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Racconti e rime in viaggio
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E-book602 pagine7 ore

Racconti e rime in viaggio

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Info su questo ebook

 
Viaggiare è una delle attività umane più belle e affascinanti, da compiere se e quando è possibile. I viaggi si possono vivere e si possono scrivere, per sé e per gli altri. Sono sempre esperienze da ricordare. Ciascuna per quello che dà: storia, geografia, natura, popoli, amicizie. L’esperienza può offrire bellezza ma anche tristezza, panorami ricchi ma anche
distese vuote. In ogni viaggio si possono verificare eventi che segnano le persone che lo hanno vissuto. Sono gli “aneddoti” di quell’esperienza che la rendono unica, propria di quei viaggiatori. Condividerla anche con altri è una gioia e un arricchimento reciproco. L’inizio del mio viaggiare è stato singolare per l’epoca in cui si è svolto. Era il 1970 in Francia, per la prima volta, da sola. Poi ho continuato tutte le volte che è stato possibile farlo, prima con i piccoli viaggi quindi con quelli grandi, sostenuta dalla passione e aiutata dalla fortuna.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2022
ISBN9791280831125
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    Anteprima del libro

    Racconti e rime in viaggio - Rosalia Chendi

    Rosalia Chendi

    Racconti e rime in viaggio

    Collana Oltremare - Narrativa

    Frontespizio

    A mamma e papà

    che mi hanno lasciata libera di viaggiare

    Al mio primario

    che mi ha concesso il tempo per viaggiare

    Ai miei compagni di viaggio

    che hanno condiviso le avventure

    A coloro

    che non hanno potuto viaggiare

    Chi torna da un viaggio

    non è mai la stessa persona che è partita

    (Proverbio cinese)

    Prefazione

    Scrivere e viaggiare. Due passioni. Ho sempre scritto e ho viaggiato quando e quanto ho potuto. Sono state due attività che ad un certo punto si sono incrociate. Forse sono state influenzate da una passione primitiva: la lettura. Ho sempre letto molto, di tutto. Da una certa età in poi ho amato la letteratura di viaggio. I racconti di viaggio, tanto più se scritti da donne, mi hanno affascinato. Con invidia ho pensato a Ella Maillart, Alexandra David-Neel, Freya Stark, Dervla Murphy, viaggiatrici, sperando prima o poi di poter vedere i luoghi descritti da loro. Quella lettura ha influito sulla mia voglia di girare il mondo, anche se le comodità dei nostri tempi sono ben diverse per la durezza dei viaggi della loro epoca. Soprattutto per le donne. Ebbene, questo desiderio è stato esaudito. Avendo avuto la fortuna di viaggiare molto, mi è venuto spontaneo scrivere qualche pagina con le mie storie di viaggio. Molti amici me lo avevano già suggerito.

    Si può scrivere di viaggi per sé e anche per gli altri, per il piacere di ricordare e per confrontare esperienze e conoscenze. Ho sempre avuto la fortuna di avere buoni compagni di viaggio, con i quali ci preparavamo alle avventure. Dovunque siamo andati, c’è stato qualcosa da imparare: la geografia, la storia, il clima, la lingua, il cibo, gli usi dei popoli. Sono state esperienze varie: leggere, faticose, tristi, allegre, agitate, tranquille, fredde, calde, bagnate, secche. Spesso sono state segnate da avventure e aneddoti e proprio per questi eventi il ricordo è rimasto più impresso nella memoria. I viaggi sono iniziati in sordina, nell’età giovanile da sola o con gli amici. Con il tempo sono diventati sempre più complessi fino ad arrivare ai viaggi organizzati di lungo raggio, con programmi ben strutturati per visitare anche i Paesi più difficili.

    Ho sempre tenuto un diario quotidiano di viaggio. Poiché mi dilettavo già a scrivere prose e versi, ad un certo punto ho iniziato a scrivere anche un diario in rima per rendere il ricordo più vivace. L’abitudine è cresciuta piano piano, poi è diventata una consuetudine. Scrivevo qualche riga durante i trasferimenti o alla sera. C’era tanto da raccontare soprattutto nei grandi viaggi dove la meraviglia era maggiore. Dopo i primi tentativi, i compagni di viaggio aspettavano le rime come il regalo dell’ultimo giorno. Leggevo il diario alla serata dell’ultima tappa, alla cena dell’arrivederci organizzata dall’Agenzia di viaggio o nel percorso verso l’aeroporto. Le rime sono state scritte anche in viaggi turbolenti, con il risultato di ottenere una dubbia efficacia poetica ed espressiva. Ho amato giocare con le parole. Non sempre lo scrivere ha dato frutto e non sempre era possibile farlo. Spesso la stanchezza vinceva su tutto. Laddove sono state scritte, le rime di viaggio sono state inserite in questo libro alla fine del capitolo del Paese corrispondente.

