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Erano due bravi ragazzi
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E-book442 pagine4 ore

Erano due bravi ragazzi

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Info su questo ebook

«Un viaggio all’inferno senza ritorno.»
Giancarlo De Cataldo

Una storia di camorra

Fabrizio appartiene alla Napoli bene, è figlio di un medico molto noto. Andrea invece viene da Miano, un quartiere di periferia, dove la camorra la fa da padrone.
S’incontrano per caso a una festa e quell’incontro segna l’inizio e la fine di tutto. Perché i due, pur così diversi, si piacciono, e quando Fabrizio, seguendo Andrea, si trova coinvolto in un duplice omicidio, invece di scappare subisce il fascino di quel che non conosce. E la scalata ai vertici della criminalità è breve: Fabrizio e Andrea conquistano la fiducia di Totonno, il boss di Miano, e cominciano a lavorare per lui. Ma sono giovani, quel che hanno non gli basta: puntano più in alto e convincono Totonno a fare affari coi cartelli messicani. All’inizio tutto procede bene, poi, lentamente, qualcosa nel meccanismo che hanno messo a punto s’inceppa. Sequestri di droga, denunce sui giornali, morti scomode ed ecco che il sodalizio col boss si spezza. E la vendetta, quella più crudele, si scatena…

Nella Napoli dove la malavita detta legge, bisogna accettare le sue regole se si vuole emergere. 
Fabrizio e Andrea sono giovani e per conquistare il mondo sono disposti a tutto. Anche a diventare due criminali...

«Un viaggio all’inferno senza ritorno. Erano due bravi ragazzi non è solo un’altra storia di malavita.»
Giancarlo De Cataldo
Mattia Giuramento
Pugliese di nascita e di elezione, vive a Bisceglie – dove abitano moglie e  figli – ogni volta che può, ma lavora a Roma ogni volta che deve. Giornalista a Sky Tg24, legge da sempre moltissimo.
Emiliano Scalia
Romano, legato a Napoli dall’amore. Sua moglie è del quartiere Chiaia, ma lavora con lui nella redazione di Sky Tg24. Giornalista, fotografo, quattro figli e tanti libri. Una vita impegnativa.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2016
ISBN9788854196193
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    Anteprima del libro

    Erano due bravi ragazzi - Mattia Giuramento

    Prologo

    A Napoli c’è un posto che sembra Medellín. È un ingorgo di vicoli alle spalle del palazzo col murale di Maradona. Patrizia Caruano abita in uno di quei vicoli.

    Alle tre Patrizia esce di casa. Ha in mano una busta da lettere. Bianca, comune. Attraversa i vicoli deserti nella controra, rallenta appena davanti all’edicola di un santo e poi avanti a testa bassa, quasi correndo. Arriva davanti a un portone di ferro battuto e legno massiccio. C’è un uomo, immobile. È talmente grosso e scuro che si confonde con il portone. Deve averla riconosciuta perché fa un leggerissimo cenno col mento quando Patrizia gli scivola accanto, nell’unico spazio possibile tra lui e il portone, ed entra nel grande atrio del palazzo. In mano ha sempre la busta. Sale l’altissima scalinata circolare del palazzo, attraverso una scia di odori di pranzi che si rincorrono, e si ferma all’ultimo piano. In cima all’ultimo gradino ci sono due ragazzi. Avranno la sua età, ma il loro sguardo è diverso, e dal rigonfiamento sotto il giubbotto Patrizia capisce che è meglio non scoprire in che cosa consista la differenza. I due aprono il passaggio con un movimento sincronizzato, come un sipario, e Patrizia entra in casa. Conosce la strada, perché attraversa il lungo corridoio buio e raggiunge la cucina. Seduto dietro al tavolo da pranzo c’è un uomo. Ha sessant’anni, ma negli occhi cova un fuoco da trentenne. Patrizia mormora un timido ciao. L’uomo continua a mangiare, poi si pulisce la bocca con un tovagliolo e le fa cenno di avvicinarsi. Qualcuno col cuore bendisposto potrebbe scambiare quella fessura sul volto per un sorriso. Patrizia fa due passi e poggia la busta sul tavolo. L’uomo la prende e la apre. Dentro c’è un biglietto scritto a mano. Lo legge, poi fa cadere la busta sul tavolo e si appoggia allo schienale della sedia. Resta così per un po’ e Patrizia rimane in piedi di fronte a lui. Immobile, aspettando una parola. Quella parola dopo un po’ arriva. L’uomo si alza in piedi, la guarda negli occhi mentre lo sguardo attraversa lei e tutta Napoli e a mezza bocca dice soltanto: «Vabbuó».

    Prima parte

    Al mondo non c’è nulla di stabile,

    il tumulto è la vostra sola musica.

    John Keats

    Non c’è peccato di uomo che altro uomo

    non possa commettere.

