Il silenzio assordante della follia
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Anteprima del libro
Il silenzio assordante della follia - Domenico Verde
Domenico Verde
IL SILENZIO ASSORDANTE DELLA FOLLIA
Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104238
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave,60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
Domenico Verde
IL SILENZIO ASSORDANTE
DELLA FOLLIA
Romanzo
Indice
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Tredici mesi dopo.
L’AUTORE
CATALOGO I GIALLI DAMSTER
A Ernesto Santucci,
alla sua inesauribile riserva d’amore per tutti gli uomini.
La follia, mio signore, come il sole se ne va passeggiando
per il mondo, e non c’è luogo dove non risplenda.
( da La dodicesima notte
, William Shakespeare )
1
Quanto odiasse il genere umano non lo sapeva nemmeno lui.
Quante volte si era soffermato a osservare la gente che gli passava davanti, quando era seduto sulla sua solita panchina ai giardini pubblici, e ne aveva odiato il modo di vestire o di parlare?
Quante volte si era chiesto se nel mondo, nell’universo intero, vi era una persona, solo una, che meritasse la sua incondizionata fiducia, o quell’amore del quale tutti si riempivano la bocca senza coglierne il significato?
Era giunto alla conclusione, da qualche tempo, che le uniche creature meritevoli di attenzione, in quel mondo al quale apparteneva senza averlo mai chiesto, fossero gli animali, senza distinzione. Gli animali li amava davvero. Li sentiva più simili a sé. Forse c’era stato un tempo, nella sua vita, durante il quale si era sentito tutt’uno con i suoi simili. Un tempo, lontanissimo, nel quale si era lasciato cullare dal vento della gioventù. Un tempo nel quale aveva consegnato il suo cuore pulsante di speranza e d’ingenuità a una donna, a un amico, a un prete, a un insegnante. Poi aveva capito. Aveva compreso che il mondo gli era ostile, che la gente era cattiva, che nessuno era quello che sembrava. Tutti con la propria maschera dipinta con i colori dell’ipocrisia, della falsità, del dire e non dire, dell’egoismo. Allora, man mano che questa consapevolezza si rafforzava, egli si era ritirato come un lembo di spiaggia che cede sotto l’assalto del mare in tempesta.
Il suo appartamento - poco più di sessanta metri quadri - era popolato da una nutrita rappresentanza della razza animale: c’era Squitty, la pappagallina gialla con i suoi occhietti dolci, Palla di Neve, la gatta dal pelo morbido e bianco, Mefistole, un gatto nero dalla lunga coda, Rocky, un carlino sbuffante e pigro che coabitava serenamente con i due felini; poi c’era Matusalemme, la tartaruga, Nemo, il pesce rosso, e infine Tobia, il criceto più curioso del mondo. Quello che mancava in quell’appartamento, invece, era un televisore. Se ne era liberato sei anni prima. Il suo cervello da quarantottenne aveva dato l’ultimatum una sera d’estate, quando la temperatura segnava parecchi gradi e l’aria era umida e appiccicosa. Si era ritrovato, seminudo e con una birra in mano, a fare zapping nella semioscurità della stanza, nell’affannosa ricerca di un programma decente che gli regalasse un momento di svago, dopo una nera giornata trascorsa nell’ospedale dove era stata ricoverata la moglie, in fin di vita. Fu un attimo. Non fece in tempo a fermare la sua mano, che la bottiglia lo centrò in pieno. Si meravigliò egli stesso dell’inatteso senso di gratificazione che provò in quel momento. Fu bello vedere lo schermo del televisore schizzare in mille pezzi e il fumo che fuoriusciva.
È vero, aveva rischiato grosso. Fu un miracolo che uno di quei minuscoli pezzi di vetro non si fosse conficcato negli occhi o che il corto circuito non si fosse trasformato in un incendio che avrebbe ridotto in cenere il suo piccolo appartamento. Ma in quel preciso momento non gliene fregava più niente: sua moglie - benché da molti anni non fosse più la stessa donna che aveva rubato il suo cuore - se ne stava andando, lasciandolo solo come un cane. Non avevano figli. Lei era sterile. Due settimane dopo la sua morte, il telefono smise di squillare. Decise di disfarsi anche di quello. Qualcuno, un giorno, bussò alla porta: quando compresero che non avrebbe aperto, non bussarono più. Per quasi un mese rimase chiuso nel suo appartamento. Mangiò con parsimonia tutto quello che era in casa e per bere si accontentò dell’acqua del rubinetto. L’insalata la riservò a Matusalemme, che ogni tanto metteva la testa fuori dal guscio e sembrava lo guardasse dispiaciuto, mentre egli se ne stava lì, seduto su quella vecchia poltrona, a leggere tutti i libri che non era mai riuscito a leggere in tutta la sua vita. Il suo amore per i libri era smisurato. Poteva disporre di una libreria di tutto rispetto: opere di Tolstoj, Dostoevskij, Cechov facevano compagnia ad autori americani come Hemingway, Fitzgerald, Twain. I testi di Platone e Aristotele erano a fianco di quelli di Nietzsche e di Schopenhauer. Sugli scaffali si potevano leggere anche nomi di autori italiani: Italo Svevo, Cesare Pavese, Luigi Pirandello, Ignazio Silone, Alberto Moravia.
