Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli
Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli
Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli
E-book352 pagine4 ore

Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Storia, arte, natura e folklore: un viaggio inedito nella bellezza friulana

Il Friuli è la terra di confine per eccellenza, un punto di incontro di persone, lingue e culture diverse che, nei secoli, hanno dato vita a luoghi densi di storia e di leggenda. Una terra che, nonostante sia da tempo meta ambita per i turisti, ha ancora molti tesori nascosti e insoliti da offrire a chi sa dove cercare. Angelo Floramo ci conduce in un viaggio alla scoperta di queste perle friulane poco conosciute. Un itinerario che si snoda attraverso gioielli naturalistici e architettonici, a caccia degli eventi, personaggi e aneddoti più strani e affascinanti di questa meravigliosa regione. Dal duomo di Spilimbergo alla leggenda del cane Patatocco, dalle tracce di Dante in Friuli alle misteriose necropoli sotterranee, dai luoghi del cinema e della letteratura alle mete gastronomiche più imperdibili: una guida fondamentale per tutti coloro che vogliono immergersi nella vera anima di questa terra straordinaria.
I luoghi della storia e della leggenda: una guida verso le meraviglie nascoste di questo crocevia europeo

Il duomo di Spilimbergo: un’arca di meraviglie custodita nelle mura di un borgo medievale

Lo sapevate che l’inventore del circo era friulano?
Dante Alighieri e il Friuli. Alla ricerca di indizi e di misteriose tracce
Le osterie tradizionali: uno spazio tutto friulano di irriverente libertà
Come è andata e come avrebbe potuto andare: la storia impossibile nasce qui in Friuli
Borghi sperduti dai nomi improbabili: quattro passi in un altrove di straniante bellezza
Angelo Floramo
Laureato in Filologia latina medievale e dottore in Storia medievale, insegna Lettere e Storia. Ha collaborato con l’Archivio Storico italiano, è consulente scientifico della biblioteca Guarneriana Antica di San Daniele del Friuli. Con la Newton Compton ha già pubblicato: Forse non tutti sanno che in Friuli…; Storie segrete della storia del Friuli; Le incredibili curiosità del Friuli; Breve storia del Friuli, Il Friuli che nessuno conosce e Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2022
ISBN9788822768605
Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli

Leggi altro di Angelo Floramo

Correlato a Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Viaggi in Europa per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli - Angelo Floramo