    Sant’Agostino, Le confessioni

    Qualche tempo prima

    Quello che bagna Napoli è un mare lurido. Eppure, da aprile a settembre inoltrato, migliaia di persone scendono dai vicoli di Mergellina e dei Quartieri, arrivano da Fuorigrotta e da Forcella per fare il bagno a Mappatella Beach o lido Mappatella, una lingua di sabbia lunga ottanta metri e profonda trenta a ridosso di via Caracciolo e a cento metri dall’approdo degli aliscafi che partono per Ischia, Procida e Capri. Lo specchio d’acqua nel quale s’immergono diventa rapidamente una fanghiglia schifosa, i bambini si rincorrono e strepitano parole che pochi, anche in quella folla, riescono a capire. Ombrelloni e teli da mare coprono per intero la spiaggia, non si vede un granello di sabbia. Sono tutti abbronzatissimi e unti di Nivea. L’odore si sente a decine di metri di distanza, amplificato dalla cappa di calore che strangola la città. Parlano ad alta voce, alcuni cantano con le cuffie degli smartphone e degli iPod nelle orecchie, altri litigano. Ma tutti sono felicissimi di essere lì.

    Gli uomini più giovani indossano slip da bagno bianchi che contrastano con il marrone della pelle, le ragazze scelgono costumi a due pezzi fluorescenti gialli, rosa, azzurri.

    Una famiglia di sei persone arranca dalla strada verso la spiaggia. Sono tutti obesi e hanno sguardi duri, che parlano di miseria e violenza. Anche il più piccolo dei bambini, che non supera i sette anni, si guarda intorno con un’aria che non appartiene alla sua età.

    Fabrizio de Julio non riesce a capacitarsi di come alcuni napoletani siano in grado di campare in quel modo, rassegnati a fare quella vita di merda. Appena hanno la possibilità di uscire dalle case che puzzano di fritto e dai vicoli dove passano gran parte della loro esistenza, lo fanno, ma il loro cammino si ferma a Mappatella Beach. Almeno d’estate.

    Il cammino di Fabrizio, invece, è molto più lungo.

    Fabrizio ha ventisei anni. È silenzioso. Non ama le apparenze, al contrario di quelli che frequenta. Legge, si è diplomato col massimo dei voti nel migliore liceo classico della città ed è stato con la stessa ragazza per quattro lunghi anni. È un tipo tranquillo che non ha mai creato problemi a nessuno. Però è indeciso. Non sa che cosa vuole fare della sua vita. Si è iscritto a Medicina più per fare un piacere al padre che per convinzione.

    Gianni de Julio è un ortopedico tra i migliori del sud Italia. Ha studiato negli Stati Uniti, e quando è tornato a Napoli ha sposato Ludovica Carafa della Stadera. Insomma, ha sposato la storia della città. Si è costruito una posizione mentre la moglie lo introduceva nell’ambiente della Napoli che conta: snob e raffinato. E ora il suo giro di conoscenze private e professionali gli garantisce un reddito di circa due milioni di euro l’anno.

    La famiglia della moglie è stata così gentile da lasciare a Ludovica due appartamenti a Napoli, una villa a Capri, una a Formentera e un grazioso cottage a Crans-Montana. Lei, nel frattempo, si è laureata in Filosofia. Ha insegnato per qualche anno alla Federico ii. Il tempo di sfornare il primo figlio e Ludovica è tornata a casa, per non rientrare più a lavorare.

    Fabrizio non ha un gran rapporto con i genitori. Anzi, ha sempre cercato di rendersi il più autonomo possibile. Primi lavoretti estivi a quindici anni in qualche bar o ristorante delle località di vacanza, nessuna confidenza con il padre e poca con la madre. Meno ancora con il fratello Arturo, che è il simbolo della classe sociale a cui appartiene. Porsche Cayenne nera, una bionda o una mora sul sedile a seconda della serata, cocaina nella tasca interna della giacca. E un giro di amici vorticoso, un turbine superficiale di locali pieni e bicchieri svuotati.

    Con Arturo condivide solo i pranzi di famiglia e la noia del salotto dei genitori. Ma proprio in un giorno di noia Fabrizio comincia a osservare un po’ meglio il fratello. In lui vede possibilità, ancora acerbe, ancora sfocate. Ancora non è pronto, non è ancora il momento. È ancora presto.

    È già tardi quando Andrea Imbriani esce dalla stazione della metro a via Toledo e si scontra con il traffico di vite di Napoli. Aveva un appuntamento in un bar ma ormai sarà saltato, pensa, guardando il display nero del cellulare scarico. È accaldato, odia sentire il sudore sotto la camicia bianca e allora si ferma. E osserva.

    Mercedes e Cinquecento che si tagliano la strada schivando scooter carichi come risciò, vecchie con le buste della spesa che arrancano tra marciapiedi interrotti e sacchi di immondizia, bancarelle improvvisate da cui partono le urla da comizio degli ambulanti, professionisti veri e finti che si nascondono dietro cravatte appariscenti, vetrine che sparano merci impolverate. Napoli corre sotto il suo cielo chiaro come il mare, arrostita da un sole da cartolina.