    Alcuni viaggi hanno lasciato un segno indelebile per la preparazione che richiedevano per affrontare il viaggio con consapevolezza. Così in prossimità della partenza dei grandi viaggi c’era la condivisione con i compagni riguardo all’aspetto storico-geografico-culturale del Paese da visitare. Curioso era lo scambio di pareri su quanto portare con sé, come bagaglio. Cosa non bisognava dimenticare: documenti, occhiali, soldi, farmaci, e che cosa lasciare a casa perché inutile. Tutto questo in base all’area geografica da visitare, al clima che avremmo trovato, alle usanze presenti nel Paese e anche alle esperienze dei precedenti viaggi, che tanto hanno insegnato di volta in volta. Per esempio avevamo capito che era inutile portare abiti eleganti, tranne uno, semplice, per la serata finale. L’abbigliamento doveva essere pratico, a cipolla, per affrontare ogni evenienza, sovrapponendo un capo all’altro. All’inizio l’elenco delle cose necessarie prevedeva solo le utili fotocopie dei documenti, i rullini fotografici perché in alcuni Paesi potevano essere introvabili o scaduti, le penne per scrivere. Con il tempo l’elenco si è allungato ma rimpiccioliva la dimensione delle cose. Tutto diventava mini per ridurre peso e volume. In base alle esperienze si sono aggiunti una macchina fotografica di riserva (erano altri tempi), una piccola colla, un nastro adesivo, ago e filo robusti. Si aggiunsero anche i testi di canzoni che venivano cantate come intrattenimento anti-stress nel caso di trasferte lunghe e stancanti. Erano i testi delle canzoni più note del patrimonio popolare, che quasi tutti potevano conoscere. Di testi io ero molto rifornita, perché il canto era un’altra delle mie passioni. Naturalmente abbiamo evitato di cantare nei Paesi più difficili e con regole restrittive, dove esternare un’eccessiva allegria poteva essere controproducente.

    Con l’esperienza la preparazione del viaggio è diventata via via più sofisticata e anche il ritorno si è fatto con il tempo sempre più complesso. Le foto del viaggio erano il ricordo più prezioso da portare a casa. La raccolta ordinata negli album con i necessari commenti era doverosa per la nostra memoria e per trasmettere la conoscenza ad amici e parenti. Come molti, ho preso l’abitudine di portare a casa qualche oggetto-ricordo, anche se in alcuni Paesi è stato difficile, perché a volte non c’era nulla da comprare o la ricerca sarebbe stata troppo complicata. Sono tornata con copricapi, magliette, collane, cuscini, stoffe, scatoline, cucchiaini, che descrivevano la tipicità del luogo. Il ricordo che non poteva mancare era un disegno da incorniciare. Oggetti, foto, diari, commenti e disegni hanno facilitato il ricordo e anche questo racconto.

    Rosalia Chendi

    Agosto 1970 e 1971 – Parigi (Francia)

    Da studente a baby sitter e cuoca

    1970 - Tour Eiffel e visita a Versailles

    Il primo viaggio importante l’ho fatto in Francia, da sola, a diciotto anni, come ragazza alla pari. La destinazione era Parigi. A quei tempi pochi ragazzi viaggiavano. Soprattutto le ragazze. In particolare poche erano andate alla pari presso famiglie straniere. Alla pari significava offrire un servizio di lavoro domestico in una famiglia in cambio di vitto e alloggio. Era l’occasione per imparare la lingua del Paese. Alcune ragazze, che avevano fatto quell’esperienza, avevano avuto problemi. Si raccontava che qualcuna fosse scappata a casa. Figuriamoci con quale spirito i miei genitori avevano accolto la mia idea di andare alla pari in Francia a quell’età. Papà era abbastanza d’accordo, perché aveva uno spirito libero da viaggiatore. Mamma era la più preoccupata. Avevo cercato di organizzare tutto al meglio contattando alcune associazioni franco-italiane per studenti e mi ero iscritta a quella che era sembrata la più seria in base alle notizie ricevute. Avevo studiato francese alle medie e lo stavo studiando anche al liceo e mi sembrava di conoscerlo abbastanza bene. Così pensavo. L’associazione che aveva ricevuto la mia fiducia mi aveva messo in contatto telegrafico con una famiglia di Parigi. Non c’erano i telefonini e anche il telefono era poco utilizzato. Si scriveva molto per lettera e per telegramma. La descrizione della famiglia B di Parigi mi era sembrata ideale. Allo stesso tempo, a quella famiglia i miei dati erano apparsi adeguati alle loro esigenze. Così si sono incrociate le nostre storie. L’impegno avrebbe interessato tutto il mese di agosto, ma chiesero di anticipare l’arrivo a fine luglio in modo da farmi trascorrere qualche giorno a Parigi prima di trasferirci nella casa di campagna. Avrei avuto il compito di baby sitter e di supporto alla famiglia. Con telegramma comunicai il giorno e l’ora del mio arrivo all’aeroporto di Orly e scrissi che mi sarei fatta annunciare con l’altoparlante, come consigliato in agenzia. Per me era la prima volta all’estero, la prima volta in aereo, la prima volta lontano da casa, da sola.