    Introduzione

    E dunque questo è il sesto. Come cosa? Il sesto libro che scrivo sul Friuli per i tipi della Newton Compton. Una bella collaborazione cominciata sei anni fa e ancora ricca di tante possibilità inespresse. Mi stupisco ogni volta che consegno il materiale all’editore che nel cassetto rimanga ancora tanto da sistemare. Una montagna di cose: informazioni raccolte strada facendo. Storie, leggende, narrazioni, prospettive e paesaggi. Curiosità. Incontri che diventano storie. Sorprendenti anche per me che qui, in questi paraggi, ci sono nato e continuo pervicacemente a vivere, credendo che resti un luogo speciale. Anche da raccontare. Ogni volta, limando il testo prima della consegna, gli scampoli che restano tagliati fuori basterebbero da soli a confezionare un nuovo libro. E ce ne sono già a sufficienza per il prossimo. Per questo, a buon conto, non li cancello mai. Finiscono in una sezione recondita della mia banca dati che porta il nome evocativo di materiali in esubero. Sono lì. Non si sa mai. Perché questa mia terra è ricca di tante cose. Per troppo tempo considerata la periferia del mondo, in realtà ne è il cuore, attraversata com’è da confini e frontiere, non solo geografici, ma linguistici, culturali, perfino climatici. Un amico meteorologo mi spiegava proprio ieri che qui da noi alitano il Mediterraneo, la steppa e le Alpi. E per questo la biodiversità è accentuata più che altrove. Ci sono certi fiori che sbocciano anche sulle praterie della Carnia e in Siberia. E alcune farfalle si posano sui fiori della Bassa come sui prati dell’Andalusia. Mi sento dunque un privilegiato, e la fatica di mettere insieme tutte queste architetture, dettate dall’uomo o dalla natura, è il mio personalissimo modo per esprimere la gratitudine al Fato, a Dio o chi per lui, per il fatto di poter esprimere la vaghezza del mio andare, sempre più asistematico ed errante, tra i mosaici di Aquileia, i casoni di Grado, le forre dell’Arzino o i ghiacciai del Montasio. Se la mia lingua madre è quella friulana, perché l’ho lambita con la lingua assieme al latte dal seno di una donna nata in un borgo rurale di San Daniele del Friuli, grazie a mio padre mastico lo sloveno del carso, quello che sa di roccia e di bora. Ma ho avuto una nonna tedesca, antenati svevi, normanni, longobardi, bizantini, slavi. Alle volte mi chiedo chi sono davvero. E non saprei darvi una risposta. Mi limito a tenere un Moleskine, abbastanza piccolo per non creare intralcio, dentro la tasca posteriore dei miei calzoni. E durante le pause prendo nota: di un affresco o di un tramonto. Di un succulento piatto della tradizione preparato nella cucina di un’osteria di campagna, o il cartiglio di un’antica pergamena, custodito in una delle tante biblioteche storiche che segnano i confini della memoria che condivido con le mie genti. Plurali, meticce, intersecate. Sì, sono innamorato di questa mia terra. E sono grato di poterla cantare. Magari in maniera incongrua, asistematica e impropria. Ma d’altronde non si può mica chiedere a uno stordito da tanta bellezza di essere razionale e compunto, no? Il titolo che mi è stato proposto mi è piaciuto fin da subito: una guida curiosa. Il termine è antico. Deriva da cur che in latino significa perché?. Da insegnante quale sono, che in trent’anni di carriera ha rovinato più di una generazione di studenti, ho sempre insegnato loro che questa è l’unica domanda ammissibile per noi, che siamo parte di quell’umanità girovaga che è condannata a vagare tra cielo e terra, dal suo primo respiro fino all’ultimo che esaleremo. Non è detto che la risposta arrivi subito, anzi! Va cercata ovunque. Sotto i sassi, tra le pieghe di un libro antico, lungo i sentieri di montagna, nelle storie che porta la tramontana quando si fa sera. Per questo le pagine che voi, lettrici e lettori gentili e compiacenti sfoglierete, sono assolutamente arbitrarie. Non corrispondono a nessuna architettura prestabilita. Non vogliono dimostrare alcun teorema. Se le vorrete sfogliare sono solo un suggerimento a prendere la strada assieme a me, che le ho scritte per voi. Soltanto per chiedervi di farmi compagnia in questo gironzolare senza senso, che alla fine del viaggio restituisce un profilo del Friuli che è mio. Legato alla prospettiva del mio sguardo. All’arbitrarietà del mio voler annusare le pestate che mi hanno condotto in un randagismo senza meta. Come chi ha un po’ di tempo per sé e decide di uscire di casa lasciando che siano i passi a decidere quale via prendere, una volta giunti all’incrocio. Vedrete che si parlerà di tante cose. I luoghi sono per me sempre un pretesto per raccontare le storie di chi li vive o li ha attraversati tanto tempo prima di noi. Un’ultima confessione, se me la permettete: si mangia e si beve. Molto. Perché sono profondamente convinto che l’anima di una terra ha il profumo dei piatti che sa cucinare. E quindi capiterà che tra affreschi e pievi, antichi ponti e paesaggi da vertigine, vi inviterò a fermarvi per il tempo di un pranzo o di una cena, o al limite di uno spuntino veloce, perché un calice di vino o un sugo speziato possano raccontarvi con le loro lusinghe quello che nessuno saprebbe mai spiegarvi a parole. Che dirvi dunque? Nient’altro. Se non buon viaggio. E che sia il vostro un goloso, sapido viaggiare.

    Il Friuli: una terra costruita attorno al bordo del mondo. Suggestioni e viandanze perimetrali

    Prendete una cartina del Friuli. Una mappa. E immaginate di percorrerne il profilo. Sottolineatele come volete: con un evidenziatore giallo, rosso, verde. Fate voi. Proprio come quando eravate a scuola e la maestra vi chiedeva di riprodurre i contorni di una Regione. Ecco. Pronti? Si va.