    La stazione della metro di via Toledo ha vinto un premio come Costruzione dell’anno e, nelle intenzioni di chi l’ha voluta, progettata e costruita, doveva essere uno dei motori che avrebbero consentito a Napoli di rinascere. Come tutto quello che la riguarda, Napoli se ne è fregata altamente e ha continuato a farsi scivolare addosso vita e morte di alcune centinaia di migliaia di persone. Andrea tutto questo non lo sa. Arriva da Miano. È uno dei quartieri a nord della città, tra i tre con il più alto tasso camorristico. Confina con Scampia e Secondigliano e chi vive lì sicuramente non lo ha deciso. Così come non ha deciso di guardarsi attorno ogni volta che esce di casa.

    Andrea tra poco compirà ventotto anni e si è rotto il cazzo di osservare, di stare a guardare. Ha deciso che è ora di mettersi in movimento.

    La macchina è enorme, e non si capisce come riesca a passare attraverso quei vicoli così stretti. A Monte di Dio, in genere, le macchine così non entrano. Perché non c’è spazio. Il Cayenne, invece, si fa avanti con aria sfrontata. Dopo una serie infinita di svolte, arriva di fronte a un portone di vico Santo Spirito. Due, tre manovre e riesce a entrare nel cortile di un palazzo del Seicento. Nell’androne c’è un uomo, seduto su una sedia di legno. Guarda la televisione fuori dalla porta del basso dove vive. Gli ultimi raggi di sole, insieme alla luce dello schermo, gli illuminano la testa in modo grottesco, facendolo assomigliare a Mickey, il fratello di Adriana in Rocky.

    «Don Pa’, vi dispiace se lascio la macchina qui?». Il conducente, per parlare al portiere, ha abbassato il finestrino dalla parte del passeggero. Ed era del tutto evidente che la macchina doveva rimanere lì. Riportarla fuori sarebbe stato un lavoro troppo lungo.

    «E dove sta il problema? Lasciate le chiavi nel cruscotto, così se c’è bisogno la sposto io».

    La macchina sfila per altri dieci metri. Scendono in due. Alti, magri, sicuri di sé. Il più grande ha un’andatura un po’ strafottente, gli occhi allegri di chi è abituato a vivere senza affanni. Il secondo è più circospetto. Sospettoso.

    «Grazie, don Pa’. Salutatemi a Rosa», dice quello che guidava mentre gli allunga discretamente venti euro. La garanzia che, qualche ora più tardi, l’auto sarà stata girata nel verso giusto.

    «Grazie a voi, dottó».

    I due salgono le scale. Arrivati al terzo piano, suonano a un campanello. La musica si sente. Si sentono anche le voci dei partecipanti alla festa che si sta tenendo all’interno della casa. Chiassose, eccitate. Il più vecchio dei due dà un’occhiata di sbieco all’altro, che aspetta. Ad aprire è una ragazza splendida. Massimo venti anni, bionda, alta e con due tette da urlo. Spalanca gli occhi, la bocca si piega in un sorriso e strilla: «Arturo!», buttando le braccia al collo a uno dei due nuovi arrivati.

    «Sono stanco», pensa Andrea mentre stringe il collo di una bottiglia di Heineken. È appoggiato al muro di un palazzo e aspetta: ha un altro appuntamento, ma questa volta è in anticipo. È stata una giornata persa, finora, e lui non può permettersi di perdere neanche un minuto. Da quell’appuntamento dovrà uscire con qualcosa in mano. Questa continua rincorsa lo stanca, si rende conto che è arrivato il momento di cambiare, di inventarsi qualcosa. Ne dovrà parlare con Gaetano, ma quello c’ha sempre da fare, sta sempre in giro, mo’ si crede il padreterno. Beve un altro paio di sorsi di birra e si dice che ormai ha deciso: se chiude l’affare di stasera, troverà il modo di affrontarlo. In quel momento arriva una macchina nera e si ferma a due passi da lui. Andrea appoggia la birra su un cornicione e si avvicina al finestrino.

    «Sali», dice una voce da dentro.

    Sul sedile posteriore c’è un odore di selvatico, ma non fa in tempo a ragionarci su perché la macchina parte sgommando mentre alla radio passa la voce dei Frankie Goes to Hollywood.

    Hollywood, Babilonia è la scritta che campeggia all’ingresso. Rossa su fondo blu. All’interno Fabrizio sorseggia un mojito troppo dolce chiacchierando con un tizio del quale non ricorda nemmeno il nome. È distratto. Quel posto è pieno di gente che conosce ma con la quale non ha nessun rapporto. Si è lasciato convincere ad andare. Aveva voglia di smettere di rimuginare. In effetti è troppo tempo che non fa altro che pensare a se stesso e alla sua vita. Arturo è indaffarato con la bionda, che si chiama Martina, è entusiasta di vederlo e non fa nulla per nasconderlo. Fabrizio pensa a suo fratello come a una nave che procede senza intoppi su un mare tranquillo. È elementare, Arturo. Niente pensieri, niente preoccupazioni. Solo fica, soldi, divertimento. Fabrizio riporta la sua attenzione sul tipo di fronte a lui, e tutto a un tratto sente montare una voglia incontrollabile di far sanguinare quella faccia da ebete. Sputa mentre parla, quel coglione. Fabrizio gira le spalle all’improvviso e se ne va, lasciandolo a blaterare in perfetta solitudine. Sta pensando di tornare verso casa a piedi. La serata è dolce, non fa troppo caldo e la brezza che viene dal mare è stuzzicante. Saluta un paio di persone, cerca il fratello per congedarsi. Non lo trova e si avvia verso la porta. Lo ferma il suono del campanello. La padrona di casa apre la porta e fa un salto all’indietro gridando per il terrore. Fabrizio fa un passo di lato, per avere libera la visuale. Sotto l’arco della porta ci sono due uomini. E fin qui niente di male. Il problema è un altro. Il problema è che uno dei due ha al guinzaglio il cane più cattivo che lui abbia mai visto.