    A Orly l’intenso movimento aereo di fine luglio ha scombussolato ogni piano. C’era un gran traffico, tutti gli aerei erano in ritardo e non era consentito ai passeggeri di fare annunci personali, proprio a causa dell’esagerata richiesta. Dramma. Non sapevo assolutamente come riuscire a rintracciare i miei signori. Dopo un iniziale scoraggiamento, avevo riposto la speranza di risolvere la situazione in un biglietto da visita della famiglia, che mi era stato inviato. Riportava il nome del marito e il numero di telefono del suo studio e vi avevo segnato anche il numero di casa. Ma il telefono francese non era come il nostro. L’apparecchio presentava lettere oltre ai numeri. Non era facile usarlo. A scuola non l’avevano spiegato. Con impaccio ero riuscita ad alternare numeri e lettere, per infinite volte, ma non rispondeva nessuno. Dopo un tempo di ore e di vera tensione, ha risposto la signora B al numero di casa. Mi ha sgridato perché lei era stata in aeroporto, mi aveva aspettato a lungo, eccetera eccetera. Ho cercato di spiegarle tutto e lì ho incominciato a inciampare nel mio francese, che, in quanto scolastico, non si dimostrava sufficiente per la comunicazione telefonica. Ci siamo comunque messe d’accordo. Le ho detto che l’avrei attesa davanti al banco di Alitalia, per me un luogo sicuro, e che mi avrebbe riconosciuta, perché ero vestita di rosso e nero con le valigie rosse. Difficile non notarmi. Come inizio, niente male. Dopo più di mezz’ora la signora è arrivata. Le presentazioni sono avvenute in auto mentre facevamo il viaggio dall’aeroporto a casa, in centro a Parigi. Ho capito subito che aveva dimestichezza con le ragazze straniere. Non mi sbagliavo. Infatti, io mi alternavo alla tata spagnola, Vicenta, detta Vissentà. Così come io sarei diventata Rosalià. Purtroppo non siamo riuscite ad incrociarci. Arrivate a casa, nell’appartamento di Boulevard Montparnasse, la signora mi ha detto che potevo disporre della casa. Potevo usare la cucina, il bagno, la camera, la casa come meglio desideravo. Potevo usare pure il telefono per chiamare i miei genitori e mi ha dato le chiavi dell’appartamento. Mi ha poi suggerito di uscire per un primo giro attorno a casa, consigliandomi di programmare qualche visita alla città per i successivi tre giorni. Con queste indicazioni mi ha lasciato da sola, libera di fare quello che volevo. Loro, i genitori del bimbo, avrebbero lavorato in quei giorni: lei era avvocato, lui era ingegnere. Saremmo rimasti a Parigi, mentre il loro bambino, che non aveva ancora un anno e che avrei dovuto curare, era già in campagna con i nonni materni. Li avremmo raggiunti là.

    Con le emozioni del viaggio addosso, affrontavo Parigi come in un sogno, senza capire bene cosa stava capitando. Cercavo di non perdere il riferimento a Viale Montparnasse, la via di casa. Dotata di un’enorme cartina di Parigi iniziai il giro partendo dalle vie vicine a casa. Avevo timore a muovermi in quella grande città sconosciuta. Non osavo prendere i mezzi pubblici per paura di sbagliare e di perdermi. Ho girato la città a piedi, fin dove ho potuto, provocandomi vesciche doloranti ai piedi. Ho visto i monumenti più importanti, soprattutto il Louvre, che non aveva ancora la piramide di vetro. Ho fatto fotografie con una piccola macchinetta. Era la prima esperienza fotografica di viaggio. La signora mi ha spiegato come prendere il treno per Versailles e sono andata da sola a vedere la reggia e a girare per i viali dell’immenso parco, rimanendo a bocca aperta nel godere di quella meraviglia. Con coraggio sono riuscita a chiedere ad un passante di farmi una foto. Non potevo perdere l’occasione di immortalare quella tappa così significativa. A inizio agosto abbiamo raggiunto la casa di campagna, a Poigny-la-Forêt, vicino a Rambouillet, dove c’era un altro bel castello da visitare. D’altronde avevo studiato che una caratteristica della Francia erano proprio i castelli, quindi potevano rientrare tra gli obiettivi di quella strana vacanza lavorativa. Ho conosciuto il bimbo e i nonni nella deliziosa casa di campagna in mezzo al verde. Il paesino era proprio immerso nella foresta, come diceva il nome. Genitori e nonni si sarebbero alternati ogni quindici giorni, scambiando le coppie a metà mese. Prima andarono in vacanza i genitori, poi i nonni. Con l’alternanza delle coppie io non avevo molto da fare: un po’ curavo il bimbo, un po’ aiutavo in cucina, imparando molte ricette francesi. Avevo molto tempo per leggere. Attingevo alla loro fornita libreria, ma non contenta mi ero comprata una mole di libri di letteratura francese, spendendo quasi tutti i soldi che avevo. Inoltre genitori e nonni mi aiutavano a conoscere parole e modi di dire che non si studiavano a scuola.

    Ero capitata proprio in una bella famiglia, singolare per cultura, per simpatia e per originalità. Il nonno, orologiaio e orafo, aveva l’hobby del giardino, in particolare per le erbe aromatiche e per le api. Mi aveva insegnato cosa e come raccogliere al mattino nell’orto con un bel cesto di giunco. Capitava che arrivasse dal bosco, dove teneva le arnie, bardato con un enorme scafandro da apicoltore, portando ceste di miele ancora in celle. La nonna aveva la passione dello yoga e la trovavo spesso in giardino con le gambe in aria, nella posizione a candela. Entrambi erano sulla settantina e avevano un fisico eccezionale. In genere si occupavano loro del bambino. Per le faccende domestiche pesanti c’era l’aiuto di una signora. Quindi a me rimaneva poco da fare, se non aiutare in cucina e seguirli al mercato, attività che amavo molto. Era una lezione continua di francese in tutto quello che facevamo insieme. Alla sera si parlava di libri o di viaggi. Infatti entrambe le coppie avevano viaggiato molto. I racconti erano affascinanti e penso che mi abbiano influenzato. Oppure si ascoltava musica classica alla radio. In una sala c’era anche un pianoforte che però non ho mai visto suonare. Alla sera si ascoltavano romanzi gialli radiofonici. Volevano proprio far migliorare la mia conoscenza della lingua e mi chiedevano di fare il riassunto di quanto avevo ascoltato nel programma. Non ho mai osato dire che odiavo i gialli, ma sono stata a loro riconoscente per l’insegnamento.

