.
All’interno come all’esterno le tinte dominanti, anzi uniche, erano delle sfumature del color avorio. Pareti, finestre, porte e perfino marmi, avevano quel colore. Solo il grande scalone di accesso al colonnato che proteggeva la porta d’ingresso era stato costruito interamente con marmo rosa di Carrara.
Un grande parco di pini marittimi e palme, intervallato da prati all’inglese e siepi, circondava la costruzione separandola dal resto del mondo esterno. Tra i viali che l’attraversavano venivano parcheggiate le vetture degli ospiti posizionate in modo da non essere viste da chi si fosse affacciato dalle finestre e sui terrazzi della villa.
La serata di Giovanni era stata perfetta sotto ogni aspetto. Si era mosso con disinvoltura tra gli invitati e da tutti era stato trattato con la giusta confidenza che si confaceva a quei ricevimenti.
La cena con insalata di granchi, filetto di bue ai funghi, patate alla parigina, asparagi alla milanese, crêpes Alaska, fu come sempre all’altezza di quella dimora e i due vini italiani, Soave e Chianti Classico, seguiti dallo Champagne, provenivano direttamente dalle fornite cantine della padrona di casa. Le portate erano servite in tavola, su piatti di manifattura di Sèvres, da ragazze accuratamente selezionate dalla cuoca di casa tra gli abitanti del luogo e quasi sempre erano le figlie delle donne che, magari uno o due decenni prima, erano state a loro volta assunte in servizio in occasione di altrettante serate mondane.
Dopo cena gli uomini si erano ritirati in terrazza a godersi la tiepida brezza proveniente dal mare, mentre il personale addetto al servizio passava tra loro offrendo sigari cubani e Cognac Fine Champagne. Le signore rimanevano all’interno del salone a scambiarsi complimenti e pettegolezzi.
In quei momenti di relax dopo la cena, Giovanni era riuscito a lasciare la terrazza e a salire, senza essere scorto, sul solarium che occupava tutto il tetto della villa. Ad attenderlo c’era Maria Teresa Sanazaro Melzo Gambarra, nipote prediletta della nonna Beatrice. La ragazza aveva da poco compiuto vent’anni e, a parte la nonna a cui nulla sfuggiva e la madre che sicuramente non poteva non sapere, tutti la credevano ancora vergine. In realtà la giovane era una vera furia assetata di sesso e quell’estate era lui a godere delle sue attenzioni.
Dopo aver lasciato il piano terra ed aver salito le rampe dello scalone principale, non fece in tempo a entrare in terrazza che lei gli si buttò tra le braccia sul piccolo pianerottolo dove si aprivano anche le porte dell’ascensore interno. Giovanni dovette lottare con forza per riuscire a trasportarla, praticamente di peso, in un angolo più appartato del solarium dove, finalmente, poté lasciarla sfogare.
Fu sesso furioso, come sempre capitava con Maria Teresa, e dovette quasi difendersi per impedirle di graffiarlo, cosa che lei amava fare perché diceva di voler marchiare
i propri amanti.
Se lui non fosse stato impegnato, l’avrebbe lasciata fare perché pure lui, nella foga dell’amplesso, non disdegnava una certa dose di brutalità, ma non poteva rischiare di allontanarsi dalla villa con i segni delle unghie di Maria Teresa.
Nei giorni successivi avrebbe potuto ingannare Maria Luisa, la sua fidanzata, perché era una ragazza assolutamente fiduciosa, ma non Elisabetta, la sua futura cognata con cui andava a letto da oltre un anno. Lei, conoscendo bene la sua tendenza a tradire senza alcun rimorso, era estremamente possessiva e se avesse visto i graffi della nipote di Beatrice, gli avrebbe fatto una scenata monumentale.
Con una buona dose di fortuna e di abilità, riuscì a tenere lontane dalla sua schiena e dal suo petto le unghie di Maria Teresa e pertanto il giorno successivo si sarebbe potuto tranquillamente sottoporre all’ispezione dell’occhio attento della sua futura cognata.
Sapeva di dover fare attenzione ancora per un mese o al massimo due, poi tutto si sarebbe risolto e non avrebbe più dovuto usare precauzioni.
Improvvisamente fu sopraffatto da un disperato senso di angoscia e intorno a sé sentì forte l’odore della terra, tiepido, avvolgente, quasi soffocante.
– Il suo soprabito, Signore. – Disse la guardarobiera porgendoglielo e sottolineando con tono acido la parola Signore
.
– Grazie.
Giovanni fece per allungare il braccio verso la donna, ma non appena provò a muoverlo, un dolore lancinante gli attraversò la spalla destra e il torace, quasi come se qualcuno o qualcosa gli avesse afferrato l’arto e glielo stesse letteralmente disarticolando.
Il respiro gli si mozzò in gola e l’improvvisa sofferenza gli fece inarcare la testa scatenando un nuovo martirio. Qualcosa gli stava sfondando le ossa del cranio, forse qualcuno lo aveva appena colpito con uno dei pesanti candelabri o con una spranga di ferro. Cercò di urlare e di voltarsi verso la fonte del suo tormento, ma tutto divenne buio.
Capitolo 2
21 luglio
Elena Bonfanti era consapevole dell’impazienza di Angelo, se non altro perché lui le aveva appena chiesto per la seconda volta se era pronta
; i maschi fanno presto a prepararsi per andare in spiaggia: si infilano un paio di boxer e indossano una maglietta, eventualmente afferrano un asciugamano e con questi pochi semplici gesti hanno risolto ogni loro problema, ma per una donna è tutto diverso e se per di più deve presentarsi al cospetto di un certo numero di altre bagnanti, la cosa diventa ancor più complicata.
Anche se sentiva il suo compagno passeggiare nel corridoio fuori dalla porta, decise di fare un’ultima verifica generale e non resistette alla tentazione di dare ancora due colpi di spazzola ai suoi lunghi capelli corvini perché li considerava il suo punto di forza.
Alla soglia dei quarant’anni, sicuramente era una donna molto piacente, la pelle ancora levigata, le sue forme morbide e il suo seno prosperoso suscitavano l’attenzione dei rappresentanti dell’altro sesso.
Per quella loro prima sortita in spiaggia aveva scelto un costume turchese decorato con arabeschi damascati bianchi. Valutò ancora una volta con occhio critico la quantità di pelle che restava coperta e pensò che anche per un puritano, come alle volte sapeva essere Angelo, poteva andare bene. Lei da ragazza aveva indossato bikini ridottissimi, ma da qualche anno aveva optato per dei due pezzi
leggermente più castigati.
Bisogna saper capire quando è il momento di osare un po’ meno, soprattutto quando si rischia di andare a finire in competizione con donne ben più giovani e agguerrite
.
Immediatamente si vide davanti agli occhi l’immagine di Noemi, la collega del suo compagno, come l’aveva vista in spiaggia l’anno precedente.
Era stata una delle poche volte in cui Elena e Angelo erano andati al mare a Borgo Foce di Porto Maurizio e avevano trascorso meno di un’ora al sole quando, dopo una telefonata legata al lavoro seguita da un improvvido invito di Angelo, lei li aveva raggiunti.
Trentatré anni, con un fisico da modella, alta oltre un metro e settantacinque, capelli castani molto chiari,