    «Mo’ vi faccio la festa», abbaia l’uomo col guinzaglio. E ride. Una risata sguaiata, quasi un latrato. Il silenzio di ghiaccio che blocca la sala si scioglie in un brusio frastornato, come se nessuno sapesse come reagire a quell’intruso. Anzi, gli intrusi sembrano due: il cane e l’uomo col guinzaglio. Perché l’altro uomo in camicia bianca, bello, biondo e col sorriso giusto è perfettamente a suo agio in quell’ambiente. Si chiama Andrea.

    Il tizio col guinzaglio in realtà appartiene alla bella Napoli lì riunita molto più di Andrea da Miano, ma i suoi modi da spaccone, la sua voce da orco, il suo odore non sono stati mai accettati. Tollerati sì, ma solo per i suoi soldi. E di soldi De Simone ne ha tanti. Suo padre ha una catena di negozi di abbigliamento distribuiti nel salotto della città. Soldi dall’origine incerta. Come gran parte dell’oro di Napoli.

    «E come sei fresco, De Simó», urla qualcuno, ridendo, dal salotto.

    «Stronzo!», sibila Martina.

    Il cane è immobile, si limita a guardare la compagnia con i suoi occhi spenti e color del carbone. Non emette un suono. Andrea Imbriani si guarda intorno allo stesso modo, ma sul suo viso aleggia un sorriso sornione. Gli piace, quel giro. Il nulla che avvolge quelli che stanno lì lo attrae perché capisce, in qualche modo primitivo e istintivo, che il nulla è manipolabile. Che si può riempire.

    «Di nulla, figurati», risponde Fabrizio a una ragazza con le tette rifatte che lo ringrazia di un complimento. Finto come le sue tette. È stato risucchiato dal vortice di voci e pacche sulle spalle che ha rapidamente rimesso in moto il ritmo della festa.

    «Il buffet è pronto», urla qualcuno e il vortice si trasforma in lotta per la sopravvivenza. Le tartine cominciano a volare di mano in mano, rustici e vol-au-vent prendono il posto dei bicchieri di spritz e negroni, le bocche piene sostituiscono i sorrisi di maniera, senza però rinunciare a riempire l’aria di chiacchiere. Col risultato che l’aria si riempie anche di briciole sputacchiate e versi da trogolo.

    Fabrizio è fermo in un angolo, con una mano appoggiata a un sofà di broccato e l’altra che fa dondolare pigramente un martini. Strizza gli occhi davanti al tourbillon di volti trasfigurati che dovrebbe conoscere ma che invece lo confondono, lo rendono ancor più estraneo. Qualcosa lo scuote dal torpore, un’ombra che si fa immagine, definendosi ai suoi occhi e staccandosi dalla confusione: c’è un ragazzo estraneo quanto lui a quello che gli ruota intorno, stella fissa in un firmamento di comete impazzite. È l’unico che non ha un piatto in mano o qualcosa in bocca, è nell’angolo opposto della stanza e fa dondolare un bicchiere di martini.

    A Fabrizio sembra di vedersi allo specchio.

    «Specchio, specchio delle mie brame: chi è la più bella del reame?». Martina scherza civettuola mentre si lascia abbrancare da Arturo davanti a un’enorme specchiera in vetro di Murano, che domina la parete di una stanza distante dal salotto delle feste. Arturo l’ha trascinata lì con la scusa di fumare un sigaro in santa pace. Non che ci sia voluto molto. Ma la stanza ora sembra più un boudoir con i due corpi abbarbicati che ondeggiano tra strattoni e finte ritrosie.

    «Martì e bbasta, ja’, o ssaje che piense siemp’ a tte», miagola Arturo modulando un dialetto da avanspettacolo con gesti da melodramma e col suo miglior sorriso da figlio di puttana. E gli occhi di Martina si fanno subito più dolci, parole e sorriso hanno coronato il lavorio ai fianchi dell’alcool e della cocaina. La rigidità atteggiata scivola rapidamente in accoglienza da gatta, le mani di Arturo evitano quei pochi ostacoli che trovavano fino a poco prima e la camicetta di seta scivola via come un petalo svogliato.