    Al ritorno dei genitori del bimbo le abitudini non cambiarono molto. Anche loro si occupavano del bambino e io avevo il tempo per fare altro. Mi pregarono di cucinare la pasta, le pastà, al sugo all’italiana. A quel tempo non sapevo fare quasi nulla in cucina, perché studiavo e basta. La pasta Buitoni si trovava anche là in alcuni negozi. Il sugo lo inventavo come potevo. Per loro era comunque una manna e gradivano la mia cucina italiana. Cosa dire del caffè? Avrebbero voluto anche il caffè all’italiana, ma c’era un grande problema. Non avevano nessuna caffettiera e usavano fare il caffè ancora con il filtro di carta. Roba dell’ottocento. Non avevo mai visto un filtro. Inoltre, il caffè macinato era un miscuglio sconosciuto di polveri di caffè. Ero davvero in difficoltà. Però sono riuscita ad escogitare il modo per rimediare una brodaglia che potesse assomigliare quanto più possibile al nostro caffè, filtrando la polvere più volte. Il problema più grosso consisteva nel mantenere caldo il caffè, ma a forza di tentativi sono riuscita a produrre un simil-caffè franco-italiano, almeno bevibile. Ero diventata una cuoca, mio malgrado. La signora mamma mi faceva visitare parchi, chiese e castelli e mi ha dedicato un pomeriggio intero per portarmi a Chartres a vedere la cattedrale. Erano tutte attenzioni che apprezzavo molto. Con i genitori del bimbo ero riuscita a vivere anche momenti sociali importanti, come la visita alla nonna paterna che viveva in una grande dimora con una estesa tenuta con boschi e campi da tennis. Ambienti e abitudini da romanzo. Inoltre mi hanno consentito di partecipare ad una cena per alcuni ospiti di riguardo con scienziati e fisici di Parigi e di Ginevra. Anch’io avevo aiutato a preparare la serata e mi sono sentita importante. E non era finita lì. A metà vacanza i genitori del bambino mi hanno proposto di accompagnarli alla fine del mese di agosto in Costa Azzurra, così avremmo attraversato tutta la Francia e visitato altri luoghi. Avrei potuto raggiungere l’Italia dalla costa mediterranea, in aereo nella prima ipotesi. In Costa Azzurra saremmo stati ospiti di un’amica della coppia insieme ad un gruppo di amici parigini, tra i quali un ministro di Pompidou, allora presidente francese. Avendo speso quasi tutti i soldi per i libri, avevo dovuto optare per il ritorno in treno. Ho scritto ad un amico del mio paese, che era a Bordeaux in quel periodo e con il quale mi ero tenuta in contatto. Siamo riusciti ad organizzare il ritorno insieme. Io avrei dovuto raggiungerlo al treno alla stazione di Cannes. Così è avvenuto. Tornare in compagnia è stato un viaggio più tranquillo di quello di andata. Della mini-vacanza in Costa azzurra ricordo una mitica bouillabaisse, una zuppa di pesce in riva al mare. Quell’aggiunta di viaggio mi era sembrata una favola. Un’avventura così grande non poteva non lasciare il segno, tenuto conto dei tempi e dei luoghi.

    L’esperienza si è ripetuta l’anno successivo nel 1971 per un nuovo invito da parte della famiglia, sempre per il mese di agosto. Al secondo giorno del secondo anno mi hanno chiesto se avessi potuto andare da loro anche per l’anno seguente. Per la terza volta. Avevo deciso di iniziare gli studi di Medicina e non sapendo che cosa sarebbe successo nel Corso di studi, ho comunicato loro che non potevo dare una risposta. Ho dovuto rinunciare a quella terza possibilità, non avendo la certezza di riuscire a mantenere l’impegno come negli anni precedenti. Nel 1971 il viaggio in Francia e il lavoro alla pari si sono ripetuti con le stesse caratteristiche. Ancora un po’ baby sitter, un po’ cuoca, un po’ scolara di francese e anche un po’ turista. Per la seconda volta è arrivata la proposta di andare in Costa Azzurra alla fine di agosto. Abbiamo fatto lo stesso lungo percorso in auto attraversando la Francia da Parigi al Sud del Paese, fino alla costa del Mediterraneo. In quell’occasione sono riuscita a tornare in aereo da Nizza. Ero stata più accorta nelle spese quotidiane e avevo potuto comprare un biglietto aereo. A Parigi avevo per la prima volta tagliato i capelli. Erano corti come mai prima di allora e all’aeroporto i miei genitori e l’amica Pinuccia faticarono a riconoscermi da lontano. Una sorpresa per loro e un segno di cambiamento per me.

    Luglio 1978 – POLONIA

    Dagli amici di Polonia agli amici di Molveno

    1978 - In riva al Mar Baltico e davanti all’Hotel Zurigo di Molveno

    Avevamo dato un titolo alla vacanza: Come andare a trovare un’amica a Molveno passando da Varsavia.

