Mamma, ho perso un bottone!
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Anteprima del libro
Mamma, ho perso un bottone! - Antonio Di Mambro
I
Giocavamo a farci la guerra, proprio come facevano i grandi, anche se la loro non era un gioco. Era il 1943, avevo otto anni.
Ero un bambino agile, curioso della vita, spensierato. Mio padre, Francesco, per forza di cose, e con tanto sacrificio, era andato via. Lavorava lontano per permetterci di arrivare a fine mese, di avere un piatto pronto a tavola, sebbene spesso non ci riuscissimo. Era una situazione in cui vertevano tante altre famiglie a Marina Di Minturno, paese in cui vivevamo. Mia madre, Maria Teresa, dall’aspetto così fragile e gracile all’apparenza, era in realtà una donna dalla tempra forte, piena di energia. Il viso scavato rifletteva rigore e durezza, ma era anche capace di infinita dolcezza.
Quella mattina, avevo recuperato quanti più bottoni a casa. Dopo la fine delle lezioni scolastiche, correvo per le stradine del paese, rincorrendo i miei amici. La guerra dei bottoni era il nostro gioco preferito. Ci dividevamo in due squadre, e ci affrontavamo a suon di bottoni. Non c’era mai un vincitore, né un vinto. Solo tanta voglia di giocare e divertirsi, con quel poco che avevamo.
Ero molto bravo nel gioco. Attento e concentrato, prendevo la mira per colpire i «nemici», svelto come una lepre, mi rifugiavo un po’ ovunque per non subire il contraccolpo, con lo sguardo che vagava verso i miei «alleati» alla ricerca della loro complicità.
Quel giorno, però, i bottoni non erano abbastanza. Nascosto dietro a una macchina, con le mani in tasca che perlustravano ogni centimetro di quel tessuto, il mio sguardo, non più concentrato, si fece incredulo. Possibile che avessi già terminato tutti i bottoni? Eppure, ero uscito di casa credendo di avere nelle tasche un vero e proprio tesoro, un rifornimento sufficiente per vincere la guerra del giorno. Confuso, mi misi dritto, guardandomi attorno per poter analizzare la situazione con quanta più lucidità possibile, dall’alto dei miei otto anni. Pochi secondi furono sufficienti per comprendere la realtà.
Non avevo più nemmeno un bottone, nulla era rimasto del bottino della mattina. Mi lisciai la maglietta con le mani, toccando il mio corpo esile, riflettendo, come se stessi cercando una tasca invisibile su quel tessuto. Ed ecco l’idea. La mano destra scese sul pantaloncino che indossavo. L’ultimo bottone in mio possesso. Ne seguivo il contorno con il polpastrello dell’indice. Certo, avrei dovuto strapparlo dal pantalone. Cosa avrebbe detto mia madre? Si sarebbe arrabbiata? Mi perdevo tra quei pensieri, fino a che non vidi da lontano un bambino della squadra nemica che si avvicinava. Di impulso, staccai con forza il bottone dal pantaloncino. La frenesia, e anche l’ansia, mi fecero però tremare la mano e quel tesoro finì giù nel tombino dell’acqua, ai miei piedi. Con le ginocchia puntate a terra, piegai la schiena, accovacciandomi per poter avvicinare il viso alle fessure del tombino. Potevo recuperarlo? La mente viaggiava veloce, gli occhi come due scintille sfilavano a destra e a sinistra cercando qualsiasi strumento utile per recuperare il bottone. Fu questione di attimi. Una voce inconfondibile chiamava il mio nome: la voce di mia madre.
«Antonio! Antonio!»
Non ho mai dimenticato quella disperazione, quanta paura palpitante venisse irradiata da quell’urlo. Mia madre, sì. Aveva racimolato tutta la forza che aveva in sé per urlare il mio nome in quel modo. Si era forse accorta che avevo, di nuovo, trafugato casa prendendo con me tutti i bottoni? Mi vide subito, e mi corse incontro. Io, intanto, a mia volta, allungai la mano nella piccola fessura del