    In un amen sono sul divanetto e le mani non si vedono più, perse come sono tra le pieghe di mutandine, reggiseno e curve voluttuose. Il mescolio dei baci e delle lingue lubrifica i brividi dei due ragazzi nella ferocia della voglia, attizzata dall’ebbrezza.

    Il divano cigola, vecchie molle sotto l’impeto della gioventù. Sussulta anche il corpo di Martina, che gode davvero, pieno di desiderio e di piacere. Accompagna con movimenti armoniosi il furore di Arturo, a ondate accoglie e respinge mentre lui artiglia e strattona.

    A spasimi alternati raggiungono un orgasmo in technicolor.

    Stravaccati sul divano, nudi e sudati, sembrano due reduci da una lotta. E in un certo senso è così. Martina ha il trucco che le cola sulla guancia come Pierrot, i capelli elettrici e un sorriso idiota. Arturo è più composto, ma ha lo sguardo allucinato.

    Sono ancora mezzo intrecciati quando si apre la porta.

    «Porta chi vuoi», gli aveva detto Martina invitandolo alla festa. Arturo, stranamente, aveva deciso di portare il fratello. E Fabrizio aveva accettato, per una volta gli era venuta voglia di mischiarsi a quei giri. Quasi un presentimento, si dice ora aprendo la porta della stanza in cerca del fratello. Non si aspetta di trovarsi davanti quello spettacolo. La ragazza è inebetita mentre Arturo giocherella con i suoi capezzoli. Dopo un primo istante di sorpresa, Martina sorride a Fabrizio, nuda nell’enorme stanza di quel palazzo antico. Il ragazzo, dopo l’eccitazione che arriva immediata come una pistolettata, richiude subito la porta mormorando uno «Scusatemi…», che si perde tra i soffitti alti.

    «Resta, resta. Tranquillo, abbiamo finito», grida Arturo.

    Fabrizio si riaffaccia giusto un attimo: «Chi è quel ragazzo venuto con De Simone?», chiede al fratello.

    «Il biondo? Uno cazzuto. Uno che aiuta gli amici. De Simone voleva un cane e lui gliel’ha procurato. Un bull terrier di prima qualità, l’hai visto. Meno brutto del padrone. E sicuramente meno sguaiato». E ride.

    Hai capito Arturo, eh?, pensa tra sé, Fabrizio, mentre richiude la porta. Ma forse, proprio in fondo, un pizzico di invidia si fa strada verso il suo stomaco. Martina è bellissima, cazzo. Mentre cammina lungo il corridoio pensando a cosa può aver fatto suo fratello per scoparsi una come quella, incrocia lo sguardo del biondo. Non lo ha mai visto prima, ma capisce subito che non è uno del giro. Ha gli occhi troppo duri, troppo famelici. Nonostante i vestiti e l’orologio, il ragazzo in camicia bianca non riesce a nascondere del tutto la cafonaggine che lo ricopre, come una patina leggerissima. Può passare inosservata a uno sguardo superficiale. Ma Fabrizio non è superficiale. Ha imparato che il modo migliore per competere, nella vita, è osservare e imparare. Lo fa anche questa volta. De Simone è un povero coglione, e uno come quello che gli sta di fronte in quel momento non fa il tirapiedi di un coglione. A meno che non abbia un secondo fine. Che nel caso di De Simone possono essere soltanto i soldi. Lo incuriosisce, il ragazzo in camicia bianca, e non sa nemmeno lui perché. Lo affascina, addirittura.

    Capisce, in qualche modo, che può essere un approccio pericoloso. Ma non riesce a trattenersi. Prende un altro martini e si avvia.

    Andrea è già annoiato. Generalmente procura a De Simone quello che De Simone cerca: cocaina, qualche puttana strana, una macchina per una notte o, come quella sera, un cane particolarmente raro o feroce. A De Simone piace impressionare quei cazzoni dei suoi amici. E paga bene.

    L’affare di oggi l’ha concluso. A Miano, Gaetano sarà contento, ma non gli basta. Non gli basta più.

    Quella che all’inizio era una caccia è diventata routine, ma Andrea conserva l’animo del cacciatore: ha bisogno di prede e di adrenalina. E forse ha bisogno anche del fucile. Vuole sentirsi forte, potente. E poi vuole i soldi.

    Grazie ai suoi traffici è entrato nei giri giusti, ora conosce le facce che contano a Napoli, la sua, di faccia, piace perché sembra uno di loro: bastano una camicia bianca e un sorriso da bastardo. E lui sa mimetizzarsi, sa parlare come loro, ridere come loro, anche scopare come loro. Da sbruffone.

    Insomma, nessuno sa o bada al fatto che viene da Miano e non da via Petrarca. Il problema è che può avere il loro aspetto, ma non ha i loro soldi. Finché dovrà arrabattarsi tra i Gaetano e i De Simone di questo mondo camperà alla giornata, raggranellerà gli spiccioli che spende in una sera. Deve trovare una strada che lo porti fuori dal sottobosco. Deve uscire allo scoperto. Deve diventare il re.