    Il Friuli e l’Istria, dal

    XVI

    secolo alla fine del

    XVIII

    .

    Da Caneva al confine austriaco

    Percorrere un bordo significa avere la sensazione di muovere i propri passi lungo una fune tesa tra i mondi. È un gioco che facevamo da bambini (ve lo ricordate?), quello di camminare lungo un perimetro sottile, alle volte anche soltanto immaginario, pensando che tutto intorno a noi sprofondassero baratri di affannosa vertigine. Così ho deciso di aprire questo mio ennesimo libro sul Friuli proponendovi una passeggiata lungo quella linea incerta che definisce il profilo di questa terra, nodo di tante storie e di molteplici sedimentazioni. Ammetto che si tratta di un’operazione azzardata e anche piuttosto arbitraria. Perché lo sappiamo bene: i confini vengono tracciati a tavolino da qualcuno che, ispirato chissà mai da che cosa, ha deciso che debbano passare proprio di lì e da nessun’altra parte. Ma la realtà delle cose è molto più complicata. Esistono mille intersezioni, sovrapposizioni inattese, fiordi culturali profondi, contaminazioni che mescolano le carte spesso in maniera indecifrabile, giocando con le suggestioni paesaggistiche, con quelle linguistiche e architettoniche, in un caleidoscopio che rende tutto molto più complicato ma anche estremamente avvincente. Pertanto, nei lunghi mesi di quest’estate feroce e infuocata, armato soltanto di un Moleskine per appiccicarvi sopra le mie emozioni, ho intrapreso questo viaggio per cercare di capire dove finisse il Friuli per lasciare il posto a qualcosa d’altro. L’occasione per cominciare è stata una magnifica serata di luglio in uno dei luoghi più interessanti sotto questa prospettiva, e purtroppo esclusi dai circuiti turistici tradizionali: la città di Caneva, significativo avamposto occidentale, in provincia di Pordenone, dove il Friuli lentamente degrada verso le dolci campagne del Veneto. Qui tutto ha il sapore di una fiera resistenza culturale. A partire dal recupero di antiche colture e di prodotti salvati dall’oblio, capaci di restituire profumi e sapori che difficilmente si potranno dimenticare, come quello dei formaggi di capra o del figo moro, legno antico dal cui frutto si possono trarre marmellate da leggenda.

    Veduta del castello di Caneva (foto di Giulio1996Cordignano su licenza CC BY-SA 4.0).

