I passaggi comuni
Di Gonzalo Baz
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Anteprima del libro
I passaggi comuni - Gonzalo Baz
Gonzalo Baz
I passaggi comuni
Los pasajes comunes © Gonzalo Baz, 2020
© Verbum – libros SRL, 2020 as in the original Spanish edition of the Work
Criatura editora, Montevideo
Published by arrangement with VicLit Agency
Per l'edizione italiana:
Copyright © Edizioni Wordbridge 2022
Traduzione dallo spagnolo di Claudia Rolandone
Immagine di copertina: Natalia Cardozo
ISBN: 9788899958343
Ho trascorso tutta l’infanzia e l’adolescenza in un complesso di grandi edifici in cui non sono mai tornato, ma che mi si ripresenta in diversi modi. A volte ripenso a quel complesso residenziale, i nostri genitori, i prestiti del Banco Hipotecario, la scelta della scuola in cui andare, le grandi assemblee per decidere il futuro comune. In quel modo per me inaccessibile. Posso anche rievocare il modo, vissuto o inventato, in cui io, Sami e Lucas camminavamo in quegli anni lontani, quelli delle crisi suicide di mia madre, dei giochi pericolosi e delle prime letture. Ho molto da raccontare su quel periodo, ma preferisco scrivere dei ricordi che continuano a tornare con violenza, che irrompono quando non li cerco, che rimbombano come un’esplosione lontana che mi paralizza mentre l’onda d’urto si avvicina e, da un momento all’altro, vengo stordito da un ammasso di immagini a cui non sono mai riuscito a dare ordine: le guardiole della polizia in fiamme, l’erba del campetto da calcio congelata, il suono di un ascensore impazzito che fa su e giù all’alba. A volte sogno di sorvolare la notte tra edifici di argento e acciaio e vedo noi, con i giubbotti e le dita irrigidite dal freddo, che proviamo a suonare una chitarra. Il complesso, con la sua forma spettrale, ci guarda dalle finestre degli ultimi piani, quando crediamo che dormano tutti. Quel residuo inutile, ricolmo di malvagità.
Certi ricordi mi abitano e mi costringono, ancora oggi, a frugarmi nelle tasche in cerca di cose da gettare via, per strada, quando vedo una volante che si avvicina. Sono anni che non porto niente con me. Solo caramelle, scontrini di acquisti inutili, portafoglio e telefono. Dal breve scavo archeologico nelle mie tasche emergono ricordi fossilizzati: granelli di tabacco, frammenti di un tempo in cui compravamo due sigarette sfuse per un peso. Marche sconosciute, macchie di umidità sulla carta e anelli di polvere da sparo chiaramente visibili. Tutti i giorni attraversavamo il quartiere per andare a comprarle al chiosco. Tornavamo all’Infinito e le fumavamo mentre i cani giocavano nel campetto. Non riesco a ricordarmi di ciò di cui parlavamo, pagherei per ascoltare le nostre voci a quel tempo. Passavamo tutto il tempo fuori, come se stare a casa significasse sprecare le ore. Evitavamo i nostri genitori e quelli degli altri, e a volte ci evitavamo anche fra di noi, nel lungo vagare tra i diversi passaggi del quartiere, persi in idee apocalittiche, in presagi fumosi.
Il nostro complesso si divide in tre grandi aree in cui si stagliano edifici di dieci piani, con quattro appartamenti su ognuno e tre al piano terra. Quarantatré famiglie in ogni edificio. Le torri sono attaccate le une alle altre; lasciano spazi stretti e strani, dove spesso spunta un albero o un piccolo prato minato da merda di cane. In quelle intercapedini succedono le uniche cose di cui devo parlare. Le aree del complesso sono organismi viventi che a volte si inghiottono l’un l’altro. Hanno tumori che crescono e si espandono, funghi, nebbia. Ci sono anche dei passaggi tra le torri, scalinate che mettono in comunicazione isole, centinaia di meandri bui e invisibili, sfruttati per commerci spontanei. Dalle minuscole finestre del bagno si vede di tutto. La puzza di plastica della pasta di coca che sale, un uomo che caga, una coppia che dorme abbracciata tra l’erba e i pezzi di cartone.
La maggior parte di noi viveva lì da sempre. I nostri genitori avevano comprato quelle casse di cemento luminose con grandi finestre da cui vedevamo scorrere la nostra adolescenza. Occhi opachi, impenetrabili, che guardavano tutto scorrere da quella prospettiva a volo d’uccello, il punto di vista delle torri.
I ragazzi della nostra età erano tanti, ma il nostro gruppo era sempre lo stesso: io, Sami e Lucas. A volte c’era anche Martín. All’inizio non ci fidavamo a lasciarlo ficcare il naso nei nostri affari, che generalmente trovava divertenti, poi lo abbiamo accettato e ha finito per contagiarci con il suo ridere di tutto quello che a noi sembrava serio, come se sapesse che niente di tutto ciò avrebbe avuto senso tra qualche anno. Sami e Martín vivevano nella torre di fronte a quella mia e di Lucas.
La torre H3 è quella in cui siamo cresciuti e da cui abbiamo visto tutto andare a fondo. Nel nostro quartiere non c’era maschera che reggesse, eravamo quello che eravamo, parte dell’ingranaggio. Nell’H3 tutti i giorni vedevo mia madre prendere il Manifesto comunista, dove nascondeva i soldi, e contare le banconote più e più volte, ossessivamente. Dopodiché si appuntava sul suo quadernetto i numeri, con la penna rossa. I quaderni di mia madre erano scritti con la penna rossa. Quando era depressa si metteva a scrivere, la tranquillizzava. Ogni volta che ripenso alla sua malattia mi vengono in mente le lettere rosse scritte sui quaderni