Alle sei di ogni mattina si svegliava al suono della sua vecchia e fidata sveglia a carica manuale, metteva la foglia d’insalata accanto al silenzioso Matusalemme e, dopo aver mangiato quello che trovava, si sedeva a leggere per ore sulla poltrona. La barba, in quel mese, crebbe così tanto che dovette faticare non poco per raderla, quando fu costretto a uscire per procurarsi del cibo. Fosse dipeso da lui, sarebbe rimasto chiuso in casa per sempre. Poi, pian piano, ritornò la voglia di uscire all’aria aperta, anche se i contatti umani si limitavano a semplici scambi di battute con il salumiere, il farmacista, la commessa di un negozio. Con una sola persona si ritrovava costretto ad avere un rapporto più complesso: il suo medico personale, che conosceva da almeno una quindicina d’anni. Una volta era diverso con il suo medico, riusciva a discutere con lui in maniera serena e senza alcun tipo di problema. Adesso, invece, quella sua insistenza nel voler parlare di cose che travalicavano il motivo per il quale era costretto a rivolgersi a lui - il bisogno di medicine - lo irritava molto.
«Allora, che mi dice? Come vanno le cose? Non mi racconta nulla di nuovo? Che cosa sta facendo di bello?»
Perché avrebbe dovuto raccontargli i fatti suoi, perché non si rendeva conto che era cambiato? Perché quel medico era così ottuso? Perché era costretto a rispondergli, suo malgrado? Forse perché, dopotutto, aveva bisogno di lui?
«Le solite cose, dottore. Trascorro la mia vita da pensionato in maniera serena. Da quando sono vedovo, poi, la mia vita è, come dire, un po’ cambiata…»
Poi, appena poteva, afferrava quella dannata ricetta e scappava. Di nuovo in strada, circondato da perfetti sconosciuti ai quali non doveva nessuna spiegazione. Probabilmente il suo modo di agire era il prodotto dei lunghi anni trascorsi a contatto con la gente, con i suoi clienti, a radere barbe e tagliare capelli. All’inizio, quando si era spostato a Roma per lavorare, le cose gli erano apparse in maniera completamente diversa. Poi, anno dopo anno, aveva iniziato ad accusare una sorta di apatia che lo attanagliava tutte le mattine, prima di recarsi al negozio. A un certo punto si era ritrovato a dover sopportare gli atteggiamenti delle persone che ciclicamente si ritrovava di fronte. Era come se, improvvisamente, fosse stato sottoposto a un silenzioso e inarrestabile processo di trasformazione che aveva mutato il senso di percezione della realtà, come se il cervello avesse preso a funzionare in maniera diversa. Aveva anche provato a soffocare il senso di ribellione che lo assaliva, ma qualsiasi sforzo era risultato vano. Tutto a un tratto si era ritrovato a vedere le cose da una prospettiva diversa, da un punto di vista completamente nuovo che, almeno le prime volte, lo aveva addirittura spaventato. Era come se qualcuno avesse strappato un filtro benevolo dai suoi occhi rendendo possibile il poter giudicare - per quello che realmente erano - le persone che incontrava sulla sua strada. Ben presto si rese conto che questa portentosa e incredibile capacità di valutazione lo portava, inevitabilmente e inesorabilmente, non solo ad allontanarsi, ma a procurare un vero e proprio odio nei confronti dei suoi simili. Eppure, la parola odio
nella sua vita passata era stata una parola senza senso, un sentimento che non gli era mai appartenuto. Ricordava con piacere i momenti di spensieratezza trascorsi da bambino, quando ogni cosa aveva un colore netto, preciso, inconfondibile e rassicurante: il nero era nero, il bianco era bianco, senza nessuna gradazione di grigio, senza alcuna zona d’ombra. Ricordava la gioia, semplice e miracolosa, che si rinnovava ogni mattina, quando si svegliava, quell’odore di buono che emanavano le lenzuola, quel profumo che proveniva dalla cucina. Sì, era stato felice un tempo. Non si poteva dire che avesse avuto un’adolescenza difficile, non gli era mancato nulla. Eppure, qualcosa, come un animale schifoso che ti cresce dentro con lentezza incessante, si era avviluppato a lui senza tregua, fino a trasformarlo in quello che era diventato.