    Dal centro abitato si sale lungo una strada che si inerpica regalando belle sorprese allo sguardo. Chi raggiunge il sito dell’antico castello medievale, già sedime di un castrum romano, non può che lasciarsi conquistare dalla struggente malinconia dei suoi ruderi, immaginando, mentre cammina tra i sassi ricoperti di erbe e di muschi, la vita che un tempo fu certamente animata dentro le mura del borgo, ormai ridotte a poca cosa ma pregne di quella potenza che sempre hanno le testimonianze della storia nel farci immaginare i suoni, le voci, il pulsare delle officine, la fatica e la bellezza del vivere insomma, quella che fa del tempo una opportunità per coloro che se ne lasciano attraversare. Da lassù, accompagnato da una guida d’eccezione, Luciano Borin, che mi ha disvelato ogni segreto, ho potuto godere di una vista capace di arrivare alla marina di Trieste, a oriente, e ai monti Berici a occidente. «Ci sono certe giornate così terse», mi ha garantito il mio sapiente informatore, «che ti pare di toccare il cielo, avvertendone tutta la trasparenza cristallina!». E aveva ragione. Un temporale, nel pomeriggio, aveva cancellato ogni foschia. Il profumo intenso che veniva dalla boscaglia suggeriva altre fughe lungo la fitta rete di sentieri che dipartono da quel piccolo nodo di case per arrivare chissà dove. Così, guidato dalla saggezza del mio interlocutore, mi sono appuntato la partenza del mio itinerario, destinata poi anche a coincidere con la sua conclusione, alla fine di questo mio avventuroso andare. I dintorni di Caneva offrono moltissime occasioni per immergersi in un contesto in cui la natura e la cultura si sono incontrate per millenni, allacciando vicendevoli abbracci. I boschi che si estendono proprio lungo il tracciato del confine regionale un tempo venivano utilizzati dalla Serenissima per rifornirsi di quel legname che poi sarebbe stato utilizzato in Arsenale, a Venezia, per costruire le galee che battendo bandiera di San Marco avrebbero presidiato la rotta dell’Adriatico orientale, giù fino a Bisanzio, e oltre a Cipro e a Creta, nel «greco mar». L’esperienza di perdersi lungo i tracciati erbosi che conducono ai panorami di Madonna dei Scalin o di Pian Salere è davvero impagabile. Qui correva il servizio postale che per secoli giungeva fino all’altopiano del Cansiglio. Ne è testimonianza quel toponimo che indica Posta Cavarzerani, in località Maloria. Il passo stanco del viandante può trovare sollievo in una sosta, concedendosi qualche minuto di ristoro. E se non avrete avuto l’accortezza di portarvi nello zaino qualcosa da mettere sotto i denti, non dovrete certo disperare. Ci sarà sempre una locanda, nei paraggi, a consolarvi. E qui l’ospitalità ha tutto il sapore di un tempo: dalle cucine provengono profumi speziati e vaporosi inviti a raccogliersi attorno a un tavolo, mettendosi all’ascolto delle tante storie che sicuramente rimbalzeranno tra un bicchiere e l’altro, alternandosi ai brindisi e ai discorsi conviviali. Basta raggiungere Malga Coda di Bosco dal Titti per degustare nel piatto tutta la sapienza che qui ha il sapore dei formaggi che sanno di fieno e di erba, e di fiori. I cuori più inclini a sognare, nel silenzio che questi luoghi sanno regalare, potranno sentire ancora lo scalpiccio degli zoccoli, i nitriti, lo schiocco delle fruste, le voci dei postiglioni che attraversavano l’antica via che qui viene ancora detta via del Patriarca, in memoria di quell’epoca ricchissima di tante suggestioni che fu appunto l’età patriarcale, quando sullo scranno della basilica di Aquileia regnavano principi ecclesiastici che per secoli fecero delle terre friulane uno dei più importanti stati dell’Europa medievale. D’altronde questa è una terra capace di ammaliare il viandante, e il presente qui si lascia permeare di suggestioni che altrove è difficile incontrare. La via del Cansiglio procede capricciosa e bellissima, come le donne di queste contrade, secondo alcune cronache antiche custodite negli archivi parrocchiali. Infatti sconfina, ribelle di ogni geografia, e basta una curva per trovarsi in Veneto, quando alla successiva si ritorna in Friuli. E nel frattempo si sale abbracciati da una delle foreste più antiche d’Italia. Il Cansiglio. Persino il suo nome è capace di ingenerare una profonda sensazione di rispettosa deferenza, quella che i nostri antenati tributavano all’anima della terra. Alcuni dicono che derivi da campus silens: silenzioso. O da campus silvae: luogo di foreste. Chi vi si trova a percorrere questa via ha la certezza che entrambe le ipotesi hanno ragione d’essere. L’unico rumore che si avverte è infatti proprio il respiro del bosco. Le foglie accarezzate dal vento, lo scricchiolio dei legni, il grido acuto di qualche rapace che solitario solca il cielo per scomparire quasi subito alla vista. L’uomo di Cro-Magnon qui cacciava le sue prede, più di diecimila anni fa. Lo testimoniano le numerose punte di freccia scheggiate nella selce che sono state rinvenute tra queste balze muscose. Seguono a vertigine i millenni, e il primo documento che attesta uno sfruttamento di queste foreste risale al