    Il re di Miano, quando Andrea era un ragazzino, si chiamava Pasquale Russo. Aveva un esercito di guaglioni per strada e un manipolo di persone fidate che lo circondavano. A pensarci bene, tanto fidate non dovevano essere se poi lo hanno trovato morto ammazzato nel cortile di casa sua. Andrea c’era, tra quelli che erano corsi a vedere il sangue del boss: curiosi, poliziotti e prefiche urlanti.

    Aveva visto il rigagnolo rosso diventare pozzanghera e poi aveva visto i piedi, il corpo, la testa di don Pasquale. E per la prima volta aveva trovato il coraggio di fissarlo negli occhi, lui, abituato come tutti, nel quartiere, ad abbassare lo sguardo in sua presenza.

    In quegli occhi non aveva trovato potere, erano solo gli occhi vacui di un uomo morto.

    Ma gli erano rimasti in testa mentre tornava a casa. E gli sarebbero rimasti in testa a lungo, crescendo. Li avrebbe rivisti varie volte, sulle facce sfigurate dei morti per strada. Che fossero boss, caporali o manovali. Diventavano tutti uguali, dopo.

    Andrea vive in un parco di Miano. Quelli in centro, come parco Comola Ricci, sono splendidi complessi residenziali con guardie giurate, tanto verde, portieri e posti auto privati. Gli altri, come quello in cui vive Andrea, sono fatti di palazzoni grigi e fatiscenti e popolati di persone che, spesso, sembrano fantasmi. Si spaccia nelle cantine dei palazzoni o davanti ai bar. I soldi si contano nelle macchine o dentro qualche appartamento affittato all’occorrenza. Le amicizie sono di convenienza. Quasi tutti hanno una pistola addosso o nascosta da qualche parte, soprattutto i più giovani. Non vale più nessuna regola, nella Napoli del ventunesimo secolo.

    Andrea condivide tre vani e cucina con la madre e la sorella. Il terrazzo del condominio dove vivono ha le coperture in eternit. I comitati di quartiere, quei pochi cristiani che ancora provano a fare qualcosa per rendere appena migliore quella fogna, hanno tentato decine di volte di coinvolgere il Comune per farlo rimuovere. Promesse, ne sono arrivate tante. Interventi veri, mai. Il padre, Andrea se l’è scordato il giorno dopo che è andato via. Negli anni ha imparato a provare affetto per le due donne, anche se in modo diverso. Ha capito che per difenderle dalla miseria e dal degrado avrebbe dovuto avere una marcia in più. La madre ha quarantasei anni. È giovane, ma ne dimostra venti di troppo. Spossata dalla vita, dai troppi uomini che l’hanno usata e dallo squallore della sua esistenza. Fuma quaranta sigarette al giorno e, secondo Andrea, non è lontano il momento in cui uno stronzo di medico le diagnosticherà una malattia seria. Per campare si arrangia, come molti. Qualche servizio, qualche anziano a cui badare, poche centinaia di euro al mese. Una volta, anni prima, aveva trovato un impiego in una famiglia del Vomero. Contributi, stipendio fisso, il cuore scaldato da una sicurezza in più. Dopo pochi mesi, però, il padrone di casa era stato trasferito a Roma e, nel giro di una settimana, lei si era ritrovata senza lavoro. Era ripiombata nella depressione. Ora Andrea contribuisce. In realtà, quasi tutti i soldi che entrano in casa arrivano da lui. Sua madre non fa domande. Si limita a guardarlo con gli occhi umidi ogni volta che lui le allunga qualcosa. La sorella è diversa, e lui la adora. Si chiama Angela, ha diciannove anni, si è appena iscritta all’università. Vuole fare l’avvocato, e Andrea è sicuro che ce la farà. È sempre sorridente, ha fiducia nel mondo e nella vita. Ce l’ha con la camorra, che secondo lei ha rovinato la vita di tutti, da quelle parti, e non si fa scrupoli a renderlo noto a chiunque abbia voglia di stare ad ascoltarla. Cosa che ha creato qualche problemino ad Andrea. Ora passa la maggior parte della giornata fuori casa, per fortuna. Rientra la sera dopo aver seguito qualche corso o essere andata a studiare da un’amica. O dopo aver fatto un turno di otto ore nel bar nei pressi di piazza Amedeo, dove lavora per pagarsi la retta e togliersi qualche sfizio. Andrea cerca solo di rendere accettabile il loro presente e migliore il loro futuro. E lo fa nell’unico modo che conosce.

    Gesù, chiste so’ nnummer, pensa Martina tornando dagli ospiti dopo essersi ricomposta. L’unico modo per diventare veramente importante in questa cazzo di città è organizzare una festa mai vista, inventare qualcosa che nessuno ha mai fatto. Martina ama far parlare di sé. Si può dire che sia la sua attività preferita. Attività per modo di dire visto che, come tutto quello che la riguarda, ha a che fare più che altro con l’ozio e il vizio.