I vicini, quando parlavano di lui, lo chiamavano il pazzo
.
Ma non gliene fregava niente di quell’appellativo.
In verità, lo inorgogliva: che significato aveva quella parola per coloro che osavano definirlo pazzo
?
Voleva dire che era diverso
?
Lui voleva essere diverso!
2
Il mese che odiava di più era proprio quello appena iniziato, dicembre. E non solo perché faceva freddo. Più che altro gli stava sulle palle che in quel periodo dell’anno la gente dava vita a smancerie di ogni genere, dato che a Natale si è tutti più buoni
.
Quella mattina era uscito da casa verso le sette per recarsi al bar all’angolo - quello gestito dai cinesi - per fare colazione. Preferiva il bar dei cinesi per due motivi: il primo perché al costo di un solo euro riusciva ad avere un cornetto abbastanza discreto e un cappuccino niente male, il secondo perché le due donne che gestivano il locale parlavano poco. Gran popolo i cinesi, gente che lavorava sodo e si accontentava di un pugno di riso. Nutriva un’insolita simpatia nei confronti dei musi gialli
, anche se una volta con uno di loro era arrivato quasi alle mani, giacché non voleva restituirgli i soldi pagati per una radiolina che di funzionare non ne aveva voluto proprio sapere. Si accomodò al tavolino vicino alla vetrina e consumò la colazione, con calma. Da quella posizione poteva osservare la gente che si muoveva frettolosamente per strada, le auto che sfrecciavano incuranti dei pedoni e le mamme che portavano i figli a scuola. Tirò dalla tasca del cappotto il libro che stava leggendo, appoggiandolo sul tavolo. Aprì la pagina, laddove aveva posto uno stuzzicadenti come segno, e sorseggiò quello che rimaneva del cappuccino. Mancavano poche pagine al termine dell’opera più famosa di Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia
: «…scrive dunque l’Ecclesiaste il numero degli stolti è infinito
. In questo numero infinito non sembra forse comprendere tutti gli uomini, ad eccezione di pochissimi che forse nessuno ha mai visto? Parla ancora più apertamente Geremia che confessa: Ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza
. Egli riconosce che solo Dio possiede la vera sapienza, mentre tutti gli uomini hanno solo stoltezza. E poco prima dice: L’uomo non riponga nella sapienza il suo vanto
. Perché, o buon Geremia, non vuoi che l’uomo si glori della sua sapienza? Perché, risponderebbe certamente, l’uomo non possiede la sapienza…»
Impiegò poco a terminare la lettura del libro, poi, sotto lo sguardo inespressivo delle due cinesi, rimase seduto per qualche altro minuto, a rimuginare sul pensiero dello scrittore olandese. Alla fine salutò le donne con un leggero cenno della testa e si avviò verso casa, dove lo attendeva, trepidante, il suo cane. Rocky era il carlino più adorabile che un uomo potesse mai desiderare: giocherellone, sensibile e affettuoso, amava le brevi passeggiate mattutine e serali. A volte era un po’ testardo e diventava petulante nelle sue richieste, ma lui sapeva come fare per riportarlo alla ragione: bastava ignorarlo e Rocky capiva se una cosa poteva ottenerla oppure no. Di sicuro era intelligente e capace di autodeterminazione, molto più di tanti esseri umani. Tutti i giorni lavava i suoi occhi tondeggianti e vivaci con un infuso di fiordaliso e rimuoveva lo sporco che si annidava fra le pieghe della sua pelle con un fazzoletto imbevuto d’acqua tiepida. Si diceva che il carlino sapesse scegliere le persone inclinando la testa in un certo modo. Fu esattamente ciò che accadde il giorno in cui lo acquistò, quando era indeciso se prendere lui o un altro: lo aveva guardato dritto negli occhi e ad un certo punto aveva inclinato la testolina come per dire A chi aspetti? Non hai capito che devi scegliere me?