    X

    secolo. È infatti il 923 l’anno in cui Berengario

    I

    concede alle comunità i diritti di pascolo e il taglio del legname. Sono i secoli dell’Alto Medioevo. Di qui transitavano pellegrini e cavalieri, monaci erranti, briganti, pastori. Al Pas de la Croseta si scavalca a quota 1127, rimanendo ancora in territorio di Caneva. Se tutti i passi sono capaci di quella profonda suggestione che dà all’errante l’idea di aver superato il colmo della strada, qui la sensazione si fa anche più forte per la semplicità dell’attraversamento, segnato dalla consueta indicazione toponomastica e altimetrica ma soprattutto dall’edificio di una classica osteria di passo: un edificio che si allunga sulla strada, come se volesse lusingare il viandante fino all’ultimo, cercando di convincerlo a fermarsi. Il consiglio è quello di assecondarne l’invito, perché qui tutto quello che il bosco è capace di raccontare alla fine lo si trova dentro il piatto. E il goloso sa che le ricette hanno quella fascinazione curiosa che sa imbastire narrazioni sorprendenti negli intingoli che hanno sempre la capacità di consolare dalle fatiche dell’andare. Varcare la soglia significa ritrovarsi in un ambiente rustico, accogliente, dove la pietra e il legno dialogano tra loro raccontando la fatica degli umani. Un bel fogolâr arde anche in estate, dal momento che l’altitudine qui invita a ricercare il tepore del fuoco. E ce n’è per tutti i gusti. Prima di rimettersi sulla strada inseguendo la vaghezza del passo e la meraviglia del guardare. Questa è anche terra aspra di forre, inghiottitoi e abissi, che nei secoli hanno saputo ingenerare lo stupore delle leggende. Fate, genti prodigiose, miracoli e demoni hanno popolato le contrade che la strada attraversa e che si confondono con le ombre. L’Abisso del Col della Rizza, il Buso Sora, le tante caverne e i numerosi pozzi indicati dalle mappe e dalle cartine che disegnano dettagliatamente questi luoghi dicono tanto di una regione che ha anche un’anima segreta, sotterranea, nascosta al sole. Chi vuole provare qualche brivido in sicurezza non ha che da fermarsi al Bus de la Lum, che in lingua friulana significa il buco della luce. Si tratta di un inghiottitoio carsico, un pozzo vero e proprio, ripido e scosceso. I camminamenti meravigliosamente realizzati per agevolarne l’esplorazione, e che si snodano tra l’asprezza delle rocce e i colori cangianti dell’acqua, conducono in un mondo che gli antichi ritenevano abitato da quelle presenze che davano un’anima alla meraviglia e allo stupore degli umani, incarnandone sogni e paure, come le Agane, fate capaci di incanto come di morte, che si diceva abitassero gli anfratti di questa meraviglia della natura. L’uomo nella sua ferocia trasformò questo sito in un luogo di sommarie esecuzioni dove vennero gettati i corpi di numerosi militari germanici e collaborazionisti fascisti condannati a morte dalle bande partigiane che durante le operazioni del secondo conflitto mondiale si batterono per la libertà di queste terre, rispondendo spesso con ferocia alla ferocia. Un cippo ricorda al visitatore che ciò che non si deve mai smarrire è la pietà nei confronti dei morti, un atto che ci rende e mantiene umani fino alla fine e malgrado tutto. Per quanto lontani dal castello di Caneva, dal quale avevamo mosso i nostri passi in questo straniante percorso, siamo ancora in terra soggetta alle pertinenze del suo distretto, che – come è evidente – si estende per molte decine di chilometri. Si procede mantenendosi dietro alle spalle del monte Cavallo, che da qui ci separa dal resto del Friuli, nascosto oltre la sua groppa poderosa che raggiunge i 2251 metri. È questa la parte più selvaggia della regione, capace di esercitare su coloro che vi si avventurano un fascino davvero profondo. Un paradiso che accoglie esploratori preparati, capaci di salire in quota per godersi lo spettacolo di panorami concessi ai pochi fortunati dotati di quella consuetudine con l’alta montagna che si avvale della giusta attrezzatura. Chi ha il privilegio di raggiungere la cima del monte Caulana può ben godersi, oltre al meritato riposo, uno scorcio invidiabile su tutta la Valcellina, con l’occhio azzurro del lago di Barcis che ammicca dal basso. Gli appassionati conoscono molto bene i ricoveri spartani ma attrezzati, in cui lasciare che piano la notte discenda avvolgendo ogni cosa. Il camminatore che ha la possibilità di assaporare una simile esperienza in questi luoghi dovrebbe essere consapevole del privilegio che gli viene concesso e sarebbe necessario che un giorno qualcuno cantasse tutta la poesia di queste tane – non raggiungibili da chiunque – in cui si può appena srotolare su di una stuoia il sacco a pelo lasciando che la spossatezza delle membra si faccia cullare dalle tante impressioni raccolte lungo i sentieri. Un posto così è il bivacco Val di Zea, immerso nell’immensità sacrale di una faggeta proprio nel cuore della foresta del Prescudin, dichiarata Area Wilderness al 90% per la sua anima decisamente selvatica. Nei suoi paraggi non è infrequente, nel silenzio più assoluto, rimanere incantati dall’apparizione di un cervo o provare la vertigine che solo il volo dell’aquila è capace di regalare a chi ne guarda ammirato gli ampi girari fin dentro gli abissi del cielo. La tentazione è quella di raggiungere da qui il letto del Cellina, ridiscenderlo attraversando le sue forre e visitare una delle valli più interessanti e belle del Friuli, ma il cammino che ci aspetta, in questa peregrinazione sul bordo, è ancora molto lungo. Anzi, siamo appena all’inizio. Così avanti ancora: ci concediamo una pausa al bivacco Frugna, di proprietà del