    Un’amicizia lontana ci ha portato in Polonia. Un manipolo di amici, io, Nicoletta, Gigi e Daniela, era partito per Varsavia. In quattro su una Diane rossa per andare da Anna, amica di Nicoletta. Anna studiava e insegnava italiano e abitava a Varsavia, capitale della Polonia. La mamma di Anna ci aveva inviato una lettera di invito, che ci sarebbe servita più tardi. Il primo tratto di viaggio è stato fatto in treno, con la combinazione treno più auto, fino a Vienna. Lì saremmo stati raggiunti da un gruppetto di amici di Gubbio di Nicoletta. Avremmo proseguito con due auto, attraversando la Cecoslovacchia fino alla Polonia. L’organizzazione del viaggio non era stata semplice. A quel tempo per entrare in Polonia veniva richiesto agli stranieri un versamento in dollari. Il governo polacco voleva così contrastare il fenomeno dei giovani hippy, che spesso arrivavano in Polonia senza soldi, creando qualche problema, cercando anche amicizie femminili. In quel modo si voleva essere certi dell’indipendenza economica di una decina di giorni per tutti coloro che entravano nel Paese. Ci siamo rivolti al Consolato polacco a Milano per tutta la pratica. Quei dollari ci sarebbero stati restituiti in złoti, la moneta polacca, alla dogana di confine, al nostro arrivo. Per tutte le spese ci siamo procurati quattro assegni in dollari della Chase Manhattan Bank di New York, tenendo pochi soldi liquidi per paura di perderli. Ma il percorso era ancora più complesso. Sapevamo che a Vienna avremmo dovuto andare all’Ambasciata di Cecoslovacchia per chiedere anche il visto di transito per quel Paese.

    A Vienna abbiamo alloggiato all’Hotel Concorde, che avevamo prenotato per un paio di giorni. Ci siamo dedicati alla visita della città, compresa Schönbrunn, la residenza imperiale estiva degli Asburgo, che abbiamo potuto visitare solo all’esterno perché era chiusa. Dal padiglione della Gloriette, una specie di tempietto, abbiamo goduto del panorama sul parco e sulla città. Tutto era magnifico. Anche la ruota del Prater ci aspettava. Il giorno dopo ci siamo recati in una banca per cambiare gli assegni, e lì è avvenuta la prima delusione: la banca vicino all’albergo era chiusa. Dovevamo studiare meglio gli orari. Con pochi soldi a disposizione il tenore di vita è cominciato a calare. Abbiamo dovuto chiedere la disponibilità della camera in albergo per prolungare la permanenza a Vienna e per poter avere il tempo di riscuotere gli assegni. Il giorno successivo siamo andati in una sede di Chase Manhattan Bank, ma è stata fatta obiezione. Non avrebbero cambiato gli assegni, perché erano intestati alla Chase Manhattan Bank di New York e non a quella di Vienna. Abbiamo dovuto impietosire il direttore con la scusa che avevamo la necessità di pagare l’albergo. Che peraltro era vero. Dopo tanto insistere venne cambiato soltanto un assegno su quattro. Comunque, eravamo diventati poveri. Il programma di viaggio andava rivalutato in toto. Ci chiedevamo se e come proseguire il viaggio, viste le lunghe distanze, i costi prevedibili e soprattutto quelli imprevedibili. Nel frattempo erano arrivati gli amici di Gubbio. Siamo andati insieme all’Ambasciata cecoslovacca per richiedere i visti, ottenuti dopo lunga attesa e relativa coda in compagnia di molti altri italiani. Per la difficoltà economica abbiamo dovuto accontentarci di qualche piccola uscita, rinunciando per forza alla Ruota del Prater e ad altri obiettivi turistici. La situazione non era semplice. Si è deciso che Nicoletta sarebbe partita con gli amici eugubini. Noi tre rimasti dovevamo rivalutare tutte le possibilità. In albergo abbiamo contato e ricontato i soldi per decidere se proseguire o se tornare indietro. Siamo rimasti due giorni in più per sfruttare l’albergo pagato, mangiando quanto potevamo racimolare a colazione: pane, marmellate e formaggini. Abbiamo bevuto parte del vino che gli amici ci avevano lasciato, perché il posto del vino era stato occupato dal bagaglio di Nicoletta. Il vino avrebbe dovuto essere il regalo per gli amici polacchi. Ne è rimasto poco. Dopo tanto pensare abbiamo deciso di tentare l’avventura almeno fino al confine polacco per riscuotere la quota di złoti che ci spettava. Erano assicurati solo la benzina e i panini di sopravvivenza.