    Per questa serata ha organizzato un programma diabolico: ha fatto annoiare ben bene tutti con le solite mollezze da chiacchiere e buffet, movimentate giusto un po’ da quel coglione di De Simone, Che poi chi cazzo l’avrà invitato, pensa Martina, per sferrare la sorpresa quando la gente comincia a desiderare di essere altrove.

    Ed ecco che la sorpresa arriva. Ma non è quella che Martina si aspettava: non ha le forme sinuose di Selena Rame, la cantante neomelodica che riempie piazza del Plebiscito, né quelle gibbose del cammello che avrebbe fatto entrare dal balcone al clou del concerto privato di Selena (ovvero al momento del refrain di Prova d’amore: se l’amore è sempre quello/sorprendimi di più/regalami un cammello/o quello che sai tu); le forme sono piuttosto tozze, o cilindriche, a seconda che si guardino prima i due uomini che sono entrati all’improvviso o le loro pistole.

    Venticinque anni al massimo, tutti e due. Volto scoperto. Arturo è appena tornato in salone e la prima cosa che pensa è: Guarda a chillo strunz’ ’e don Paolo….

    Iniziano subito a urlare. Un classico per i rapinatori di tabaccherie, farmacie e piccole banche. Le urla terrorizzano immediatamente tutti. Creare confusione e rumore è il passo necessario per far capire subito chi comanda. Alzare il livello di terrore è fondamentale per farsi ubbidire ed evitare che qualcuno si faccia male. Meglio cinque anni di galera per rapina a mano armata che venti per omicidio.

    Le urla dei banditi si mischiano a quelle degli invitati, in una cacofonia spaventosa che nessuno è in grado di gestire. Passa qualche secondo. Andrea e Fabrizio sono a pochi metri di distanza. Si guardano e si capiscono. Decidono silenziosamente di rimanere immobili. Non è un problema. Come sono arrivati se ne andranno, basta non farli incazzare.

    Uno dei due rapinatori si posiziona al centro dell’enorme ingresso, l’altro si sposta qualche metro di lato e più indietro, coprendogli strategicamente le spalle e dominando tutta la scena.

    «Mo’ facimm’ tutti ’na bella cosa. Ci diamo una calmata e giochiamo nu poc’. Tra dieci secondi l’amico mio passerà lì ’n miezz’. Se trova uno solo di voi che parla al telefono o non ha le mani dove gliele può vedere, lo stuta. Vabbuó? Lo facciamo ’sto gioco tutti insieme?».

    Nessuna risposta. Gli uomini hanno le bocche spalancate, qualche ragazza piagnucola. Arturo suda come se avesse appena corso i diecimila metri. Nelle ghiandole dei presenti la paura ha preso il posto dell’alcool.

    «’O vulite fà ’sto sfaccimm ’e gioco o no?». Qualche sì timido si leva nella stanza. Il secondo rapinatore comincia il suo giro. In una mano stringe la pistola, nell’altra una grande busta blu di Ikea. Il primo a cui si avvicina è sui trent’anni. Bello, grosso e palestrato. Il bandito apre la busta, invitandolo con un movimento della testa a mettere tutto lì dentro. Portafogli, cellulare, gioielli, tutto. L’altro esita un attimo di troppo, forse lo guarda troppo negli occhi. E un secondo dopo è a terra con uno zigomo spaccato e il sangue che gli macchia il viso e la camicia. «Chist’ ha pers’». Si avvicina a quello successivo: «Caccia tutt’ cose. Muov’t’». Finisce rapidamente il giro. Si ferma qualche secondo in più davanti ad Andrea, che disciplinatamente gli consegna tutto quello che ha. Mentre lo fa, nota una scritta gialla e blu sull’avambraccio dell’uomo. Anche Fabrizio tira fuori tutto e lo infila nella busta. Il bandito passa al secondo gruppo di persone. Fabrizio pensa che quel giochetto avrà fruttato ai due quattro o cinquemila euro. Andrea sa che sono molti di più. Ai giovani napoletani non piace ostentare, sanno che esibire per strada un Rolex o un paio di orecchini preziosi è pericoloso. Ma quella sera, in una casa, si sentivano più o meno al sicuro. Il tizio con la busta si avvicina a Martina. La conosce, evidentemente, sa che è la padrona di casa. Ma non le chiede dove la madre tiene i gioielli. No. Le si avvicina, le punta la pistola alla testa. Appoggia la busta con il bottino. Con un movimento lentissimo le ghermisce una tetta. Una delle splendide tette di Martina. Trova il capezzolo e stringe. Si avvicina e la bacia. Martina trema dalla testa ai piedi, piange. Il dolore al seno brucia. L’umiliazione brucia di più. Arturo guarda da un’altra parte.

    La scena dura una ventina di secondi, ma sono sufficienti per lasciare tutti stremati e col respiro corto. L’altro, quello che sembra il capo, si stanca.