    CAI

    di Claut, perché è bellissimo, completamente in legno tanto da sembrare uscito da un libro di fiabe. La stufa, al suo interno, non riscalda soltanto il corpo ma anche l’anima, invitando a condivisi tepori. Ci stiamo avvicinando a quel contorno frastagliato di cime meravigliose, scabre e nude che prende il nome di Dolomiti Friulane. Dal 26 giugno del 2009 queste montagne fanno parte del patrimonio mondiale naturale dell’

    UNESCO

    e a buon diritto. Meno famose forse delle loro corrispettive venete, queste montagne esercitano su chi ha la fortuna di intercettarne i profili un fascino indescrivibile: quando il sole le accende, al tramonto, ne infuoca le pareti. L’inverno sembra scolpirle con uno scalpello di ghiaccio e di neve. Si ergono altissime quasi fossero una cattedrale di roccia, e come tale incutono un senso di religioso rispetto in tutti coloro che si accingono a profanarne gli intatti silenzi. Il Campanile di Val Montanaia, che in molti hanno preso a chiamare urlo di pietra, è una guglia modellata dal vento e dalla pioggia in milioni di anni che si slancia verso un cielo di cristallo: nessuno potrà mai definirsi rocciatore esperto senza averne conquistata la vetta. Sono sicuro che la minore frequentazione da parte dei turisti rispetto alle gemelle cadorine abbia preservato il mistero di queste montagne, sottraendole a quella invasione di massa che tende a consumare in fretta la bellezza, piuttosto che a gustarsela con discreta gratitudine nei confronti della natura, che ha saputo modellare con mano sapiente un paesaggio davvero unico al mondo.

    Il Campanile di Val Montanaia (foto di Antonio Di Lorenzo su licenza

    GNU

    Free Documentation License).