    Abbiamo attraversato la Cecoslovacchia con il terrore che ci capitasse qualcosa di grave. Siamo partiti con il pieno di benzina prima di entrare in territorio cecoslovacco. Dovendo fare solo un centinaio di chilometri per attraversare lo Stato, contavamo e speravamo di non avere guai o bisogni particolari. Il Paese aveva un’aria triste, quasi da dopoguerra, con un aspetto povero e decadente, ma il panorama della campagna verde compensava. Stavamo riuscendo nell’impresa, quando a pochi chilometri dal confine con la Polonia siamo stati fermati dalla Polizia. Con atteggiamento molto severo i gendarmi cercavano di dirci che dovevamo pagare una multa di cento corone. Impensabile, con pochi soldi e nessuna moneta locale nelle nostre mani. A fatica, siamo riusciti a capire che il motivo della multa era la mancanza di cinture di sicurezza in auto. In Italia non erano ancora obbligatorie. Abbiamo pensato di tenere un atteggiamento compiacente per indirizzare la discussione a nostro favore. Per fortuna alcune scatole di pasta Barilla sovrastavano i bagagli, i militari le hanno viste e si sono inteneriti, lasciandoci andare. La simpatia per il cibo italiano ci aveva salvati. Finalmente, la strada per la Polonia era libera. Verso sera abbiamo raggiunto il confine polacco a Čzeský Těšín e affrontato una lunghissima coda di auto e la severa burocrazia dell’Est per superare la dogana. Dopo tanta fatica ciascuno di noi è riuscito ad avere la sua manciata di dollari in złoti, che con i soldi risparmiati ci avrebbe reso meno poveri, anche se sempre a rischio di sopravvivenza in un paese straniero. Dopo una notte in un motel lugubre e polveroso e un cambio al mercato nero per gli ultimi scellini austriaci abbiamo deciso di proseguire per Varsavia. La città era presidiata su tutte le strade di accesso. Per noi era inconcepibile vedere tanta polizia ovunque. Eravamo in prossimità della Festa nazionale del 22 luglio. A parte la preoccupazione della vista dei militari, a Varsavia il nostro destino si è ribaltato. La proporzione tra złoti, dollari e lire era tutta a nostro favore. Eravamo diventati ricchi, tanto da poter offrire pranzi agli amici polacchi. Per dormire non spendevamo nulla, perché eravamo ospitati in un appartamento arredato, ma non abitato, di uno zio di Anna. Sembrava abbandonato, ma c’era qualche traccia di passaggio (ossa secche di pollo e latte cagliato). Il bagno era un po’ fatiscente e la vasca da bagno era piena di verderame, inutilizzabile. C’era però la corrente e anche il telefono, ma Anna ci aveva pregato di non rispondere assolutamente se avesse squillato. Di chi era quella casa?

    La preoccupazione era sostenuta anche dal tipo di quartiere in cui si trovava l’appartamento: un quartiere grigio, tetro, buio di sera. Ad aumentare la tensione c’è stato un episodio che mi ha riguardato. Dormivo su un divano proprio vicino al telefono e nel dormiveglia, al trillo, ho risposto spontaneamente, in polacco, non capisco. Tutte le raccomandazioni erano andate in fumo. Però avevo dimostrato di avere studiato la lingua. Non ci risulta che ci siano state conseguenze per quel mio atto impulsivo. Gigi ha combinato un guaio che avrebbe potuto metterci in grande difficoltà e magari fargli togliere la patente. Girando in città aveva imboccato contromano un viale. La polizia è riuscita a fermarci e a indirizzare il traffico in modo da toglierci da quel pericolo. La fortuna ci ha assistito ancora una volta. Gigi ha avuto la prontezza di mostrare agli agenti la lettera della famiglia polacca che ci invitava a recarci a Varsavia. Questa accortezza ha salvato la situazione. Qualche problema è stato creato dal gruppo degli amici eugubini che si davano da fare con discoteche e ragazze, tanto da doverci scusare per il loro allegro comportamento con la loro padrona di casa e con la madre di Anna, che li avevano accolti con fiducia. A contrasto, noi eravamo i bravi ragazzi. Tra le tante incombenze burocratiche c’era l’obbligo di andare al Consolato cecoslovacco di Varsavia per fare il visto di transito per il ritorno, ottenuto in quel caso senza difficoltà.

    Dopo la dieta fatta in Austria, in Polonia abbiamo apprezzato la cucina polacca. Era una cucina semplice fatta di zuppe di diverso colore e di vario gusto. Una zuppa tipica aveva la barbabietola rossa come ingrediente fondamentale e spiccava per il bel rosso acceso. Vedevamo mangiare le zuppe come prima colazione, abitudine per noi troppo strana. Non ci siamo abituati. Inoltre nei menù c’erano pollo, wurstel, trippa piccante, sfoglia salata con ripieno di carne, cavoli, patate, pomodori, uova. Le patate erano il piatto nazionale. Una gradevole sorpresa è stata la torta di papavero, un dolce fatto di pasta morbida, condito con marmellata o crema e tanti semi di papavero, un ingrediente fondamentale per i dolci polacchi. Quasi sempre abbiamo pranzato in compagnia di Anna, Zbignew il suo fidanzato e i loro amici. Insomma eravamo sempre in festa con grande piacere, seppur con pranzi semplici tipicamente polacchi, a casa degli amici o al ristorante. Noi vivevamo una situazione molto fortunata perché avevamo mezzi sufficienti per fare acquisti e per fare pranzi. Non era così per tutti. L’atmosfera sociale era un po’ fredda, come il clima che ci ha accompagnato: vento e freddo ci hanno seguito per tutto il viaggio, anche se era estate.