    «La vuò fernì cu ’ste iacovelle o no?». I due si staccano. I rapinatori se ne vanno, lasciando la compagnia con un ironico Grazie a todos che i presenti ricorderanno per un bel pezzo. Il tutto non è durato più di quattro minuti. Immediatamente si alza un brusio eccitato. Tutti cercano istintivamente i propri cellulari, senza trovarli. Martina piange isterica in un angolo, mentre Arturo cerca di consolarla. Selena Rame arriva, qualcuno le dice quello che è successo e subito scappa via. Pure il cammello viene tirato giù dal montacarichi.

    Fabrizio e Andrea si guardano. A un certo punto Fabrizio sente una frase uscire dalla bocca dell’altro che lo lascia, almeno per un secondo, senza fiato.

    «Lo rivuoi il cellulare?».

    «Perché non hai sciolto quel cazzo di cane?»

    «Comm’ no. E se poi lo sparavano chi mi ridava i soldi? Mo’ l’aggio accattato».

    «Ma vaffanculo, coglione».

    Mentre Arturo e De Simone si urlano in faccia, la gente comincia ad andar via scornata e il bull terrier se ne fotte di tutto sbranando avanzi di buffet, Fabrizio pensa a quello che gli ha appena chiesto il biondo. Non è stupito, no. Del resto suo fratello gli aveva detto che è un tipo cazzuto, che si sa muovere dove e come vuole. Fabrizio non pensa a che cosa si riferiscano quelle parole, ma a dove possano portare.

    «Che domanda è?»

    «Come, che domanda è? Mi pare una domanda facile. Lo rivuoi il telefono o no?».

    Il sorriso di Andrea racconta cento cose, apre mille strade. Tutte strade che Fabrizio non vede l’ora di percorrere.

    «Certo. Cazzo, avevo tutto lì dentro. Numeri di telefono, contatti, appunti, tutto…».

    «Bene. Dammi un paio di giorni e te lo faccio riavere».

    «E gli altri?»

    Andrea lo guarda. Il sorriso sulla sua faccia muore rapidamente.

    «Non me ne frega un cazzo degli altri».

    «Perché me lo vuoi recuperare? Manco mi conosci».

    «Così. Lo posso fare e lo faccio».

    Fabrizio lo scruta, cerca di capire chi è quel tizio apparso insieme a un bull terrier e che sembra avere in tasca la città. Vuole capirlo in fretta perché intuisce che il futuro può passare da lì.

    «Come fai a farmelo riavere?»

    «Tu non preoccuparti. Ci vediamo domani alle 8 davanti all’Umberto».

    «Va bene, cazzo. Va bene».

    Andrea gira le spalle e si avvia verso la porta.

    «Un’altra cosa».

    Si volta, Andrea. Ha capito cosa sta per chiedergli l’altro. Sente un formicolio di eccitazione nervosa che dalle mani sale verso le spalle e il collo.

    «Dici».

    «Insieme al telefono voglio chill’ ’nfame».

    Andrea non ha bisogno di chiedergli di chi stia parlando. Quello che ha strizzato la tetta di Martina ancora non lo sa, ma passerà un brutto momento.

    «Va bene. Non ci sono problemi. Vieni vestito di scuro, allora».

    «Perché?»

    «Già lo sai, il perché».

    Certo che lo so, pensa Fabrizio mentre fa un cenno di assenso.

    «Ok, ci vediamo domani».

    «Bene».

    «Io mi chiamo Andrea».

    «Fabrizio».

    La faccia dell’altro si apre in un sorriso ampio.

    «Lo so», dice.

    E se ne va.

    «Andiamo». Andrea agguanta De Simone per la giacca e quello quasi gli cade ai piedi.

    «Aspetta un secondo. Mo’ andiamo. Fammi dire una cosa a una. Sennò che cazz song’ venut’ a ffà staser’ a ’sta chiavic’ ’e festa. Solo per farmi fregare il Rolex?»

    «Non me ne frega un cazzo del Rolex e delle seghe che ti farai a casa stasera. Muoviti. Adesso».

    «Vabbè, non ti incazzare. Fammi prendere almeno il cane».

    «Dammi le chiavi della macchina. Ti aspetto giù». Ed esce senza salutare nessuno.

    Anche Fabrizio è andato via con il fratello.

    Quando arrivano nel cortile c’è una sola macchina, col muso verso fuori come promesso.

    Solo che non è quella di Arturo.

    «Don Paaa’», grida, «ma guarda ’stu strunz’. Dove cazzo sta la mia macchina?».

    Don Paolo esce dal basso.

    «Aspiettat’. Stateve quieto. Un attimo, mo’ vi spiego».

    «Che mi dovete spiegare?»

    «La macchina se la sono portata quelli».

    «Figli di puttana».

    «E che potevo fare io? C’avevano la pistola».

    Mentre don Paolo si difende, Arturo sbraita e Fabrizio osserva con noncuranza, arriva Andrea.

    «Che è successo?», chiede a Fabrizio.

    «Niente, quelli si sono portati la macchina di mio fratello».

    «Vieni con me».

    «Dove?»

    «Lo vuoi un passaggio o no?»

    «Sì, certo».

    «E allora andiamo».

    Andrea apre la

    BMW

    di De Simone, mette in moto

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