    Le valli profondissime di Erto e di Cimolais si incuneano tra queste vertigini, insegnando a chiunque si prenderà il tempo giusto per esplorarle – e qui Chronos non ha diritto alcuno, ma pare restarsene appartato, concedendo a tanta meraviglia una specie di sospensione incantata – che l’uomo, nel corso dei millenni, ha saputo firmare un patto tacito con la terra, condividendone i segreti assieme alle piante e agli animali. L’architettura spontanea di questi luoghi, che della pietra e del legno ha fatto i suoi materiali di elezione, si dischiude al passo del viandante in una successione di piccole piazze, pozzi e fontane, cappelle votive capaci di ricordare che la pietà religiosa altro non è che un modo per ringraziare l’Assoluto di quel precario e meraviglioso dono che è la vita, anche quando la fatica per consumarla è durissima, immane. Le creste si succedono una dopo l’altra, quasi a presidiare il nostro itinerario di confine: il monte Borgà, con i suoi scivoli verdeggianti, il monte La Palazza, dove crescono le stelle alpine, lo Zita, che guarda dall’alto la vallata del Piave, la cima dei Preti, che con i suoi 2706 metri si conquista il primato della montagna più alta del pordenonese. E così di cresta in cresta i confini di questa anima selvaggia portano fino alle terre alte di Carnia. Già Forcella Giaf, che sembra quasi un enorme corridoio pavimentato di ghiaioni e massi, annuncia che la vallata dei Forni Savorgnani si avvicina, e con essa l’antica via patriarcale che conduceva verso il Cadore e che seguiva il corso del fiume Tagliamento, acqua sacra al Friuli, perché generativa della sua pianura, sentiero azzurro che per millenni ha unito il Mediterraneo all’Europa centrale. Nasce poco lontano dal confine, al passo della Mauria, ormai Veneto: una piccola polla d’acqua, segnata da un cartello che a malapena si intravvede oltre un paracarro. Ma da quel sommesso gorgogliare tra i muschi e le felci montane sgorga il mistero della sorgente, che resta pur sempre un miracolo grande, tanto che gli antichi ne veneravano il mistero, ascrivendolo alla potenza di quegli spiriti che abitano la natura e le conferiscono una voce: di acqua, di fuoco, di terra o di aria, elementi cosmici di cui tutto si innerva, dagli steli dell’erba al fuoco delle stelle che di notte ardono nelle immense profondità del firmamento. Ma non c’è tempo per indugiare nel sentimentalismo. La strada chiama. E così continuiamo a salire lungo questo percorso immaginario che alla fine, speriamo, saprà restituirci il profilo del Friuli. Un po’ come quei giochi enigmistici in cui si devono unire tutti i puntini, prima di intuire il senso della figura che ancora si cela alla vista. Ed è così che finalmente arriviamo nel territorio di Sauris. Che da solo meriterebbe una lunga digressione. Perché questo splendido villaggio alpino ha una storia del tutto speciale, che ne caratterizza le genti, di cultura germanica, insediate in queste contrade nel secolo

    XIII

    dopo esservi giunte dal Tirolo e dalla Carinzia. E ancora oggi qui si parla un idioma che gli studiosi identificano come discendente dal tedesco medievale. Questa anima ancestrale risuona ovunque qui, e si manifesta anche nella toponomastica. Sauris si chiama infatti anche Zahre. Oltre agli usci delle sue case, costruite secondo i dettami della tradizione antica, i profumi sono quelli di un tempo: dal latte di capra si produce un formaggio di pasta densa, che conserva tutto il profumo del fieno e dei fiori. E il prosciutto affumicato sul legno di faggio è ormai diventato una leggenda che ha oltrepassato i confini della regione contendendo la palma della vittoria ad altri marchi più noti e rinomati. Da qualche anno vi si produce anche una birra non pastorizzata: densa e pannosa, si abbina benissimo ai prodotti che vengono imbanditi in tavola con quella generosità montanara, alle volte ruvida ma sempre genuina e sana, che rende la sosta in questi paraggi davvero speciale per chi ama allacciare insieme le suggestioni del paesaggio naturale con le antiche tradizioni, i riti delle feste che qui conservano ancora tutta la magia di cui sono capaci e il buon cibo. Ma ancora non ci possiamo fermare. Il sentiero che dobbiamo percorrere ci chiama verso nord. Lasciando che la meravigliosa val Pesarina ci scappi in volata con uno scarto tra boschi e prati a discesa libera giù, attraversando uno dei più antichi canali della Carnia, che appunto gli abitanti del luogo continuano a chiamare Cjanal, seguiamo ancora il bordo del Friuli e arriviamo fino all’abitato di Sappada, o Plodn, come la chiamano i suoi abitanti rispettando gli accenti dell’antica parlata pustero-carinziana, uno splendido borgo alpino che con un referendum nel 2008 ha deciso di scavalcare il confine con il Veneto e di riabbracciare la sua antica appartenenza alle genti

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1