    Eravamo ancora ai tempi della guerra fredda. Mancava ancora una decina d’anni alla caduta del muro di Berlino del 1989. Come molti Paesi dell’area sovietica anche la Polonia viveva tempi difficili, ancora con molte restrizioni. In effetti i supermercati erano scarsamente forniti e non era una visione piacevole. L’idea delle ristrettezze per la popolazione l’abbiamo avuta chiara quando siamo capitati in un paesino di campagna dove i contadini vivevano in povere case e portavano calzature stracciate, tenute insieme da pezzi di stoffa. Una visione triste che è rimasta nitida nella mente. Durante una sosta siamo riusciti a scambiare due parole, per modo di dire, con i contadini. Loro ci hanno regalato pomodori e cetrioli e noi abbiamo regalato loro del vino. Un regalo grandioso. In quegli anni la popolazione viveva con poco e inoltre subiva il razionamento per molti prodotti. Tra questi c’era la benzina, che per noi era essenziale per poter visitare il Paese e per ritornare poi a casa. I prodotti razionati erano venduti con i buoni, come da noi al tempo della guerra. Quindi molte azioni dovevano essere fatte di nascosto. I buoni benzina si compravano solo con valuta estera. Serviva molta benzina per girare e gli amici polacchi ci procuravano taniche di benzina con qualche strategia. Noi andavamo in stradine sperdute o in campagna per travasarla nel serbatoio, magari con un semplice foglio di plastica trasformato in imbuto. Ci siamo bagnati molte maniche di camicia. Anche con qualche rischio.

    Procurandoci la benzina in qualche modo siamo riusciti anche a dedicarci ad una gita fino al Mar Baltico. Lungo il percorso abbiamo fatto molte tappe. In particolare abbiamo sostato a Torun, città natale di Copernico, religioso, astronomo e matematico. Danzica si è presentata con le sue case nordiche, alte, colorate, tipiche della città vecchia. Abbiamo trovato alloggio in una casa dello studente, qualcuno nel letto, qualcuno nel sacco a pelo e qualcuno sul materassino gonfiabile. Un’avventura molto spartana. Contro ogni previsione, abbiamo potuto visitare Danzica e i dintorni. A Sopot, un centro di villeggiatura che incredibilmente sembrava una spiaggia adriatica con un lungo molo in legno, abbiamo assistito ad un bel tramonto nel freddo nord. Con il traghetto abbiamo attraversato la baia di Danzica per raggiungere la penisola di Hel. Con grande gioia abbiamo bagnato i piedi nel Baltico. Mai avremmo pensato di arrivare tanto lontano. Siamo tornati a Varsavia a notte fonda dopo aver attraversato panorami verdi di foreste e laghi. Ma la felicità di essere tornati è stata turbata quando nel buio del quartiere una camionetta di militari con mitra spianato ci ha seguito e fermato. Pensando alla misteriosa casa, abbiamo ritenuto che il motivo fosse proprio quello di occupare un appartamento forse sospetto. Hanno intimato all’autista Gigi di scendere dall’auto e hanno cercato di spiegargli qualcosa che non capivamo. Alla fine abbiamo intuito che avevamo messo la freccia a sinistra per girare a destra, come se avessimo voluto confondere qualcuno. In quell’epoca la Polonia era ancora il paese del sospetto. Per fortuna hanno lasciato perdere.

    Tra avventure e improvvisazioni siamo riusciti a girare la Polonia e a visitare bene città come Varsavia e Cracovia. Abbiamo anche scherzato sul nome del fiume che percorre queste città, la Vistola. Il motto ripetuto Hai visto la Vistola? ci ha fatto spesso sorridere. Per come era iniziato il viaggio nella povertà, non avremmo pensato di concluderlo da ricchi per l’aiuto di un cambio favorevole e anche di riuscire a tornare a casa con qualche mille lire in tasca e gli assegni risparmiati. Avevamo programmato sin dall’inizio di fermarci a Molveno al ritorno. Così è avvenuto. Dopo le tante avventure è stato piacevole incontrare i miei amici Silvia e Marco, che avevano un albergo a Molveno in Trentino. Lei, milanese, aveva studiato qualche anno di Medicina con me a Milano e aveva sposato Marco, trentino, maestro di sci e albergatore. La mia amica aveva lasciato gli studi per diventare una perfetta albergatrice in quel bellissimo territorio sul lago di Molveno. Ci hanno accolto a braccia aperte e ci siamo finalmente sentiti al sicuro. È stato un viaggio difficile con un lieto fine tra le cime delle Dolomiti. Quel viaggio e quell’anno l’avremmo ricordato per sempre, anche per un altro evento. Era l’anno dei tre Papi. Dopo Paolo VI e Giovanni Paolo I, nell’ottobre 1978 è stato eletto Papa Giovanni Paolo II, un Papa polacco, che ha lasciato un forte segno nella storia della Polonia e non solo. Quella storia stava cambiando con la nascita del sindacato Solidarnosc, l’elezione del presidente Lech Walesa nel 1990 e quanto è seguito, che ha portato la Polonia verso l’epoca moderna.

    Agosto 1979 – LOURDES (Francia)

    Nessun miracolo, anzi

    1979 - Davanti alla Grotta di Lourdes e in gita con Pascal

    Tra i primi lunghi viaggi va annoverato quello che ha portato in Francia e a Lourdes. L’obiettivo del viaggio era quello di fare visita agli zii di Pinuccia-amica a Mont-de-Marsan nel sud della Francia, in prossimità dei Pirenei. C’erano anche Pinuccia-cugina, Teresa e Antonio. Eravamo in cinque con due piccole 126 Fiat. Era un lungo viaggio e per questo abbiamo previsto diverse tappe per visitare luoghi sul percorso, per conoscere il territorio attraversato e per pernottare in tenda in campeggio. Per fortuna avevamo Antonio, esperto in montatura di tende. A distanza di tempo non ricordiamo le singole soste. Sicuramente quella più famosa e interessante è avvenuta ad Avignone, dove abbiamo camminato per le strade dell’antica città, visitato il Palazzo dei Papi e conosciuto la storia complicata dei suoi illustri ospiti. Avignone è famosa per avere ospitato otto Papi nel XIV secolo nel periodo che venne chiamato cattività avignonese, che durò una settantina d’anni. Fu costruita una cattedrale tanto imponente da essere considerata per metà chiesa e per metà fortezza.