.
Immerso nei suoi pensieri, imboccò il portone della palazzina nella quale abitava, distante poche centinaia di metri dal bar. Si trattava di una palazzina di sette piani, uguale a tante altre della zona, con il gabbiotto del portiere ormai vuoto. Non gli mancava per niente la figura del portiere. Anzi, a dirla tutta, gli aveva anche fatto piacere che, a causa della crisi economica e delle spese che comportava l’impiego di un tizio che si prendesse cura delle beghe del palazzo, non ci fosse più la presenza di quello che egli giudicava un maledetto ficcanaso
che s’impicciava di tutto e di tutti. Per non parlare della moglie, quella vipera, che non faceva altro, dalla mattina alla sera, che parlare male di questo e di quell’altro. Sì, era proprio contento che quella storia del portiere si fosse risolta in quella maniera: cacciati via, marito e moglie, buttati per strada.
Prese l’ascensore, anche se abitava al secondo piano, meravigliandosi del fatto che fosse libero.
Rocky era dietro la porta, in attesa.
Mentre girava la chiave nella toppa, avvertì il suo ansimare.
«Buono, Rocky! Dammi due secondi e ti porto a spasso.»
Dopo pochi minuti era di nuovo per strada, con il suo carlino al guinzaglio. Fecero il solito giro, passando prima per la piazzetta, poi per i giardini pubblici e, infine, nei pressi del suo ex negozio di barbiere. Maledette banche! Era stato costretto a svendere il locale perché nessuno di quei maledetti funzionari con il sorriso dipinto sul volto e lo sguardo da avvoltoio era stato disposto a prestargli un soldo. Adesso, in quello stesso locale, un manipolo di africani del cazzo vendeva frutta e verdura. Si sentiva profondamente deluso e amareggiato per come lo avevano trattato quei banchieri di merda! Pronti ad avventarsi sulla carcassa del malcapitato di turno, senza un briciolo di pietà.
Attraversò la strada con la preoccupazione che qualche automobilista potesse investire lui e il cane, così come stava per accadere due giorni prima, quando solo un miracolo aveva evitato il peggio: era appena sceso dal marciapiede quando un’auto enorme era sbucata da dietro un autobus fermo. Gli si era gelato il sangue nelle vene, mentre quell’ammasso di ferraglia sfrecciava davanti ai suoi occhi, a pochi centimetri da Rocky. Tuttavia, pur essendo in preda alla paura, era riuscito ad annotare il numero di targa. Ancora scioccato, si era recato dai vigili e aveva raccontato loro quanto era successo, comunicando quel numero.
Gli avevano promesso che avrebbero fatto qualcosa, ma, prima di uscire, aveva notato che quelli stavano sghignazzando alle sue spalle. Si era chiesto perché continuava a fidarsi degli altri.
Perché non capiva che la giustizia personale era l’unica strada da percorrere?
3
Era il quattro gennaio quando venne a sapere che il vicino avrebbe traslocato nel giro di una settimana.
Lo scoprì mentre era intento a guardare all’interno della cassetta postale, dove aveva trovato i soliti manifestini pubblicitari e le immancabili bollette da pagare. Lo aveva detto la signora del terzo piano, quella che sapeva i fatti di tutti, degna erede di quella serpe della moglie del portiere.
Sì, cara
stava raccontando a una delle abitanti di quel desolato condominio "ne sono certa, l’ho saputo da fonte sicura: l’appartamento sotto al mio si libererà presto. Il signor Cervone andrà ad abitare a Torino."
Il signor Cervone non gli era mai stato simpatico. A mala pena si salutavano e il fatto che fosse in procinto di traslocare lo lasciava indifferente. Oltretutto, era sicuro che chiunque veniva ad abitare al posto suo sarebbe stato esattamente come gli altri. Richiuse con cura la sua cassetta della posta e afferrò, con forza, le due buste che contenevano dieci contenitori, cinque per parte. Erano gli ultimi dieci litri che, aggiunti ai precedenti sessanta, sarebbero bastati per ciò che doveva fare. Aveva acquistato la roba
in negozi diversi, taluni anche molto distanti tra loro. Era stata un’operazione abbastanza laboriosa, ma ne era valsa la pena. Giunto davanti al suo appartamento, poggiò l’ultimo carico sul pavimento e cercò le chiavi nella tasca destra del cappotto, sotto le bollette da pagare. Il respiro affannoso di Rocky,