    All’arrivo a Mont-de-Marsan siamo stati accolti dagli zii in maniera strepitosa. I fratelli di origine veneta erano emigrati in Francia tanti anni prima e avevano lavorato duramente. Quindi avevano costruito le loro famiglie e si erano inseriti molto bene nella società francese, seppure con tutte le difficoltà tipiche dell’emigrazione. Al contempo avevano mantenuto le buone abitudini italiane, rappresentate dalla cucina tradizionale e dalla festosa capacità di accogliere gli ospiti che arrivavano nelle loro case. Ci hanno intrattenuto con grandi pranzi e buone bevute di Armagnac, un distillato di vino francese prodotto nel Sud della Francia ai confini con la Spagna. È l’acquavite più antica di Francia. Mont de Marsan faceva parte del territorio tipico di produzione di quell’acquavite. Non sono mancati indimenticabili momenti danzanti con parenti e amici italiani e francesi, nonché dopocena ravvivati da canti popolari italiani. Tutti gli zii avevano case gradevoli, sia che fossero semplici case di quartiere o grandi tenute con distese collinari, giardini e allevamenti con anatre, oche per foie gras e mandrie. Il territorio offriva paesaggi ricchi di verde, con zone di estese e folte foreste. I paesi erano inseriti in quel territorio verde e nei tratti di foresta le case erano a grande distanza l’una dall’altra. Dovunque andassimo eravamo immersi in scene bucoliche a non finire. In un momento di spavalderia presso la tenuta di uno degli zii io volli scavalcare un filo che correva lungo il recinto delle mucche: lo strinsi per aiutarmi nel salto, ma rimasi scossa da un tremito nelle mani. Era il filo elettrificato per dissuadere le mucche con la scossa elettrica dal fuggire dai pascoli e dai recinti. Per mia fortuna era una scossa a bassa tensione. All’urlo per lo spavento, le mucche guardarono la sprovveduta sottoscritta, che sembrava volersi aggregare a loro. Di fronte a quella scena comica gli amici e i parenti scoppiarono in una risata fragorosa. Una scena divertente che è rimasta nel ricordo di tutti.

    Oltre ai paesi degli zii abbiamo visitato città e borghi del Sud occidentale della Francia. Ci siamo spinti fino a Biarritz sull’Oceano Atlantico per fare un pizzico di turismo di mare e godere della bellezza delle onde dell’oceano. I nostri trasferimenti avvenivano sempre con soste in campeggio. Data la zona, non potevamo evitare di recarci a Lourdes, città di grande spiritualità, molto famosa e tanto vicina ai paesi degli zii. Lourdes era il luogo dove l’11 febbraio 1858 la Madonna era apparsa alla piccola Bernadette presentandosi come l’Immacolata e raccomandando la preghiera del Rosario. Ci siamo recati con le nostre piccole auto, portando con noi il piccolo cugino Pascal, figlio minore degli zii che ci ospitavano. Il tempo non era buono a causa di nuvole e pioggia. È noto che a Lourdes piova spesso e così è stato anche in quell’occasione. Lourdes non si smentiva. Un’altra prova ci stava aspettando. Prima di arrivare a Lourdes ci siamo ritrovati con una ruota bucata e abbiamo dovuto cambiarla, sotto l’acqua di quel cielo grigio e bagnato. È noto che gli eventi sfortunati vengono raccontati nelle barzellette che riguardano la città dei miracoli e anche noi non abbiamo fatto eccezione. Non ci aspettavamo miracoli ma avremmo gradito quel poco di fortuna utile per avere una tranquilla passeggiata. Eravamo credenti e comunque ci faceva piacere essere in un luogo di pellegrinaggio così importante per la fede cattolica. Ma c’era un altro neo, neanche tanto piccolo, che ha turbato quella visita. Era dato dalla visione della infinita serie di negozi che vendevano madonne e rosari. Quel commercio religioso ci è apparso troppo sfrontato e lontano dall’aura spirituale che avrebbe dovuto avvolgere quella località. Ci ha deluso.

    Un altro evento ha segnato la visita alla cittadella di Lourdes. Pinuccia-la cugina aveva notato che Pascal continuava a grattarsi la testa con esagerata insistenza. Un dubbio si è affacciato alla sua mente. Potevano essere pidocchi? Lei era esperta in quella specialità, poiché aveva tanti fratelli piccoli, e quindi aveva affrontato tante volte quel problema nella sua famiglia. Con quel sospetto e in modo automatico abbiamo iniziato a grattarci in testa, un po’ con preoccupazione e un po’ ridendo. Eravamo senz’altro condizionati dal pensiero di avere qualche estraneo in testa. Una suggestione che aveva travolto tutti, quasi senza esserne consapevoli. Era iniziata la caccia. Da quel momento abbiamo cominciato a spulciare Pascal e subito dopo a controllare anche le nostre teste a catena, come fanno le scimmie. Alla fine del viaggio si è capito che nessuno di noi aveva avuto

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